Nel corso di una conferenza stampa tenutasi al margine del suo ultimo viaggio in Afghanistan in qualità di Inviato Speciale degli Stati Uniti per la pace in Afghanistan, il consigliere per l'Afghanistan presso l'Amministrazione Trump, Zalmay Mamozy Khalilzad ha, tra le altre cose, affermato che: “gli Stati Uniti si aspettano che un accordo di pace venga raggiunto prima del 20 aprile del prossimo anno, quando in Afghanistan si terranno le elezioni presidenziali”. Non si tratta di un'affermazione di poco conto, dato che proviene da colui che, a tutt'oggi, è uno degli uomini di punta nel campo politico-diplomatico degli Stati Uniti avendo servito il proprio paese in tempi abbastanza recenti prima in qualità di ambasciatore in Afghanistan, poi di ambasciatore in Iraq ed, infine, di ambasciatore presso le Nazioni Unite. Come era prevedibile, tale esternazione è stata accolta da diversi commentatori politici come la conferma che gli Stati Uniti stiano cercando una onorevole via d'uscita definitiva dall'Afghanistan. È paradossale che proprio a Khalilzad sia, infine, toccato l'onere di negoziare la “resa” della strategia americana in Afghanistan, essendosi egli distinto in tempi non sospetti come uno dei primi firmatari del cosiddetto “Project for the New American Century”, il 26 gennaio 1998, oggi universalmente definito come il primo “atto pubblico” del movimento dei cosiddetti “Neo-Con”.
In realtà, la decisione da parte americana di procedere ad un progressivo “disimpegno” dall'Afghanistan risale almeno al primo mandato della presidenza Obama. Nel 2009 l'allora comandante in capo delle forze ISAF, generale Stanley McChrystal, si era reso protagonista di un'inaudita presa di posizione pubblica contro la politica attendista della Casa Bianca colpevole di negargli 30-40.000 uomini di rinforzo a suo dire indispensabili per “degradare” le capacità militari dei Talebani. Prevedibilmente, McChrystal venne rimosso e Obama procedette invece all'inaugurazione di un programma di progressiva “afghanizzazione” del conflitto, spostando le truppe americane ed ISAF in un ruolo di supporto e cedendo alle Forze di Sicurezza Afghane il compito di portare avanti i progetti di pacificazione del paese, soprattutto nelle zone rurali. Tuttavia, ad oltre 17 anni di distanza dall'invasione americana ed internazionale del paese, e a 9 dall'inizio del programma di “afghanizzazione”, la situazione oggettiva sul terreno suggerisce che, purtroppo, il paese non sia affatto sulla via della pacificazione.
Nonostante l'azione congiunta delle forze ISAF e delle Forze di Sicurezza Afghane (rincalzate da un buon numero di “mercenari contractors”!) abbia cagionato ai Talebani oltre 100.000 morti nel corso degli anni, la resistenza non è stata fiaccata, ed anzi dal 2015 ad oggi ha visto persino una recrudescenza tanto da poter ora controllare oltre la metà dei distretti del paese. Non solo, mentre nei primi anni dopo il 2001, le forze talebane operavano in prevalenza nelle zone abitate dai Pashtun, essendo il movimento degli “Studenti Coranici” essenzialmente espressione del nazionalismo culturale esasperato della più importante fra le etnie del paese, oggi i Talebani hanno notevolmente ampliato il loro raggio d'azione facendo numerosi “proseliti” anche nelle aree abitate tradizionalmente dalle etnie nemiche dei Pashtun (Tagiki, Uzbeki, Turkmeni, ecc...).
Ne sembra che i cambiamenti strategici apportati da Trump abbiano sortito alcun effetto tangibile. Una volta preso il potere, infatti, il nuovo inquilino della Casa Bianca aveva annunciato una recrudescenza dell'impegno militare a stelle e strisce. Nelle parole del presidente-tycoon, il nuovo impegno americano non era più rivolto a sostenere le campagne di pacificazione, né a ricostruire il paese, ma solamente ad “uccidere i Talebani”. Su questo filone si inscrive l'aumento indiscriminato dei bombardamenti aerei sia sul territorio dell'Afghanistan che nel vicino Pakistan che, seppur provocando un sensibile aumento nelle perdite del nemico, ha causato anche un maggior numero di perdite civili, specialmente alla luce del fatto che l'intelligence sia americana che afghana pare non abbia sul terreno assets sufficienti a supportare lo sforzo “aereo” con un costante e preciso flusso di informazioni.
Valutando i crudi dati della statistica, i numeri paiono impressionanti; dall'inizio del 2018, gli Stati Uniti hanno sganciato un numero record di bombe ed altro munizionamento in comparazione con tutti gli altri anni dell'impegno americano in Afghanistan a partire dal 2006, quando sono iniziate queste rilevazioni. Secondo i dati forniti dall'U.S. Air Forces Central Command, nel periodo compreso tra gennaio ed ottobre del 2018, le forze aeree statunitensi hanno complessivamente sganciato in Afghanistan 5.982 ordigni di vario tipo nel corso di 6.600 sortite operative, il 12% delle quali costituito da missioni di bombardamento. Un decisivo aumento rispetto all'anno 2017, il quale pure era stato caratterizzato dal primo utilizzo operativo in assoluto della mastodontica GBU-43/B MOAB (Massive Ordnance Air Blast, nella foto), anche nota colloquialmente come “la Madre di Tutte le Bombe”, sganciata il 13 aprile del 2017 nel corso di un bombardamento nella località di Nangarhar, nel distretto di Achin.
Adottando una visione di lungo periodo, non è difficile notare come la campagna di bombardamenti aerei promossa dall'Amministrazione Trump si inscriva in una normale “recrudescenza” del conflitto in quel martoriato paese. Secondo i dati pubblicati dal “Liberty Report” del 21 giugno del 2018, il quantitativo di bombe lanciato dagli Stati Uniti su base giornaliera in Afghanistan è passato da 24 bombe al giorno nel corso della presidenza di George Bush junior a 30 bombe al giorno nel corso della presidenza di Barack Obama fino a toccare quota 121 bombe al giorno nel corso dell'attuale presidenza Trump (approssimativamente 1 bomba ogni 12 minuti!) senza che ciò si traducesse in un reale spostamento degli equilibri militari e politici a favore del governo afghano, degli Stati Uniti e della coalizione internazionale. Non solo, mentre i Talebani ed il network di al-Qaida hanno visto progressivamente rimpolpare le proprie forze, dal 2015 a questa parte persino l'ISIS ha manifestato prepotentemente la sua presenza creando gravi problemi tanto al governo afghano quanto ai Talebani stessi, i quali hanno da allora dovuto convivere con una forza ideologicamente allogena che si è però dimostrata in grado di fare rapidamente “proseliti” anche in terra afghana.
La totale disarticolazione della strategia occidentale nei confronti dell'Afghanistan è ben rappresentata dalle diverse prese di posizione da parte dei vertici dell'Alleanza Atlantica e degli Stati Uniti nelle ultime settimane. Se il 3 dicembre del 2018 il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg (nella foto, a dx), affermava che “in nessuna circostanza la coalizione internazionale si sarebbe ritirata dall'Afghanistan”, il 19 dicembre, al momento di annunciare il ritiro delle truppe dalla Siria, il presidente americano Trump annunciava invece un dimezzamento del contingente americano in Afghanistan.
È evidente che, a fronte degli sforzi e dei denari profusi, l'Afghanistan si sia dimostrato un territorio troppo ostico per la potenza a stelle e strisce e che, al fine di evitare una sconfitta militare conclamata, i settori più lungimiranti dello stato profondo americano si siano ormai convinti ad accettare una inevitabile uscita di scena da un pantano che ancora una volta ha confermato la sua proverbiale fama di “cimitero di imperi”.
(foto: U.S. Marine Corps / U.S. DoD / Twitter)