È destino che gli imperi, quando sono di mezzo, si protendano fino ai punti – apparentemente – più impensabili; sono entità geneticamente imperiali, ancorché gli appellativi siano ora variati secondo rimodulazioni politicamente più corrette ma praticamente non veritiere.
L’onda economico-politica cinese negli ultimi anni si è spinta così velocemente e così lontano da creare forti instabilità risacche in istituzioni fondamentalmente vulnerabili ed incapaci di gestire e comprendere rischi di particolare e non immediatamente rilevabile entità: il Dragone è come un rain man che offre false alternative e soluzioni a chi è in difficoltà, un investitore pronto ad esaltare carenze macroeconomiche e di governance, minando stabilità politico-economica e capacità di consolidare il consenso1.
I quadranti europei centro meridionali ed orientali sono quindi divenuti entry point ideali per la Belt and Road Initiative, grazie a brecce ideologiche e finanziarie non presenti sulle mura occidentali. Considerato che gli obiettivi cinesi si sostanziano nell’incremento dell’export, negli investimenti, nell’esercizio di un'influenza politica funzionale ai primi due target promuovendo un'immagine positiva di Pechino, il modello imperiale di business trova terreno fertile laddove istituzioni e contesti normativi sono deboli, rischiando peraltro una sorta di trickle-down effect, lo sgocciolamento associato alle politiche di Ronald Reagan, per cui i traffici globali lasciano benefici limitati nell’economia locale. La celeste politica coltiva rapporti bilaterali, cerca impatti politici regionali a più ampio spettro per arrivare ad influenzare sia l’ambito europeo che quello transatlantico.
Il Covid ha ulteriormente alimentato un mellifluo soft power con la fornitura di attrezzature e prodotti farmaceutici, puntando direttamente alle élite finanziarie, politiche, accademiche; peccato che, specie in Asia, dopo la crisi del 2008 si sia manifestata l’impossibilità di mantenere le promesse fatte, e si sia associato il timore per un modello che, nel tempo, ha mostrato la reale struttura autoritaria del sistema cinese. La marittimità della BRI, fondata su efficienza, volontà politica e costante accessibilità delle strutture costiere e portuali cinesi, è divenuta la chiave di volta della strategia di espansione pechinese, fondata su infrastrutture di trasporto, energia, comunicazione.
Il think tank olandese Clingendael ha evidenziato l’influenza strategica del Dragone negli ultimi anni: in coordinamento con il governo, la componente marittima ha coperto i settori delle costruzioni navali, della navigazione, della logistica, della costruzione e gestione delle infrastrutture portuali; la Grecia, con il porto del Pireo, è divenuta il miglior laboratorio possibile per la sperimentazione delle tecniche di penetrazione cinese. Non a caso una delle principali imprese per spedizioni e portacontainer al mondo, la COSCO Shipping, è cinese; primo investitore nel Mediterraneo, dietro solo a Maersk e MSC2, nonché leader nei servizi integrati di logistica e approvvigionamento, le sue quote di maggioranza sono distribuite tra Partito Comunista e Sasac3, la commissione di controllo delle società pubbliche cinesi, cosa che di fatto rende COSCO una società pubblica4.
Dopo l’invasione dell’Ucraina, COSCO non ha interrotto le consegne da e verso la Russia e di greggio verso la Cina, continuando ad interpretare un ruolo essenziale nel sistema logistico della fusione militare-civile5: è vero che la marina cinese all’estero è stanziata solo a Gibuti, ma rifornimenti e supporti logistici sono disponibili ovunque ci sia COSCO.
L’obiettivo politico di COSCO non si limita dunque al Pireo, ma orienta anche il traffico di container nel Mediterraneo, aspetto che conduce all’Italia e su diversi suoi hub, e sulla possibilità di implementare una strategia che si estende al trasporto su rotaia6, mentre l'UE sta sviluppando TEN-T (Trans European Transport Network), rete di trasporto multimodale, in cui la Cina vorrebbe entrare, ma dove trova una barriera nel sistema comunitario di monitoraggio degli investimenti esteri.
L’espansionismo cinese, che investe prevalentemente in porti di medie dimensioni per poi trasformarli in hub principali, intende allargare le vie commerciali unendo la strada ferrata euroasiatica ai porti europei rendendo operativa la Silk Road Economic Belt secondo una strategia infrastrutturale più vasta che dovrebbe comprendere anche il trasporto via terra.
L’ascesa cinese, dall’ingresso nel WTO, è stata alimentata da forti incrementi delle esportazioni; dato che l’80% del commercio planetario avviene via mare, il controllo delle reti marittime è stato fondamentale nella strategia di Pechino che ha volto il suo interesse su molteplici porti italiani: Trieste, in cui la Germania potrebbe essere vista come un cavallo di Troia cinese, Genova, Vado Ligure7, Palermo8, Venezia, Ravenna, Gioia Tauro9. Il porto di Taranto, centro intermodale e logistico che guarda a Suez rientra nel raggio d’azione della BRI, e ha attirato l’interesse del gruppo CCCC (China Communication Construction Company) insieme con Genova.
La penetrazione economica cinese sul territorio nazionale ha evidenziato tassi di crescita costanti, e si è accresciuta sia con l’aumento dei flussi di investimenti dalla Cina, sia con l’aumento della percentuale dei proventi di imprese italiane a controllo cinese10; le acquisizioni sono sistematiche, ad ogni livello, in ogni settore a valore aggiunto più elevato o più strategico11; va anche considerato che gli investimenti vengono spesso effettuati grazie ad attori che coprono l'identità del vero finanziatore.
Tutto facile? No, anche il capitalismo di stato è oggetto di sorprese: Covid, debito e rischio default mettono a rischio la crescita del Pil fissata dal Plenum ad almeno il 6%. La contrazione dei consumi intimorisce, le piccole e medie imprese vanno in sofferenza, le vendite di immobili calano insieme ai tassi prime rate12: le centinaia di miliardi di dollari di debiti della bolla speculativa immobiliare Evergrande, società tecnicamente fallita, sono pronti a deflagrare; se si pensa che la crisi è stata innescata dalla stretta al credito e dall'introduzione della politica delle tre linee rosse13, qualche dubbio sulle capacità creditizie della BRI insorge, giustificando il formarsi di un’alea fortemente critica.
Se revisionismo europeo c’è stato, l’Italia nel 2019, ne è stata immune firmando un Memorandum of Understanding che, seppur non vincolante dal punto di vista obbligazionario, ha lanciato un segnale politico allarmante14; un memorandum ritenuto peraltro da subito inattendibile dal Torino World Affairs Institute.
Se da un lato l’esecutivo italiano ha avventurosamente puntato al mercato cinese, all’accrescimento degli investimenti del Dragone, ed all’impegno all’acquisto di debito pubblico tricolore, dall’altro ha approfondito la faglia atlantica impedendo l’assunzione di una posizione comune in ambito europeo, indebolendo Washington e Bruxelles nei rapporti con Xi, e soprattutto, con uno spettacolare autogol, l’Italia stessa nel consesso internazionale.
Confondere il piano politico con quello economico è stato un errore marchiano ed imperdonabile: l’Italia guardava leggiadramente al commercio mentre la Cina non si distaccava da valutazioni geostrategiche.
L’imperatore peraltro non è "buono"; il regime cinese ha perseguito costantemente una politica di rappresaglie contro i punti commerciali vulnerabili dei soggetti che hanno intaccato in qualsiasi senso i suoi interessi, come accaduto con Norvegia, Corea del Sud, Canada, Australia; ed anche con l’Italia, redarguita e limitata nella sua sovranità dall’ambasciata di Roma, per la conferenza stampa del dissidente Joshua Wong. Il principio cinese della non ingerenza è quindi da considerarsi ad esclusiva geometria variabile in funzione delle circostanze e della presenza delle Gongo (Government-organized non-governmental organization) come la Società di promozione della cultura cinese (Ccps) e l’Associazione di ricerca della cultura cinese Yan Huang (Ayhcc), ambedue sotto la guida del ministero della Cultura e del Turismo, e degli Istituti Confucio, che presso diverse università hanno lo scopo di promuovere lingua e cultura cinese senza mai trattare argomenti come diritti umani, libertà religiosa, Hong Kong e Tibet15. Non a caso Francia e Svezia hanno chiuso gli Istituti, progetto finanziato dal governo cinese.
La BRI, in questo contesto, gioca un ruolo da game changer per chi vi aderisce, in funzione dei ruoli ricoperti, dei risultati concretizzati, dell’impatto sugli equilibri politici determinati dalle alleanze preesistenti; l’utilità strategica italiana risiede nelle infrastrutture portuali utili a consentire l’accesso evitando i paesi fuori area Schengen sbarcando sul versante adriatico, al centro del Mediterraneo, a metà tra Europa occidentale ed est, risparmiando giorni di navigazione.
Il problema cinese è il trasformismo della politica italiana, per cui poco importa che in poco più di 2 anni ben poco si sia fatto, e che alcuni ministri di particolare rilevanza abbiano conservato il cadreghino ma non la visione strategica, evidentemente a suo tempo appannaggio di pochi eletti, poco interessati alle definizioni caratterizzanti il Paese: ventre molle, preda perfetta, tutte oleografie che riportano alla memoria le impietose ma veritiere immagini prodotte dalla concreta fantasia di Churchill. L'asimmetria conoscitiva che si è evidenziata tra gli organi del Partito Comunista Cinese e gli obiettivi italiani è stata diventata un’effettiva vulnerabilità che ha reso le istituzioni politiche bersagli statici.
L’arrivo dell’esecutivo Draghi ha invertito in senso lato l’approccio cinese, non a caso ricorrendo ripetutamente alla tutela del golden power in tema di semiconduttori, di produzione agricola, avviando accertamenti sui tentativi di prendere il controllo di un’azienda produttrice di droni, mettendo paletti sul 5G, rinunciando alla costruzione di componenti per la nuova stazione spaziale cinese.
È quasi immediato il chiedersi cosa sia accaduto nell’immediato prima, con il maldestro tentativo di creare un incoerente fronte incapace di discernere tra alleanze, interessi, storia e desideroso di giocare levantinamente in contemporanea su due tavoli.
Il problema sta nel capire se il Paese è attualmente ancora in grado di ispirare la fiducia che è stata faticosamente ricostruita ed altrettanto rapidamente compromessa; del resto non ci vuole poi tanto per concludere che Bruxelles teme che i fondi del PNRR possano prendere la setosa strada per Pechino, ostacolata nel Pacifico dalla Build Back Better World americana, o dalla Global Gateway europea.
Diciamocela tutta: è veramente da pochi riuscire ad incrinare in versione multilivello i propri rapporti diplomatici. Prova ne sono gli investimenti tedeschi sul porto di Trieste che potrebbero vedere in futuro partecipazioni cinesi, l’attenuazione della collaborazione con Huawei, l’allerta per le mire cinesi su Taranto e l’attenzione degli apparati di sicurezza per le mire cinesi a Taranto16, piazza peraltro penalizzata da una profonda crisi economico sociale.
Del resto, va detto che appena un mese dopo l’accordo con la Cina, il governo in carica ha proceduto all’approvazione del progetto giapponese per una regione indo pacifica libera e aperta, apponendo così il sigillo a due progetti concorrenti e tra loro incompatibili.
Versatilità diplomatica, inaffidabilità o semplice ma pericolosa incompetenza secondo un trend storicamente usuale che riporta alla memoria la fluida politica del valzer del cancelliere von Bülow? È pur vero che, negli anni, il fascino cinese ha colpito molti dei maggiorenti politici italiani, a partire da Prodi, passando per D’Alema, Renzi, Gentiloni, fino ad arrivare a Conte, evidentemente poco attenti alla differenza di significato tra partner e competitor.
A ben vedere i risultati di oggi non possono che essere il prodotto degli errori di ieri; non sono certo di oggi le infiltrazioni straniere nel tessuto commerciale e produttivo italiano che di nazionale, in larga parte, non conserva che il marchio; la pervasività cinese non ha fatto altro che aggravare un quadro di per sé fallimentare. Il Paese era già in una bottiglia: doveva arrivare al collo, visto che anche il Copasir non ha potuto fare altro che segnalare infiltrazioni in campo economico scientifico e finanziario, tra gli altri, da parte di Russia, Francia, Turchia, Iran, non solo Cina; questo senza contare lo spionaggio industriale: secondo Fbi ed MI517, le spie cinesi rappresentano una minaccia sempre più rilevante.
Insomma, l’esercizio del golden power da parte del presidente Draghi non è che la punta di un iceberg profondissimo di un problema a più ampio spettro, che l’apparentemente facile uscita da un MoU politicamente non riduce, viste le incursioni cinesi nella politica australiana. L’attuale crisi economica cinese rallenta i termini del problema, ma di certo non li risolve, anche alla luce della conclamata amicizia sino russa, che completa il quadro di una situazione imbarazzante per l'unico paese occidentale che ha siglato accordi sulla via della Seta.
Va anche rimarcato che il Memorandum non ha generato alcun beneficio economico, tanto che nel 2020 la bilancia commerciale tra Cina e Italia si è aggravata, e il valore dei beni cinesi importati è aumentato.
Che fare dunque nel 2024? L’Italia confermerà o meno la sua adesione alle vie della Seta? Posto che la Cina è diventata un avversario strategico, per dirla alla Churchill, chi spiegherà nella bocca di quale tigre è stata messa la testa? E soprattutto, chi dirà in chiaro, senza perdere altro tempo, chi ha messo l’Italia nelle condizioni di mettere quasi 60 milioni di teste in fauci così pericolose?
1 La Grecia ha aderito alla Piattaforma 16+1 finalizzata agli scambi diplomatici e economici tra Cina e Paesi dell’Europa centro-orientale. La piattaforma raggruppa 17 nazioni dell’Europa centro-orientale, di cui 12 membri dell’UE, e sostiene le iniziative della BRI in Europa.
2 Mediterranean Shipping Company
3 State-owned Assets Supervision and Administration Commission of the State Council
4 Cosco controlla il 100% del Pireo, gestisce 2 dei 3 terminal attraverso la controllata Piraeus Container Terminal (PCT), con partecipazione di Cosco Pacific al 40%; controlla operativamente il terzo terminal grazie alla quota di maggioranza dell’Autorità Portuale di Atene, che nel 1999 ha assunto forma societaria e nel 2003 si è quotata in borsa. Da notare l'acquisizione del Long Beach Port in California attraverso la controllata Cosco di Hong Kong
5 Definizione di Jane’s
6 Dal 2013 la Cina ha acquisito quote in 14 porti europei in Francia, Belgio, Grecia, Malta, Turchia, Spagna, Italia, nel Mare del Nord.
7 Cosco è presente nel porto di Vado Ligure come partner al 49% della Maersk. La Port Authority di Singapore controlla il porto di Voltri – Prà
8 Secondo Alberto Pagani, deputato del Partito democratico e membro della commissione Difesa della Camera e della delegazione parlamentare presso l’Assemblea parlamentare della Nato, un caso come quello del Pireo in Italia “non potrebbe realizzarsi”, a meno di un “cambiamento alla natura delle autorità pubbliche, che sono un soggetto regolatore.
9 Fino al 2016 la COSCO era socia al 50% del terminal Conateco di Napoli
10 Dati Copasir
11 Relazione Volpi, Borghi, Castiello
12 Tasso d'interesse privilegiato applicato dalle banche sulle operazioni d'impiego, non garantite in conto corrente, ai loro clienti più solidi con depositi di una certa entità
13 riduzione forzata del livello di indebitamento delle istituzioni finanziarie per migliorare la finanza del settore immobiliare
14 In precedenza l’Italia ha preso altre decisioni percepite come favorevoli alla Cina, come il parere contrario al meccanismo di controllo degli investimenti cinesi da approvare a livello di UE, e l’ambiguità in merito alla reazione alla repressione cinese a Hong Kong, sfiorando il voto al candidato cinese alla guida dell’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale (WIPO), contro il parere degli alleati.
15 Vd. Antonio Selvatici, giornalista e docente al Master di Intelligence economica presso l’Università degli Studi di Tor Vergata
16 Alla turca Yilport Holding è stata affidata per 49 anni la gestione del terminal container tarantino. Il problema è insorto nel momento in cui si è reso noto che la società turca è in affari con la Cosco.
17 Financial Times
Foto: Xinhua / presidenza del consiglio dei ministri