Non vogliamo parlare di neurologia, o affrontare tematiche legate al funzionamento del nostro cervello o dell’inconscio, poiché oggi la parola Memoria assume un significato concreto, che sfugge dall’astratto delle nostre sinapsi al fine di concretarsi in un momento storico doloroso. Un periodo in cui il mondo sembrò impazzito e la culla della civiltà europea – la Germania, ma è bene stamparselo in testa NON SOLO la Germania – diventò preda di una forza demoniaca incontrollabile.
Ogni 27 gennaio ricordiamo tutti la Shoah, lo sterminio del popolo ebraico, ma non solo: nella lista dei martirizzati dalla barbarie nazista si annoverano, infatti, tutte quelle persone non conformi ai canoni dettati dal regime. Omosessuali, avversari politici, zingari, casi psichiatrici, liberi pensatori, tutti potevano cadere vittima della macchina trita uomini messa in piedi da Hitler e i suoi fedelissimi cani delle SS (con tutto il rispetto per i cani).
Intorno alla Shoah il popolo ebraico ha scolpito un’ennesima sfaccettatura della sua complessa identità, la cui forma deriva da una sofferenza che gli ha accomunati e resi più forti.
L’eliminazione sistematica degli ebrei nella Seconda Guerra Mondiale è stata certamente una tragedia immane inconfutabile, sebbene ancora oggi resistano polemiche e bieche affermazioni tra i negazionisti e coloro che si affannano a trovare un alibi per quegli assassini, appellandosi ad un fantomatico “senso del dovere” della canaglia nazista. Ma ancora peggio sono i pochi fanatici che inneggiano a quei momenti come la massima espressione della difesa di una utopica purezza razziale la cui scientificità è degna oramai dei migliori racconti di fantascienza. Per molti le leggi razziali e la discriminazione rappresentano un modello al quale ispirarsi per mostrare davvero cosa significhi rafforzare l’orgoglio nazionale!
Eppure come ogni anno siamo qui a chiederci perché continuare a ricordare questo giorno, perché rispolverare fatti che non fanno comodo a nessuno, ma che tutti vorrebbero cancellare o dimenticare per opportunismo politico o per un semplice senso di pudore.
La deportazione e lo sterminio hanno avuto un colore politico, sebbene ogni volta che si menzioni questo avvenimento si scatenino i nostalgici “nazisti della porta accanto” che rammentano al mondo anche le stragi commesse dai comunisti. Fanno bene, certo, hanno ragione ad affermare che anche la feccia stalinista commise eguali nefandezze, e lo vogliamo fare anche noi sostenendo così la loro tesi, aberrando con decisione tutti i nazionalismi e i totalitarismi. È sacrosanto che tutte le fedi politiche, in egual misura, si cospargano il capo di cenere per espiare le loro colpe.
A parte le tesi strampalate dei negazionisti imbecilli, è più opportuno soffermarsi su quanti, ancora oggi, imputino agli ebrei colpe, generalizzando su questioni che non hanno raffronto rispetto la Shoah, puntano il dito contro Israele e la questione palestinese. Nell’iconografia araba è sempre più comune vedere equiparata la stella di Davide alla svastica nazista: un accoppiamento improprio, banale, senza alcun senso. In primo luogo è bene specificare un concetto molto importante: il binomio ebraismo ed Israele non è assolutamente scontato. Ebreo non significa israeliano ed Israele non è solo la patria degli ebrei. Sono due entità simili, ma diverse, poiché anche molti arabi sono cittadini israeliani e di certo non bramano lo sterminio dei palestinesi. Qui stiamo parlando di un contesto pluralista, dove all’interno di un governo (a diverse riprese favorevole o meno al dialogo con la controparte) esiste una minoranza che parla, si arrabbia e polemizza con la politica israeliana nei territori.
Esiste poi un secondo ordine di questioni, questa volta legate a problemi più vicini all’Europa e alla recrudescenza di molti partiti di estrema destra che sventolano con orgoglio la croce uncinata nelle loro parate.
Dal 1939 al 1945 non un fremito di voce si levò in difesa di quanti stavano per essere massacrati dai nazisti: furono gli anni dello sterminio, ma soprattutto furono gli anni del silenzio in cui tutti sapevano, molti erano complici e nessuno fece nulla (neanche tra gli Alleati occidentali). La vergogna più grande fu proprio questa: il silenzio assenso che molti stati satellite alla Germania nazista – Italia in primis – applicarono per proprio comodo e stolta sudditanza. Ma non fu soltanto un problema governativo, giacché questa accondiscendenza mista a paura coinvolse tutte le persone che erano al corrente di quanto si faceva nei campi di sterminio: si voltava la testa, coscienti del fatto che probabilmente era l’unico modo per stare meglio.
Perché gli ebrei? Perché gli zingari o gli omosessuali? Perché i diversi?
L’olocausto ha una radice profonda e ramificata, che va ricercata nel malessere di un popolo umiliato e costretto a lottare con problemi quali occupazione, sopravvivenza quotidiana, e un orgoglio nazionale offeso. Adolf Hitler e i suoi proseliti sfruttarono in modo magistrale questi sentimenti, cercando soluzioni pratiche, ma soprattutto offrendo ai tedeschi, su un piatto d’argento, il colpevole di tutte le loro disgrazie, quello su cui tutti potevano sfogare la propria rabbia repressa. Per i nazisti il ritorno alla gloria della Germania era possibile solo attraverso l’annientamento fisico dell’opposizione e dei giudei. La ricostruzione di un orgoglio nazionale – sentimento di per se legittimo – assunse connotati estremi, con la negazione di ogni diritto e principio umano di convivenza e di tolleranza; persino le potenze che avevano vinto la guerra furono ritenute marionette nelle mani degli ebrei.
Allora l’ebreo – che parimenti a cattolici o protestanti aveva dato il suo sangue per il Kaiser nelle trincee sulla Marna – si trasformò in un bieco ratto cospiratore, che occultava le sue presunte ricchezze in lugubri fogne. L’algoritmo propagandistico ideato da Joseph Goebbles fece poi il resto, rivelandosi vincente e terribilmente perfetto.
Dal 1939 in poi tutti i territori calpestati dagli stivali della Wehrmacht assunsero lo status di “riserva di caccia” per Himmler e i suoi sgherri i quali misero in piedi una macchina di morte impressionante, gestita da altrettanti spietati e frustrati burocrati che nel nazismo trovarono il loro motivo di elevazione sociale. La grande Hannah Arendt ha riassunto tale psivologia contorta e diabolica nel suo capolavoro sulla Banalità del male secondo cui i demoni non sempre hanno il volto di mostri, ma spesso si celano dietro una anonima e sconcertante banalità.
La cosa che fa più arrabbiare è che nulla di quanto è successo sia servito a qualcosa, poiché lo sterminio e la deportazione seguitano tutt’oggi a livello globale. Muri da erigere, o già eretti, sopra i quali si elevano politici animati da odio, sventolando a favore del popolo gregge sogni di pace, sicurezza con famiglie felici che banchettano su verdi prati.
Attenzione però, giacché le false promesse e la creazione del nemico genera per forza di cose una reazione, anche tra quelli che, in apparenza, non farebbero male ad una mosca. Inoltre la presenza di un “nemico a tutti i costi” forgia una generazione di vigliacchi pronta a rifuggire dal confronto, ma intenta a ricercare un miglioramento delle proprie condizioni attraverso l’eliminazione degli ostacoli piuttosto della crescita personale. Ecco perché abbiamo il dovere morale di ricordare, ma soprattutto divulgare il significato di cosa significhi la Shoah. L’affermazione di un popolo, di una volontà nazionale e del benessere collettivo non può avvenire a discapito di qualcun’altro, sebbene sovente sia molto più facile criminalizzare un diverso che non affrontare i fantasmi delle propria incompetenza.
Quello che si chiede oggi non è tanto la forza della Memoria, quanto il coraggio di non abbassare più lo sguardo di fronte a simili orrori.
Foto: Giorgio Bianchi