In risposta all’attacco militare russo all’Ucraina, il presidente Biden ha chiamato il mondo a raccolta lanciando una vera e propria crociata contro la Russia di Putin.
Il tono dell’adunata ha un ché di messianico, in classico stile statunitense (ricordiamoci la “Global War on Terror “ lanciata da Bush dopo l’attacco alle Torri gemelle” ).
Le armi che si intendono usare sono essenzialmente di tre categorie: militari, economiche e psicologiche. Tutte tendenti a provocare in primis un “regime change” a Mosca.
Chi scrive non intende assolutamente disquisire sul fatto che vi sia stata indubbiamente un’aggressione militare della Russia a spese dell’Ucraina, che Mosca sia inequivocabilmente l’aggressore e l’invasore, né si intende in questa sede disaminare in merito alle eventuali responsabilità di tutte quelle entità che hanno consentito ad una crisi, le cui origini sono abbastanza remote ed erano più che note, di degenerare in un conflitto aperto in Europa.
Si vuole invece tentare di capire, al di là dell’evoluzione del conflitto in Ucraina, quali potrebbero essere le conseguenze in termini di equilibri di potenza futuri e quale sia l’efficacia della strategia “o con noi o contro di noi” che gli USA stanno adottando in questa guerra militare e economica.
Tralasciando l’aspetto prettamente militare del conflitto (quale, ad esempio, la tipologia di supporto e di armi da fornire all’Ucraina), pare che gli obiettivi più importanti si intendano perseguire con una intensa”guerra economica” contro Mosca e con una martellante “Strategic Communication Campaign” tendenti ad isolare sia la Russia sia qualunque altra nazione intenda continuare a mantenere con Mosca rapporti di interscambio commerciale e culturale.
Ad oggi i risultati di questa strategia tendente a fare terra bruciata intorno alla Russia non sembrerebbero particolarmente confortanti. La politica del “o con me o contro di me” lanciata da Biden potrebbe essere percepita da parti terze come più o meno ricattatoria, ma questo non è l’aspetto più importante. Il punto è che si tratta di una politica la cui efficacia va scemando man mano che diminuisca il bisogno delle parti terze di accontentare gli USA.
Ad oggi il fronte dei paesi che stanno seguendo le indicazioni USA (taluni con forti mal di pancia) appare limitato ai suoi “alleati storici”: UE e NATO (meno la Turchia che si è ritagliata un ruolo super partes), Giappone, Sud Corea, Australia, Nuova Zelanda.
Non solo USA e UE hanno ricevuto una risposta diplomatica ma abbastanza sprezzante da Pechino quando hanno chiesto alla Cina di voltare le spalle al loro alleato russo, ma anche i paesi OPEC hanno dimostrato estrema freddezza nei confronti delle richieste statunitensi di incrementare le loro estrazioni per compensare il bando imposto all’acquisto di greggio e gas russo.
In sintesi, l’iniziativa statunitense non pare accogliere consenso da nessun altro paese significativo di Asia, Africa o America Latina. Continenti questi dove il concetto di “invasore” e di “guerra di aggressione” viene quasi sempre correlato agli USA o al massimo alle passate mire imperiali e coloniali di paesi europei (Gran Bretagna, Francia, Spagna, Portogallo, Germania, Italia) o asiatici (Giappone) oggi tutti schierati con Washington.
Soprattutto, però, mentre venticinque anni fa un aut aut del genere da parte di Washington sarebbe stato accettato forse in tutto il mondo, per convenienza se non per convinzione, il quadro geo-politico globale è oggi cambiato.
L’imperialismo commerciale cinese ha fatto sì che ormai Pechino rappresenti LA potenza economica di riferimento per buona parte dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina.
Inevitabile che, stante la posizione cinese, l’aut aut commerciale imposto da USA e UE ad attenersi alle sanzioni decise a Washington e Bruxelles possa avere scarsa appeal al di fuori della comunità nord-atlantica.
Ciò non solo ne vanificherà gli effetti per Mosca ma accelererà quei processi di polarizzazione del mondo in due blocchi politico economici, uno con Pechino come punto di riferimento e l’altro con Washington. In tale contesto è chiaro che verrà accelerato l’emergere di soluzioni finanziarie alternative a quelle che attualmente vedono lo SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Communication) come principale sistema mondiale di interscambio bancario e il Dollaro come principale moneta di riferimento internazionale.
Ma anche l’UE (già sofferente per le sanzioni alla Russia) non potrebbe oggi permettersi che la guerra commerciale avviata contro la Russia abbia un impatto sul suo interscambio commerciale con la Cina (che è oggi il primo partner commerciale dell’UE, con un interscambio di 828,11 miliardi di dollari nel 2021 ).
In conclusione, un approccio “o con noi o contro di noi” non potrà che evidenziare plasticamente il calo di credibilità della leadership politica, economica e militare USA. Leadership che era stata incontrastata dopo la fine della Guerra Fredda, ma che ormai da una decina di anni almeno mostrava segni di debolezza nei confronti del Dragone. Ragionare come se si fosse ancora l’unica superpotenza in un mondo unipolare quando i rapporti di forza sono drasticamente cambiati può rivelarsi estremamente pericoloso per Washington (e di conseguenza per i suoi più fedeli Alleati europei)
Infine, se le sanzioni si prefiggono di portare ad un regime change (come inequivocabilmente dovrebbero prefiggersi a meno che tendano a colpire l’economia europea) occorre notare come un tale risultato non sia mai stato conseguito con le sanzioni economiche (si pensi a Iran o Nord Corea o Venezuela o anche a quelle imposte all’Italia nel 1935). Anzi il risultato è stato spesso di esacerbare la sensazione di accerchiamento della nazione che le subisce. Sensazione che i regimi autoritari sanno come sfruttare a proprio vantaggio.
Insomma, le prospettive "non appaiono favorevoli".
Foto: U.S. Marine Corps / Twitter / Xinhua