Che ruolo riveste effettivamente la Corte penale internazionale nella repressione delle condotte illecite eventualmente sorte durante lo svolgimento di un conflitto armato? Si tratta di un organo assolutamente indispensabile o di qualcosa di cui, all’atto pratico, si può tranquillamente rinunciare?
Per rispondere a tali quesiti è in primo luogo necessario porre in essere una premessa di carattere generale, avente ad oggetto i criteri che ad oggi reggono quel complesso di norme delineanti il corretto svolgimento dei conflitti armati internazionali e costituenti lo ius in bello, per poi poter finalmente trovare una risposta, quanto più soddisfacente possibile, ai quesiti posti.
L’epoca contemporanea si caratterizza, apertamente e manifestamente, in ambito giuridico per la peculiare tendenza a reprimere, mediante l’elaborazione di sempre nuovi strumenti normativi, basati sull’analisi ed inquadramento delle dinamiche sociali e relazioni umane, tutta una lunga serie di comportamenti previsti ed intesi dal legislatore centrale quali nocivi nonché pericolosi per la salvaguardia dei soggetti facenti parte dell’ordinamento stesso.
Quanto premesso si è sostanziato nell’ambito in analisi nell’elaborazione, negli anni, di un’articolata e complessa normativa a livello internazionale, finalizzata, certamente, a garantire l’abbattimento del combattente/avversario durante lo svolgimento del regolare conflitto armato avviato, ma sempre tenendo in considerazione come il singolo soggetto presente sul campo di battaglia non risulti poi essere in concreto l’avversario/Stato - con cui si è instaurato il conflitto che ha portato al ricorso della forza armata - ma solo sua “personificazione momentanea”, in relazione all’evento in analisi. Delineandosi quindi, la sconfitta della forza armata avversaria unicamente come un mezzo per il conseguimento dell’obiettivo politico in forza del quale si è ricorsi allo strumento bellico e non come fine. Ne discende che le disposizioni vigenti, finalizzate a limitare l’impiego di un determinato armamento in guerra, si devono intendere quali volte a “tutelare” il singolo combattente dall’impiego di strumenti finalizzati sì a colpirlo direttamente e, quindi, indirettamente lo Stato d’appartenenza di quest’ultimo, ma che in concreto non sempre comportano un adeguato conseguimento dello “scopo politico” ricercato. Mentre, sicuramente, tendono a provocare e configurare ciò che oggi si definisce come “male superfluo” e “sofferenza non necessaria”, nell’ambito dello ius in bello.
L’interesse alla base dell’intervento normativo in ambito bellico si sostanzia, dunque, nella necessità di addivenire ad un effettivo bilanciamento tra lo scopo perseguito dallo stato/attore, per mezzo della forza armata (necessità militare), e la tutela della dignità del singolo combattente (postulato umanitario).
Alla luce di quanto fino a questo momento esposto, ci si deve interrogare e chiedere come sia possibile, vista la presenza di appositi accordi e trattati internazionali finalizzati a garantire ed assicurare il conseguimento del livello di tutela richiamato, che ancora ad oggi possano sussistere situazioni ove risulti concretamente non represso e sanzionato l’impiego di un armamento o di una strategia bellica altrimenti vietata.
Elusioni dei principi internazionali in bella vista. Un esempio? Il caso dei proiettili calibro 5.56x45 mm.
Tale calibro, risulta esser, ad oggi, assieme al calibro 7.62x51 mm, uno dei due standard adoperati dalla NATO e concordati dagli stati membri al fine di poter stilare una lista di armi standard NATO e, più precisamente, per utilizzare ed impiegare un calibro comune per fucili d’assalto e mitragliatrici (LMG) così che la catena logistica possa essere maggiormente accessibile a livello economico. Risulta bene sottolineare, tuttavia, come la problematica inerente al calibro in analisi non faccia assolutamente riferimento alla lesività intrinseca del colpo ma ai danni collaterali derivanti da un suddetto impiego e che non sembrano affatto rispondere alle esigenze di bilanciamento tra “obiettivo militare” e “diritto umanitario” sopra citate.
Per comprendere quanto esposto è necessaria un’analisi delle caratteristiche intrinseche dei due calibri costituenti lo standard NATO.
Il 5,56x45 mm si presenta più piccolo e leggero rispetto al colpo 7,62, 5,68 mm di diametro (reale) per 44,70 mm di lunghezza (57,40 mm considerando l’intero bossolo) contro i 7,82 mm di diametro (reale) del secondo per 51,18 mm di lunghezza (69,85 mm considerando l’intero bossolo) e più piccolo vuol dire più economico, in relazione ai minori materiali necessari per la sua fabbricazione, più veloce con una velocità media d’uscita di 970/990 metri al secondo contro gli 812 metri al secondo del più lento e pesante 7,62x51 mm e, anche, più leggero (solo 3,6 grammi contro i 9,4 grammi del proiettile 7,62x51 mm), con meno peso che implica a sua volta, in relazione alla strategia militare (allora in uso al momento dell’entrata in servizio della munizione), la possibilità di trasportare un maggior numero di colpi.
Ma se questi appena elencati sono i vantaggi strategici di un calibro inferiore, in relazione agli effetti prodotti una volta colpito il bersaglio, l’effetto lesivo risulta esser il prodotto non tanto dell’energia cinetica trasportata del proiettile, quanto di quella che è ceduta ai tessuti (secondo la relazione tra la massa del proiettile, la sua velocità d’impatto e la velocità residua) e questo comporta, proprio in relazione alla minor massa e maggior velocità del proiettile tipo 5,56x45 mm, una deformazione del proiettile, qualora entri in contatto con superfici dure (come le ossa) capaci di ridurne in maniera più brusca la velocità, delineandosi, quindi, una lesione nettamente superiore rispetto a quella derivante dall’impiego di un calibro maggiore come il 7,62x51 mm. Si badi bene, parlando di lesione in questo caso non si intende far affatto riferimento alla mera lesione fisica, collegata dall’ingresso ed alla fuoriuscita del proiettile dal corpo (non avrebbe senso, in tal caso, la comparazione in oggetto poiché è accertata ed indubbia la capacità di perforazione nettamente superiore del calibro 7,62x51 mm) quanto piuttosto intesa in relazione agli effetti collaterali provocati dalla deformazione dello stesso ed al suo stazionamento nell’organismo del bersaglio (elemento caratterizzante, come visto, il calibro 5,56x45 mm).
Se l’obiettivo dell’impiego di un proiettile, secondo quanto previsto e stabilito dal diritto internazionale, è unicamente l’abbattimento dell’avversario, uno stazionamento (staticamente elevato nella casistica in analisi) nel corpo dello stesso con conseguente deformazione e dolori annessi, porta certamente alla configurazione quelle figure richiamate e definite “male superfluo” e “sofferenza non necessaria”, in forza delle quali viene a valutarsi l’effettiva configurazione di un crimine di guerra.
Quindi, nell’ambito pratico, un atteggiamento scorretto viene concretamente sempre sanzionato? Non sempre, anzi, nella maggior parte dei casi no.
Questo perché l’esempio costituito dalla Corte Internazionale penale è un paradosso, emblema di un vuoto inerente alle competenze devolutele e riguardanti il giudicare certi comportamenti.
Difatti la Corte, il cui Statuto è stato adottato a Roma nel 1988, risulta essere un organo competente solo in relazione ai casi e secondo le limitazioni imposte dallo stesso Statuto poc’anzi citato. Se, infatti, da una parte questa risulta competente a giudicare in relazione ad un ampio catalogo di crimini, riportato appositamente dall’art. 5 comma 1 dello Statuto stesso e tra i quali rientrano anche i crimini di guerra, dall’altra parte, secondo l’art. 12, lo stesso organo risulta aver competenza solo in relazione a quei crimini commessi dagli Stati, o dagli appartenenti, che abbiano sottoscritto lo Statuto. Non godendo comunque, secondo l’art. 17 comma 1 lett. a), di una giurisdizione prioritaria e potendo giudicare solo ove i tribunali nazionali non intendano o non siano effettivamente in grado di svolgere l’indagine o iniziare il processo o, ancora, in caso di mancata sottoscrizione dello Statuto, in presenza di apposita dichiarazione per mezzo del quale lo Stato non sottoscrivente accetta la giurisdizione della Corte per sé, per il proprio cittadino, o per azioni poste in essere sul proprio territorio, in relazione al reato in analisi. Da ultimo l’art. 124 prevede la possibilità per il nuovo stato firmatario di non sottostare alla giurisdizione della Corte per un periodo non superiore a sette anni, o inferiore se diversamente disposto, dalla data dell’entrata in vigore dello Statuto, qualora si tratti di crimini di guerra commessi sul proprio territorio o dal proprio cittadino.
Si evince, dunque, un quadro piuttosto particolare, ove in assenza di sottoscrizione o dell’apposita dichiarazione di cui l’art. 12, viene a delinearsi una situazione di non punibilità poiché non sussiste organo adibito, creandosi qualcosa che potremmo definire quale un “paradosso” inteso come la volontà, sì, di reprimere, in astratto, certi comportamenti e quindi limitare, se non impedire, il compimento di atti configurabili come crimini di guerra, ma che nella realtà oggettiva si traduce nella necessità, da parte del colpevole di accettare, tacitamente, un giudizio a lui svantaggioso. Emerge spontanea la domanda:
Quale colpevole, non sconfitto e conscio di quanto fatto, volontariamente si sottopone alla pena?
Si può affermare, quindi, il come tale sistema concepito richieda, per poter correttamente ed efficacemente funzionare, la necessità di un non irrilevante elemento “morale”, essenziale affinché il quadro di repressione esistente possa dirsi effettivo.
Ma anche in tale ottica, se si ritiene necessario che colui che ha errato si sottoponga volontariamente all’apposito giudizio repressivo previsto a livello internazionale, non si delinea, nuovamente, una situazione paradossale?
Come si può richiedere e pretendere la sussistenza di una così ferrea sfera morale in chi, Stato o persona fisica, volontariamente abbia precedentemente commesso i sopracitati crimini?
Ecco come, se da una parte, emerge, in tutta la sua mediocrità, l’inanità della Corte penale internazionale e della sua giurisdizione a sottoposizione volontaria, dall’altra, si manifesta in modo imprescindibile il come, la stessa Corte, benché costituita con la finalità di coronare un disegno di tutela dei diritti umani, sia in realtà altare vacuo di speranze e sogni che non possono concretizzarsi.
Si presenta necessaria, se si vogliono superare le problematiche rilevate, una profonda e radicale revisione dei poteri attribuiti a tale organo internazionale, che dovrà intendersi quasi come soggetto sovrano e sovrastante gli Stati, dotato di poteri di indagine e repressione non assoggettati ad un preventivo consenso. Bisognerebbe immaginare la nascita di un ordinamento internazionale perfettamente assimilato ad un ordinamento nazionale interno, con gli Stati come cittadini ed un solo potere centrale (ovviamente eletto) sottoposto ad i soli limiti imprescindibili del diritto e non alla convenienza economica degli Stati assoggettati (solo di facciata) alla giurisdizione internazionale o tornaconto degli ipotetici rei, i quali, privi di una ferrea condotta morale, trovano facili modi per sottrarsi al giudizio internazionale.
Questa sembra, a chi scrive, l’unica effettiva e potenziale soluzione condivisibile perché, altrimenti, i paradossi non potranno mai dirsi risolti, le ingiustizie sanate e la Corte penale internazionale un vero tribunale, ma solo un organo di rappresentanza estremamente costoso. Se si vuole veramente attuare una concreta tutela dei diritti umani, garantire il rispetto delle norme dello ius in bello, reprimere le condotte improprie (palesi o meno che siano) dettate dalla natura ferina dell’uomo, allora è necessaria una totale ristrutturazione della concezione internazionale, dei rapporti interstatali, con una conseguenziale riduzione della rilevanza degli interessi economici. Solo così potrà esserci Giustizia, altrimenti, abbracciando la situazione attualmente vigente, ancora una volta l’unica definizione di “Giustizia” può esser solo quella interpretata dai vincitori.
Foto: CPI - ICC / U.S. DoD