La forte competizione per l’accesso alle risorse naturali marine e sottomarine e le conseguenti rivendicazioni sulle aree di interesse mostrano come gli spazi marittimi siano diventati fondamentali per il benessere economico (e quindi sociale) degli Stati. Le tensioni che nascono da questa veemente concorrenza mostrano, una volta di più, come gli aspetti economici abbiano pesanti ripercussioni sulle relazioni internazionali contemporanee e, quindi, anche sugli aspetti securitari di ciascuna nazione.
Ormai ben pochi paesi (e nessuna potenza) puntano su un’economia squisitamente o prevalentemente continentale, mentre tutti gli altri hanno compreso le potenzialità e i benefici dell’”economia blu”. Si sta, infine, comprendendo che la corsa all’accesso alle risorse energetiche sottomarine si aggiunge, per esempio, alla necessità di assicurare la libertà di navigazione lungo le vie commerciali marittime, all’esigenza di provvedere alla sicurezza delle linee sottomarine di comunicazione digitale e delle condutture che portano gas e petrolio dal punto di estrazione fino ai punti di lavorazione. In sostanza, tutto ciò che permette a un paese di crescere e di provvedere al benessere dei propri cittadini. Gli spazi marittimi sono, quindi, diventati indispensabile fonte di ricchezza e di crescita, che vale la pena proteggere, in ogni senso.
È anche per questi motivi che la diplomazia, allo scopo di stemperare gli attriti e creare una rete di relazioni securitarie, sta sempre più ponendo l’accento della sua azione sugli aspetti marittimi sia nelle relazioni bilaterali che internazionali.
In tale ambito possiamo individuare tre settori che, più di altri, costituiscono argomento di interesse specifico e che potrebbero innescare crisi di un certo rilievo: la territorializzazione del mare, le sfide poste dalla pesca illegale e dalla criminalità marittima, le minacce alla libertà di navigazione.
La territorializzazione del mare
La capacità di accesso alle risorse marine e sottomarine sta acquisendo una crescente importanza nelle agende nazionali ed è alla base dello sviluppo degli strumenti deputati a salvaguardare gli interessi nazionali, economici e di sicurezza nel dominio marittimo. Lo sfruttamento delle risorse ittiche, energetiche e minerali del mare potenzialmente moltiplicano i motivi di tensione internazionale, alla base delle quali spesso ci sono rivendicazioni di espansione abusiva delle proprie zone marine, che non tengono conto del diritto internazionale.
La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), che nel 2022 ha spento 40 candeline, ha introdotto delle regole che permettono di delimitare gli spazi marittimi e di individuare i diritti e i doveri dei paesi costieri. Nonostante la generale comune enunciazione, alcuni paesi, come India, Cina e Brasile, hanno tuttavia adottato diverse interpretazioni.
In estrema sintesi, l’UNCLOS definisce tre tipi di spazi marittimi. Le acque territoriali, che si estendono fino alle 12 miglia nautiche a partire dalla linea di base (o di costa). Su queste acque esiste il diritto di passaggio inoffensivo (vale a dire senza effettuare alcuna attività) per le navi battenti bandiera straniera. Esiste poi una Zona Contigua, che si estende per 12 miglia nautiche supplementari. Su queste aree prospicenti la costa lo Stato rivierasco può esercitare controlli di polizia, doganali, sanitari e di immigrazione. Esiste poi una Zona Economica Esclusiva (ZEE), che si estende fino a 200 miglia nautiche, ed entro la quale lo Stato costiero è titolare di una serie di diritti e doveri (leggi “Zona Economica esclusiva e potere marittimo”).
La sua importanza economica e geopolitica appare chiara: in tale zona lo Stato rivierasco esercita, tra l’altro, diritti sovrani in materia di esplorazione e sfruttamento, di conservazione e gestione delle risorse naturali del sottofondo marino nonché sulla colonna d’acqua sovrastante. In tale area lo Stato ha, inoltre, giurisdizione e diritti esclusivi sull’installazione di isole artificiali, sulla ricerca scientifica e sulla prevenzione dell’inquinamento marino.
Questa codificazione delle aree marittime ha, tuttavia, permesso che il principio di totale libertà dei mari, che ha governato il traffico marittimo fin dall’epoca di Grozio, fosse in qualche modo rivisitato, al fine di fornire degli strumenti giuridici internazionali di garanzia e di controllo che permettessero di regolamentare l’accesso alle risorse marine, sempre più ambite. In questo modo, se da un lato la libertà ha potuto essere preservata in alto mare, la definizione di limiti marittimi ha dall’altro lato permesso l’insorgere di nuovi motivi di disputa tra paesi costieri, desiderosi di accrescere il loro potenziale economico e strategico, e favorito il fenomeno conosciuto come territorializzazione dei mari.
Tuttavia, la superficie marina e le acque sottostanti ormai non sono più le uniche ad avere significato commerciale, industriale o geopolitico. Con il progresso tecnologico, infatti, anche le risorse a grandissime profondità e sotto il fondo marino non sono più irraggiungibili e ciò farà prevedibilmente nascere delle ulteriori dispute per il loro sfruttamento. Come per lo spazio e il dominio cyber, quindi, anche le profondità marine rappresenteranno sempre più un settore di rilevante interesse economico e strategico e, quindi, fonte di possibili sfide alla sicurezza internazionale.
La pesca illegale e la criminalità sul mare
Il dominio marittimo, più di altri domîni, mette in evidenza gli attriti derivanti dall’esercizio della sovranità nazionale. Tali sono, come detto, i diritti di sfruttamento delle aree costiere, il riconoscimento delle Zone Economiche Esclusive e l’accesso alle risorse che si trovano in alto mare, in quanto bene comune.
Ma gli spazi marittimi sono anche un ambiente fragile, che va difeso e rispettato, proprio perché fonte di benessere universale. La pesca illegale, per esempio, è un flagello che impoverisce sia le riserve ittiche sia gli ecosistemi marini. Una pratica che ha un impatto economico preoccupante perché non solo priva le comunità di pescatori regolari di lavoro e profitto, ma potrebbe anche arrivare a minacciare la sicurezza alimentare di intere popolazioni e, quindi, potrebbe essere causa scatenante di profonde crisi internazionali. Il fenomeno non è trascurabile dato che, secondo l’organizzazione non-profit statunitense Global Fishing Watch, rappresenta circa il 20% delle catture annuali globali. A ciò si aggiungono le catture illegali di pesci e mammiferi acquatici protetti e la vera e propria violenza che porta a uccidere animali al solo scopo di asportarne una loro parte (vedi le pinne di squalo).
Al vero e proprio saccheggio della fauna ittica si aggiungono altre insidiose minacce correlate agli interessi della criminalità che opera sul mare e che destabilizza i precari equilibri internazionali. Tale è il fenomeno della pirateria che, grazie alla decisa azione di alcune flotte militari, ha ridotto la sua minaccia, ma che non è scomparsa dalle rotte commerciali marittime ed è ancora contraddistinta da un’elevata pericolosità. In tale ambito, va sottolineato come l’area del Golfo di Guinea, importante per il traffico petrolifero con i terminali costieri, sia conosciuta come una zona tra le più pericolose al mondo per la navigazione commerciale. Per dare le dimensioni del fenomeno, secondo l’International Maritime Bureau (IMB) nel 2020 nel solo Golfo di Guinea sono avvenuti assalti a unità mercantili che hanno portato al rapimento di 128 equipaggi, tenuti in ostaggio per garantire il pagamento del riscatto. E ciò si riferisce solamente al 25% degli abbordaggi nell’area (leggi “L’instabilità africana e le sue conseguenze geopolitiche”). Per le altre aree sensibili del pianeta da ricordare che, nel 2021, sui 317 atti di pirateria denunciati nel mondo, l’area dell’Indo-Pacifico (area di Singapore-Stretto di Malacca) ha totalizzato 57 incidenti. Ciò non deve stupire, in quanto i chokepoints sono i punti preferiti per gli attacchi ai mercantili. Tale è, per esempio, l’area del Corno d’Africa che, dal 2010, vede anche in quest’area il continuo efficace impegno di unità militari italiane per fronteggiare il problema.
Il commercio internazionale è, infatti, costantemente alimentato da un incredibile volume di scambi, che si verificano prevalentemente via mare. Non a caso è stata coniata l'espressione "no shipping, no shopping", per sottolineare l'impatto che il commercio marittimo ha sul nostro modo di vivere. Oggi la pirateria rimane, quindi, la minaccia principale ai flussi commerciali via mare. Si tratta di una minaccia variegata, che non prevede ormai più solamente l’abbordaggio del mercantile e la successiva richiesta di riscatto, ma che può includere la possibilità dell’impiego di navi bomba telecomandate, per minacciare l’armatore “da remoto”. La presa di controllo del mercantile, attraverso la penetrazione del sistema elettronico di sicurezza e di navigazione dell’obiettivo, rappresenta un’ulteriore pericolosa novità, che richiede un attento aggiornamento delle contromisure finora adottate, in modo tale da accrescere la sicurezza informatica dei sistemi di bordo.
Da sottolineare, infine, che il fenomeno della pirateria si affianca alla minaccia del terrorismo jihadista, tutt’altro che estinto, per il quale gli introiti delle azioni dei pirati rappresentano una delle fonti di finanziamento. Esempio ne sia il gruppo Boko Haram nel Delta del Niger e il gruppo Abu Sayyaf (affiliato allo Stato Islamico) nelle Filippine. In tale ambito, i terroristi starebbero applicando una sorta di "attacco all'economia mondiale", di cui i flussi marittimi sono uno dei principali pilastri, se non il principale. La crescente collusione tra pirateria e terrorismo, che permette di abbinare le conoscenze nautiche dei pirati alle capacità di pianificazione e di esecuzione dei terroristi, potrebbe avere un effetto moltiplicatore, con rilevanti conseguenze umane ed economiche, alimentando i motivi di contrasto internazionale.
Le minacce alla libertà di navigazione
Tutto il complesso di queste attività criminali non manca di influire negativamente sulla sicurezza delle rotte commerciali marittime e, quindi, sulle economie nazionali mondiali. Qualunque restrizione della libertà di navigazione ha, infatti, un effetto diretto a livello globale, non solo nel breve ma anche nel medio termine. La crisi del Canale di Suez, per esempio, (leggi “L’importanza economica e geopolitica del Canale di Suez”) ha dimostrato quanto le attuali filiere siano dipendenti dalla libera fruibilità delle linee di comunicazione marittime, attraverso le quali viaggia il 90% delle merci mondiali, secondo i dati della International Maritime Organization (IMO). Si tratta di un enorme traffico di merci che percorre quotidianamente queste autostrade liquide.
Per la sua enorme dipendenza dall’approvvigionamento di risorse e materie prime l’Italia è particolarmente esposta a eventuali azioni che interferiscano con la libera accessibilità delle vie di comunicazione marittime. Nel 2018, per esempio, ha viaggiato via mare il 79,3% delle merci italiane esportate nel mondo, percentuale che sale al 95,9 se si considerano solo i Paesi extra Unione Europea (leggi “La tutela degli interessi nazionali sul mare”).
Una situazione riscontrabile (con diverse intensità) anche per il resto del mondo e, in particolare, per tutti i paesi industrializzati che, senza la possibilità di importare le materie prime e di esportare i manufatti via mare, subirebbero un effetto domino che porterebbe le rispettive economie a una grave crisi in brevissimo tempo.
Per garantire la libertà di navigazione nelle aree di passaggio obbligato dei mercantili, gli Stati interessati sono mobilitati attivamente principalmente attraverso iniziative multinazionali congiunte, allo scopo di accrescere l’efficacia complessiva dell’intervento ma anche di diminuirne le spese correlate.
Conclusioni
Per assicurare la prosperità nazionale, tutti i paesi costieri stanno migliorando le loro Marine e intensificando le attività di sorveglianza e controllo in mare. Tra questi non solo quelli che hanno secoli di tradizioni marittime, ma anche paesi che si sono affacciati da relativamente poco tempo oltre le loro coste. Come per esempio la Cina, che in pochi anni ha dato vita a una flotta quantitativamente e qualitativamente significativa (leggi “La Cina aggiunge una pedina nello scacchiere Indo-Pacifico”). Ma non è la sola, dato che anche India, Corea del Sud, Giappone e Turchia si stanno proiettando con convinzione sui teatri marittimi mondiali (leggi “L’India guarda verso il mare”, “Il rinnovamento della Marina giapponese”, “Le due facce dell’atteggiamento turco”).
I mari e gli oceani del mondo vedono, quindi, una sempre maggiore presenza di navi militari a tutela dei rispettivi interessi nazionali. La tendenza globale è quella di costruire unità polivalenti integrando le nuove tecnologie (droni, robotica, intelligenza artificiale) che aggiungono valore operativo al “sistema nave”, da sempre unico strumento con reali capacità expeditionary.
Tra le Marine del mondo, assumono particolare rilevanza quelle poche in grado di operare con gruppi portaerei, che permettono la proiezione di potenza a notevole distanza dalla madrepatria. Si tratta di un gruppo molto ristretto di paesi, tra cui l’Italia, che possono operare per lungo tempo nelle aree marittime di interesse nazionale.
Sotto il profilo operativo, escludendo un conflitto ad alta intensità tra le principali flotte, si tratta di avere le capacità per impedire azioni di Anti Access/Area Denial (A2/AD) da parte dell’eventuale avversario in particolari aree di interesse nazionale.
La ricerca di uno status di potenza navale tocca anche le organizzazioni come l’Unione Europea, interessata ad affermarsi come attore globale nel settore marittimo interessato a contribuire alla sicurezza internazionale. È un fatto che il 90% del commercio estero dell’Unione e il 40% del suo commercio interno si svolgono per via marittima. Da ciò deriva la consapevolezza che la sicurezza dei mari e degli oceani riveste la massima importanza per il libero commercio, l’economia e il tenore di vita dell’UE. In geopolitica, infatti, l’immagine internazionale e la capacità di proiezione di potenza significano avere peso contrattuale nelle grandi questioni strategiche.
Nel 2014 ha, quindi, approvato una sua Strategia per la sicurezza marittima (EUMSS), una strategia continuamente aggiornata in base all’evolversi della situazione internazionale. Si tratta di un documento che ha permesso l’avvio delle misure comunitarie necessarie all’aggiornamento degli strumenti necessari a fronteggiare le minacce alla navigazione e ai traffici illegali (droga, armi, pirateria,…).
Un modello è costituito dall’EUNAVFOR Somalia (Operazione “Atalanta”) che, nelle acque del Mar Rosso, Golfo di Aden e Oceano Indiano occidentale, può contare su modernissime unità navali e velivoli per la sorveglianza, il riconoscimento e il contrasto di attività sospette riconducibili al fenomeno della pirateria e fornisce l’esempio di una diplomazia navale estremamente attiva ed efficace. In tale ambito, nei 12 anni trascorsi dalla sua attivazione, la Marina Militare ha partecipato con 26 unità di superficie e, per 8 volte, il Comando delle operazioni è stato affidato a un Ammiraglio italiano, a significare l’importante ruolo svolto dalla Forza Armata in un bacino fondamentale per gli interessi nazionali e per il cluster marittimo italiano.
Ma il mantenimento di una flotta moderna che abbia le capacità di contrastare le attività dell’avversario richiede uno sforzo economico per la pianificazione, lo studio, la costruzione e il mantenimento operativo delle navi che permettono allo Stato di essere presente sui mari di interesse, a protezione del traffico mercantile nazionale e per garantire complessivamente la sicurezza nazionale. Uno sforzo che deve trovare risposta nel supporto della politica e dei cittadini, attraverso la comprensione delle dinamiche correlate all’economia internazionale e la consapevolezza della propria dipendenza dal mare.
In un mondo sempre più caratterizzato da un’esasperata competizione (energetica, commerciale, ecc…), la sicurezza internazionale passa attraverso la sicurezza degli spazi marittimi globali. La politica deve prendere atto di questa situazione e permettere, quindi, che gli strumenti a sua disposizione, che operano con elevata professionalità e competenza nel dominio marittimo, possano assumere una configurazione in linea con le minacce che si prospettano. La politica è insomma chiamata a comprendere che, nei prossimi decenni, lo strumento aeronavale sarà in prima linea a difendere gli interessi nazionali e a dare, una volta di più, il proprio significativo contributo alla sicurezza internazionale.
Come ha affermato James Donald Hittle “…il cammino percorso dall’uomo attraverso la storia è disseminato di fallimenti di nazioni che, raggiunto il benessere, hanno dimenticato la loro dipendenza dal mare…”.i In un periodo storico nel quale si moltiplica sul mare la competizione per le risorse energetiche e l’accesso ai mercati e si rafforzano le minacce transnazionali, nel quale aumentano le attività connesse con la criminalità organizzata, il traffico di esseri umani, la pirateria e il terrorismo, che spesso ricorrono a bandiere di comodo o si fanno semplicemente beffa delle regole del diritto internazionale, non c’è nessun dubbio che lo sguardo del decisore politico debba essere rivolto con estrema attenzione principalmente verso il mare, sia per poter fornire il nostro contributo alla sicurezza internazionale sia nell’interesse del nostro traffico commerciale e di tutto il complesso dei nostri fondamentali interessi nazionali.
i brigadier general J. D. Hittle (10 giugno 1915, 15 giugno 2002), discorso tenuto a Philadelphia il 28 ottobre 1961.
Foto: U.S. Navy