Turchia: 20 anni in una bolla ottomana

(di Gino Lanzara)
10/05/23

Dovunque si svolgano, le elezioni lasciano un segno; a partire dalle consultazioni tenutesi in Africa settentrionale, dove spicca la situazione politica tunisina, fino alla sponda israeliana, dove le urne hanno decretato il successo di una compagine tutt’ora oggetto di forti contestazioni interne, il Mediterraneo orientale è assurto ad area di estremo interesse per gli equilibri politici interni ed esteri.

È innegabile che le scadenze ravvicinate, cipriote, greche e turche stiano conducendo a rapporti conflittuali di particolare intensità, tanto da riuscire a coinvolgere Libia, Egitto, Israele, nonché gli interessi connessi alle esplorazioni di combustibili fossili. Le elezioni del nuovo arcivescovo di Cipro, Georgios III metropolita di Pafos, e del presidente Christodoulides, si sono contrapposte all’affermazione, nella parte settentrionale dell’isola, degli esponenti vicini a Erdoğan, senza contare il ruolo che la Chiesa ortodossa continua a rivestire opponendosi sia alla divisione dell’isola, sia mantenendo una significativa posizione filo ucraina. Lo stesso neo presidente, nello stigmatizzare l’invasione russa, l’ha paragonata all’esperienza vissuta dall’isola nel 1974.

Anche la Grecia, reduce dalla tragedia ferroviaria consumatasi in marzo vicino Larissa, dovrà fare i conti con una prevista (ed anticipata) tornata elettorale dagli esiti molto incerti. Se la coalizione di centrodestra è stata colpita da difficoltà economiche e da uno scandalo Watergate in versione ateniese, gli episodi di corruzione bruxellese, che hanno visto protagonista tra gli altri la deputata socialista Eva Kaili, hanno bilanciato, in peggio, la situazione politica. In questo contesto, il premier Mitsotakis ha optato per puntare su sentimenti nazionalisti e su un evergreen: il confronto con Ankara, un’operazione agevolata dalla politica speculare tenuta da Erdoğan, a sua volta pungolato dal suo personale ed incombente incubo elettorale.

Non c’è dubbio che la propaganda, come è sempre stato, stia servendo quale arma di distrazione di massa, utile ad allontanare le preoccupazioni indotte da una crisi economica e recessiva latente che le affermazioni muscolari di Ankara possono solo mettere in ombra, ma certo non dirimere.

Se un conflitto turco-ellenico è da considerarsi come improbabile specie in ambito NATO, sono però da considerare con attenzione gli sconfinamenti degli spazi aerei e gli attriti, dovuti all’estensione delle diverse sovranità degli spazi marittimi, tra unità navali nell’Egeo, nel Mare Libico e nel Levante, con il coinvolgimento di Cipro e di varie compagnie energetiche internazionali come l’ENI. Non si è dunque così lontani da ipotesi più che concrete, che nella prossima estate, il levante mediterraneo orientale possa presentare una variazione degli attuali equilibri. Tuttavia, da un punto di vista realista ed alieno da sovrastrutture ideologiche buone come le lucciole per le lanterne nelle sere estive, va comunque notato che Grecia e Turchia si sono impegnate in un reciproco sostegno utile ad ottenere posizioni internazionali di rilievo: Ankara voterà a favore della Grecia per un seggio non permanente al Consiglio di sicurezza delle NU, mentre Atene appoggerà la candidatura turca al segretariato generale dell’Organizzazione marittima internazionale.

Alla luce dell’aumento del moto ondoso della politica dell’Egeo, è legittimo pensare che le imminenti elezioni turche, indette per il 14 maggio, anniversario della prima sconfitta, nel 1950, del Partito Kemalista ad opera del Partito Democratico, possano considerarsi come un punto di faglia dato che, mai come quest’anno, il responso delle urne è connotato da una forte incertezza, alimentata sia dalla crisi economica sia dal terremoto che ha devastato l’Anatolia. Risultato rimarchevole, l’opposizione è riuscita ad esprimere il nome di un candidato unitario per la presidenza, Kemal Kılıçdaroğlu, il Gandhi turco per la sua vaga somiglianza con il Mahatma, a cui occorreranno tenacia e combattività fuori dal comune per contrastare Erdoğan, al potere dal 2003.

Le elezioni non decideranno solo della permanenza dell’AKP al potere, ma anche del ruolo che Ankara rivestirà in ambito internazionale. Se è vero che ultimamente il presidente è stato penalizzato dai sondaggi, è altrettanto innegabile che quota parte dell’elettorato non è convinto di un’opposizione presentatasi divisa ed accomunata solo dalla volontà di sconfiggere l’AKP; una linea comprensibilmente poco suadente per convincere un elettorato in affanno.

L’alewita1 Kılıçdaroğlu, alla testa del sodalizio che ha fatto sua l’eredità politica di Ataturk, dopo essere riuscito a traghettare la tradizionale postura laica e nazionalista kemalista verso una forma inedita di socialdemocrazia pluralista ed orientata verso l’occidente, rappresenta una coalizione di sei partiti. Sotto questo aspetto, il maggior merito politico di Kılıçdaroğlu è consistito nell’attrarre l’elettorato borghese e dei grandi centri urbani, proprio questi giorni beneficiato di aumenti stipendiali elettorali ed a lungo trascurato a vantaggio delle classi proletarie, rimaste l’unico e vero serbatoio elettorale di Erdoğan, un serbatoio tuttavia retributivamente sempre meno presente nel contesto economico.

Dopo il doveroso sostegno istituzionale offerto per il tentato (e discusso) colpo di stato del 2016, nel 2019 il CHP2 ha stretto un inedito accordo con i curdi, che gli ha garantito la vittoria alle elezioni amministrative di Istanbul e Ankara: come riporta il New York Times, Kılıçdaroğlu diventa l’antitesi di Erdoğan: tanto è aggressivo e sanguigno il presidente, quanto è pacato e poco retorico lo sfidante.

Prima del terremoto, dove la macchina dei soccorsi dello Stato ha dato il peggio di sé anche nella prevenzione, che non ha tenuto in alcun conto i criteri antisismici3 e che ha cercato di acquietare gli animi con un’ondata (tardiva e grottesca) di arresti a carico di costruttori edili, è l’economia che punisce Erdoğan, le cui convinzioni finanziarie (errate) circa i tassi di interesse hanno causato frequenti impennate dell’inflazione con il contestuale deprezzamento della valuta. Se la lira fosse stata davvero a buon mercato, ci si sarebbe attesi un’espansione delle esportazioni ed una contrazione delle importazioni; nei primi due mesi del 2023 è avvenuto il contrario con un aumento del 600% degli acquisti di metalli preziosi su base annua. Il ciclo economico ha raggiunto il picco in cui i cittadini accumulano valuta pregiata sotto la mattonella.

Continua, dunque, una politica economica eretica che vorrebbe privilegiare la crescita a scapito di un’inflazione che, anche se ridotta al 55,18% rispetto all’85,5% di ottobre, rimane troppo alta tanto che, secondo gli economisti indipendenti dell’ENAgrup4, si attesterebbe realmente al 126,91%.

Rimangono problemi strutturali profondi, ovvero il disavanzo delle partite correnti, che significa che l’import supera l’export, e che il fardello dei già richiamati tassi di interesse pesa sempre di più: quando la crescita economica è rapida, i tassi vengono utilizzati per regolare il sistema con l’aumento del costo del denaro prestato. In Turchia è successo il contrario e la Banca Centrale, dipendendo di fatto dal governo, ha perso il controllo.

Ma cosa desidera l’opposizione? Interprete di un programma vasto quanto aleatorio, intende procedere a riforme costituzionali, tornare al parlamentarismo, allargare la rappresentanza politica, tornare a propugnare maggiori standard democratici, puntare all’ingresso nell’UE, ripristinare la fiducia con gli USA, contenere l’inflazione dopo aver accompagnato alle frontiere la massa di immigrati siriani. È vero, manca la pace nel mondo, ma quel che più conta è che va ben esaminato ciò a cui effettivamente potrebbe ambire un nuovo esecutivo, erede di un ventennio tempestoso.

Il timore occidentale è che, laddove Erdoğan venisse rieletto, la Turchia si troverebbe proiettata verso un modello conservatore, internazionalmente poco affidabile.

Mentre le elezioni prendono sempre più le sembianze di un referendum su Erdoğan, Kılıçdaroğlu deve rassicurare i turchi e l’elettorato curdo, il vero ago della bilancia, circa la bontà dell’eterogeneità della sua coalizione.

Presumibilmente il governo in carica non ha interesse nel turbare le elezioni, visto che necessita di investimenti internazionali ed eventuali contestazioni alienerebbero la Turchia dai mercati occidentali e non solo5. Se il presidente si riconferma, Ankara continuerà l’avvicinamento agli attori d’area, inclusi il Cairo, Yerevan6, Gerusalemme, Damasco7, riammessa clamorosamente nella Lega Araba, l’UE; se invece vincesse Kiliçdaroğlu, alla stabilità interna potrebbero non corrispondere relazioni internazionali immediate più fluide e soprattutto, come affermato nel 2022, potrebbero emergere impedimenti a politiche riconciliative, specialmente nei confronti di Israele (visto che dal suo punto di vista la querelle Mavi Marmara non è conclusa), Arabia, Saudita, Grecia. Attenzione anche alla politica di protezione che verrebbe adottata verso la Palestina, e che renderebbe problematici i rapporti con lo Stato ebraico.

Su Riyadh la narrazione assume tuttavia prevedibili colorazioni verde dollaro, visto che i Saud hanno dichiarato di aver depositato 5 miliardi di dollari presso la banca centrale turca, bonifico che attesta il miglioramento delle relazioni tra il Regno e la Turchia, specie dopo l’omicidio, nel 2018, di Jamal Khashoggi, editorialista del Washington Post, e il sostegno fornito al Qatar, durante il boicottaggio da parte saudita, dal Bahrein, dall'Egitto e dagli EAU.

Insomma, comunque la si veda, la politica estera turca rimane, nella sua frequente spregiudicatezza, un rompicapo che rende il Paese un alleato spesso scomodo, poco integrabile, come ha insegnato prima la vicenda dell’acquisizione del sistema missilistico russo S400, e poi l’opposizione all’ingresso della nella Nato della Svezia, costretta a scendere, obtorto collo, a patti diplomaticamente sgradevoli.

Al netto di insensati pallavetrismi, proviamo a fare qualche ipotesi. A pochi giorni dalle elezioni, i sondaggi danno sostanzialmente dei pareggi statistici, e ribadiscono che la base sociale vive in una giustificata angoscia dovuta alla situazione economica ed alla persistenza della corruzione. Da non dimenticare i 50.000 morti per il sisma, accompagnati da un peso ormai insostenibile e rappresentato dai rifugiati siriani. Intanto, due elementi politici: il richiamato bisogno di stabilità, da alcuni ritenuto a rischio se gestito da una coalizione troppo estesa ed eterogenea, e la polarizzazione indotta dall’AKP. Per il leader, tuttavia, il ritorno della sua politica si è concretizzato in un ostico manico d’ombrello: l’iper centralizzato sistema erdoganiano ha lasciato il re nudo ed esposto ad un’inedita vulnerabilità. Insomma, è bello essere re finché il tempo è sereno.

L’opposizione ha saputo volgere l’aspetto a suo vantaggio? Tardivamente e solo dopo aver mostrato la propria debolezza nella scelta del candidato, fondamentale in un paese che ha sempre vissuto di leader assertivi inseriti in un contesto fragile; Kılıçdaroğlu, molto probabilmente, dovrà guardarsi dal populista Muharrem Ince, capace di calamitare i voti degli insoddisfatti e dei nazionalisti costituendo un problema in caso di ballottaggio.

A proposito di ballottaggio, e Erdoğan? Di certo ricorrerebbe alla riesumazione del rischio curdo, tenuto comunque a mente che, secondo Reuters, l’autoritarismo dell’attuale esecutivo ha spinto il Paese al 123° posto su 167 in relazione all’integrità elettorale.

Riedificare la democrazia attraverso le urne grazie al successo dell’opposizione non è certo, e l'esito elettorale comporterà all’esterno pesanti strascichi geopolitici, senza contare le conseguenze dello sfacelo economico, giudiziario, istituzionale e sociale, che metteranno a rischio qualunque politica post elettorale. Da qui, l’ipotesi di prossime elezioni anticipate che porterebbero il Paese a seguire derive di tipo tunisino.

La visione anatolica della sovranità suggerisce che, a prescindere da chi si aggiudicherà la posta elettorale, la Turchia non si posizionerà diplomaticamente come gli osservatori internazionali auspicano, tanto che si può pensare ad Ankara come alla capitale di un Paese neutrale orientato allo sviluppo e non come ad un membro a pieno titolo dell’Alleanza Atlantica.

Inutile nascondersi: a fronte di una relativa stabilità autocratica, laddove l’opposizione vincesse le elezioni, ogni cambiamento sarebbe traumatico. L’Occidente, qualora fosse ancora in grado di intendere la politica, non dovrà né potrà attendersi troppo da un più che pressato Kılıçdaroğlu che potrà procedere solo per piccoli passi piegandosi ad inevitabili caveat economico-finanziari ma senza poter troncare i rapporti commerciali con la Russia: impossibile dunque tornare ad una politica estera ante Erdoğan.

Ma queste, come detto, sono ipotesi; rimane concreta la competizione con un antagonista che ha avuto 20 anni per plasmare un sistema e che, laddove dovesse perdere, adotterebbe una strategia feroce ed implacabile.

1 Minoranza che pratica una versione secolare dell’islam non riconosciuta dallo stato turco ed a lungo perseguitata dai musulmani sunniti

2 Partito Popolare Repubblicano

3 Il governo nel 2018, anno delle elezioni presidenziali e legislative, ha approvato un condono edilizio, sanando anche costruzioni prive degli standard antisismici

4 Inflation Research Grup

5 Nella strategia di sostegno all’economia e alla lira turca rientra anche la normalizzazione dei rapporti diplomatici con le monarchie del Golfo.

6 Malgrado il caso innescato dal monumento Nemesis innalzato ad Yerevan e dedicato al genocidio armeno

7 Fino a poco tempo fa, Erdoğan si è riferito ad Assad come a un terrorista che ha ucciso quasi un milione di suoi cittadini; lo stesso Erdoğan ha dichiarato che la Turchia non ha problemi a sconfiggere o non sconfiggere Assad, aggiungendo che non c'è rancore in politica.