Mentre in America il “Time”, per parlare della “crisi dei migranti” esplosa negli Stati Uniti dopo la linea della “tolleranza zero” applicata dall'amministrazione Trump, dedica la copertina della sua prossima edizione all’iconica immagine della bimba, separata dai genitori, che si dispera in lacrime davanti ad un impassibile presidente, in Europa la situazione migranti non risulta migliore. All’attenzione dei media si è presentato prima il caso della nave Aquarius ed, in seguito, quella dell’ONG Lifeline.
Ma chiudere i porti italiani, come più volte ha affermato il nuovo ministro dell’Interno, può essere davvero la soluzione per arginare l’immigrazione in Italia? L’argomento è complesso e, anche a livello di diritto internazionale, è realmente applicabile?
Il 12 giugno 2018, per fare chiarezza su alcuni argomenti di cui si è molto dibattuto dopo la vicenda che ha visto coinvolta la nave Aquarius con a bordo 629 migranti, il Gruppo d’interesse sul Diritto del mare, che riunisce i professionisti del mondo accademico che si occupano di diritto del mare, ha scritto una lettera aperta in quattro punti per precisare alcuni principi giuridici vincolanti per il nostro Paese, in quanto parte della comunità internazionale e membro dell’Unione europea. Da questo testo si evince che salvare la vita in mare è un obbligo, e anche la Costituzione italiana (art.2) si fonda sulla solidarietà quale dovere inderogabile. Anche la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, facendo peraltro propria un’antica consuetudine internazionale, sancisce il dovere di tutelare la vita umana in mare per tutti gli Stati costieri. Il diritto internazionale impone, così, agli Stati di obbligare i comandanti delle navi che battono la propria bandiera nazionale a prestare assistenza a chiunque venga trovato in mare in pericolo di vita, di informare le autorità competenti, di fornire ai soggetti recuperati le prime cure e di trasferirli in un luogo sicuro. Tale dovere, inoltre, per sua natura, non può rivestire carattere esclusivo, ed il mancato adempimento da parte di uno Stato non costituisce adeguato fondamento per il rifiuto di ottemperare opposto da un altro Stato. Ne è stato palese esempio la scelta della Spagna di accogliere la nave “Aquarius” dopo il rifiuto dello stato italiano. Non prestare soccorso ai naufraghi è, inoltre, in Italia, reato, ai sensi degli articoli 1113 e 1158 del codice della navigazione.
Sono obbligati a prestare soccorso tutti i soggetti, pubblici o privati, che abbiano notizia di una nave o persona in pericolo in mare, qualora il pericolo di vita sia imminente e grave e presupponga la necessità di un soccorso immediato. A tal riguardo, secondo la Convenzione di Amburgo, tutti gli Stati con zona costiera sono tenuti ad assicurare un servizio di ricerca e salvataggio (SAR - acronimo dall’inglese “search and rescue” con cui si indicano tutte le operazioni che hanno come obiettivo quello di salvare persone in difficoltà). Nel corso della Conferenza IMO (International Maritime Organization) di Valencia del 1997 il Mar Mediterraneo è stato suddiviso tra i Paesi costieri e, secondo tale ripartizione delle aree SAR, l’area di responsabilità italiana è di circa 500 mila km quadrati (pari a circa un quinto dell’intero Mediterraneo).
Riguardo la chiusura dei porti, poi, vale la pena ricordare che tale misura non è di per sé proibita dal diritto del mare, ricadendo i porti nell’ambito dell’esclusiva sovranità dello Stato. La possibilità di attuarla dipende, tuttavia, dall’esistenza (o meno) di accordi bilaterali tra lo Stato del porto e quello di bandiera (e dal contenuto di tali accordi) nonché dalle specificità di ciascun singolo caso. Le convenzioni internazionali sul diritto del mare, infatti, non prevedono esplicitamente l’obbligo per gli stati di far approdare nei propri porti le navi che hanno effettuato il salvataggio, si fondano sull’obbligo di solidarietà in mare, che sarebbe disatteso qualora fosse negato l’accesso al porto di una nave con persone in pericolo di vita, appena soccorse e bisognose di assistenza immediata. Assicurata la disponibilità di generi di prima necessità (acqua, cibo, medicinali) in ottemperanza degli articoli 2 e 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e sbarcate le persone bisognose di assistenza medica tale obbligo implicito verrebbe meno, anche se si pone la questione del respingimento di massa, vietato dal diritto internazionale (precisamente, dalla Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali). Il rifiuto, aprioristico e indistinto di tutte le persone recuperate in mare, comporterebbe l’impossibilità di valutare le singole situazioni delle persone a bordo. Su quest’aspetto si basano molte delle proteste delle ONG e di chi si oppone alla linea dura decisa dal Governo italiano.
In tutta questa vicenda è mancato il ruolo attivo dell’Unione europea, come è vero che è ormai insufficiente, poiché non tiene conto delle dimensioni dei flussi migratori degli ultimi anni, (come abbiamo potuto notare con gli ultimi eventi), il regolamento europeo, il cosiddetto Dublino III, che individua lo Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale (Reg. (UE) n. 604/2013). Tale sistema necessita, quindi, di essere, senza alcun dubbio, rivisto dal momento che, per la sua posizione e conformazione geografica, il nostro Paese è diventato il punto di approdo naturale, e preferito, dei migranti provenienti dal continente africano. Situazione che porta a far gravare sull’Italia l’esame di un numero troppo elevato di domande di protezione e che necessita di maggiore attenzione ed una più equa ripartizione degli sforzi, sia logistici sia economici, da parte degli altri paesi europei, al fine di fronteggiare le emergenze umanitarie che le migrazioni per mare portano con sé.
L’Italia sembra, così, aver voluto usare il caso Aquarius come strumento per riportare al centro della discussione europea la questione migranti. Siamo di fronte a una emergenza umanitaria che l’Italia non può affrontare in solitudine e, piuttosto che chiudere i nostri porti, si chiede ora che gli altri stati europei vogliano aprire i loro.
(foto: EUNAVFOR / Time Inc.)