L’insediamento della nuova compagine governativa apre la speranza che la “Politica di Difesa e Sicurezza” venga finalmente elevata al rango che gli compete e cioè a componente essenziale della Strategia Nazionale, come peraltro avviene nella quasi totalità dei Paesi Alleati ed amici.
La speranza rischia di restare vana anche questa volta, vista l’avversione della classe politica nazionale per la materia, ma, ciò nonostante, vale la pena di provare ancora una volta ad indicare le principali problematiche che affliggono le F.A. nazionali, con particolare riferimento all’Esercito, che rimangono quelle già evidenziate da questa testata all’atto dell’insediamento del precedente governo, aggravate da una pericolosa visione di polizia internazionale quale obiettivo finale della trasformazione che si voleva imporre alle F.A.
Ça va sans dire che la prima problematica è inerente alla mancanza di una chiara Politica di Difesa nazionale, condivisa dalle forze politiche presenti in Parlamento e quindi supportata con continuità con procedure “bipartisan”. L’esercizio compiuto nella scorsa legislatura di dar vita ad un “Libro Bianco della Difesa” è terminato su un binario morto, con la conseguenza che quanto di buono era presente in quel documento è comunque destinato all’oblio, senza che la classe politica nazionale vi imbastisse sopra una seria e serena discussione per giungere alle migliori soluzioni possibili.
Occorre evidenziare, anche in questa occasione, per l’ennesima volta, che il livello di ambizione nazionale in materia con le conseguenti scelte capacitive non può essere una responsabilità addossata in toto alle gerarchie militari. Non perché i vertici militari non abbiano le dovute capacità ma perché si effettuano scelte che comportano rischi1 per l’intera comunità nazionale e, come tali, devono essere assunte da chi ha il mandato popolare per farlo. Senza tralasciare il fatto che scelte capacitive non supportate finanziariamente e sul piano industriale sono solo una dichiarazione di buoni intenti.
Come conseguenza di quanto appena detto, la mancanza di una politica in materia innesca una serie di “incongruenze” che trovano nel DPP, inviato nel mese di luglio al Parlamento, una sorta di “bignami” del percorso alla cieca che la Difesa sta percorrendo in termini capacitivi e di obiettivi perseguiti.
Se è vero, come più volte descritto anche da questa testata, che le risorse sono scarse e nettamente insufficienti a garantire il corretto sostegno e ammodernamento delle F.A., è altrettanto vero che alcune scelte capacitive e i tempi di attuazione appaiano inspiegabili anche al lettore più attento.
In maniera molto sintetica, qual è la logica capacitiva che stiamo perseguendo come nazione nel supportare talune capacità a scapito di altre?
Cercheremo di far luce, per quanto possibile, nel prosieguo dell’articolo.
L’Investimento
Scorrendo il DPP, nella parte programmi di previsto avvio e programmi avviati si può notare che:
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Il Sistema Individuale Combattente (SIC) che rappresenta la dotazione di base di ogni singolo soldato (composto, di massima, da elmetto, giubbetto antiproiettile, arma individuale, sistemi di puntamento diurni e notturni e radio individuale) ha una copertura limitata non solo al 50% dell’esigenza ma per di più diluito in circa 12 anni, prevedendo di acquisire entro il 2024-2025 solo 15.000 sistemi, acquisendone altri 15.000 circa entro il 2032 e rimandando i restanti 35.000 circa (per equipaggiare la metà restante della componente proiettabile) al futuro più lontano. Peccato che alcune delle componenti del sistema abbiano una vita tecnica di circa 6-8 anni (materiali in kevlar) e che gli altri siano soggetti ad una vetustà tecnologica di poco superiore. In sintesi, il governo ci sta dicendo che (nella migliore delle ipotesi) solo un 20% circa delle forze terrestri proiettabili sarà equipaggiato per sostenere operazioni militari. Quindi, i militari si addestreranno giornalmente con un equipaggiamento parziale e diverso da quello che useranno in operazioni, in contrasto con qualsivoglia principio logico.
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L’ammodernamento della linea VTLM dell’Esercito verrà sostenuta, anch’essa in 12 anni per meno del 30% dell’esigenza complessiva (previsti circa 300 M€), creando, di fatto, la necessità che anche i VTLM, come il SIC, viaggino da un Reparto all’altro per consentirne l’impiego operativo ovvero l’approntamento per una missione specifica.
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L’ammodernamento delle forze corazzate viene rimandato, di fatto, sine die, prevedendo, nel contempo di sostenere tre possibili linee di sviluppo: una nazionale (finanziata con 35 M€), una con Israele (finanziata con 25 M€) ed una con l’Unione Europea (anch’essa finanziata).
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Programmi importantissimi, come l’ammodernamento delle sorgenti di fuoco (artiglierie), i Posti Comando, la cyber nel settore tattico, l’ammodernamento CBRN, ecc. sono privi di finanziamento e non è possibile stimarne nessuna data di avvio.
Sintesi del DPP: stiamo accompagnando l’Esercito verso una lunga e dolorosa dissoluzione!
A fronte di tutto ciò, però, sono stati avviati programmi di ammodernamento che sostengono un livello di ambizione molto elevato per un Paese di medie dimensioni come l’Italia e che sarebbe utile comprendere come e quando sono stati approvati. Non in quanto contratti di sostegno per l’industria (le carte sono a posto), ma come decisione nazionale di diventare una potenza marittima rinunciando all’Esercito, sostituito, nella migliore delle ipotesi, da forze ausiliarie a quelle di polizia. In particolare, a titolo di esempio:
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È stata avviata la realizzazione di una LHD2 di 33.000 t di dislocamento che, di fatto, si sovrappone per molte caratteristiche alla Cavour (dislocamento 27.900 t), facendo perdere al Paese la flessibilità derivante dalla disponibilità di un numero maggiore di vettori navali del tipo LPD/LHD di minor tonnellaggio ma che garantivano la possibilità di impiego continua di almeno una unità navale in questo ruolo, tenuto conto dei periodi di “manutenzione” in arsenale e della gamma delle possibili operazioni. Quindi, avremo, di fatto, due portaeromobili, ma rischiamo di non poter proiettare la componente da sbarco nazionale così come contemplato dall’attuale concetto di impiego interforze, senza contare l’aumento dei costi di mantenimento che una tale operazione genererà;
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Si prevede la realizzazione di pattugliatori polivalenti d’altura3 che hanno dislocamento e armamento similare a quello di una fregata, che nel frattempo hanno incrementato notevolmente il loro bagaglio capacitivo. Oltre ai costi di realizzazione, qualcuno ha calcolato i costi di gestione e come reperirli?
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Si prevede un forte investimento per il “completamento” della capacità SAR espressa dall’Aeronautica, non evidenziando quanto già esiste4 nell’ambiente marittimo. Se occorre “completare/rafforzare” la capacità SAR nazionale occorrerebbe almeno avviare un approfondimento “interagency”, senza sovrapporre competenze e assetti operativi. Anche dietro al dual use si possono nascondere pericolose duplicazioni. Al contrario, il combat SAR, che come noto è assicurato da velivoli di nuova generazione acquisti recentemente proprio dall’A.M., presuppone la creazione di una capacità tipica militare che non può essere inserita al di fuori del dicastero della Difesa. Forse è su questo settore e su quelli connessi con la “proiezione” dell Forze Speciali che bisognava “osare di più”.
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È stata autorizzata l’acquisizione di UAV prodotti dalla Soc. Piaggio5 che sembrano un buon dimostratore tecnologico, da supportare sicuramente in termini di sistema Paese, ma non andando a distogliere investimenti in un settore che ancora necessita di essere rafforzato e maggiormente strutturato a livello nazionale;
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Si prevedono forti investimenti nel settore Cyber del livello strategico, dimenticando che in operazioni sarebbe proprio quello tattico-operativo ad essere maggiormente impiegato e, quindi, protetto con capacità “proprie” delle unità militari di ogni F.A.. Pensare alla “discesa in campo” del livello strategico per proteggere il livello “tattico” che opera prevalentemente su reti radio è quantomeno utopico.
Gli esempi appena citati, dimostrano che la pianificazione degli investimenti della difesa, forse anche perché sostenuta in misura consistente dal MiSE ha un carattere che è quasi esclusivamente industriale. Finanziamo, cioè, un po’ di tutto, al fine di tenere in vita l’industria nazionale, anche se ciò non produce capacità compiute, ovvero crea uno sbilanciamento insostenibile in altri settori.
Sì, perché a fronte della realizzazione di talune piattaforme, occorre poi pensare a come sostenerle sul piano logistico-manutentivo e qui si arriva all’altro “pilastro di argilla” del DPP: “il sostegno”.
Il Sostegno
Sempre guardando al Documento Programmatico Pluriennale, ci si accorge che invece sul piano del cosiddetto “sostegno” le risorse sono ridotte ai minimi termini. L’aumento di 327 M€ riportato al settore Esercizio è destinato, come indicato nello stesso DPP, al pagamento di bollette e oneri arretrati per circa 400 M€. Quindi, nessun aumento dei fondi destinati al mantenimento, ma recupero fondi (dall’investimento) per pagare le aziende fornitrici di servizi. Si tratta di un fenomeno costante del bilancio della Difesa degli ultimi anni che porta a chiederci, tra l’altro, perché non pagarle regolarmente tutti gli anni.
La situazione complessiva delle F.A. è quella che la quasi totalità delle piattaforme in acquisizione saranno impiegabili nel tempo solo a condizione che si trovino finanziamenti aggiuntivi a quelli esistenti. In compenso, quello che già esiste viene sostenuto più dalla volontà di uomini e donne in divisa di non lasciar crollare “la baracca” che da risorse reali. L’Esercito vede finanziato il suo settore del mantenimento (in cui troviamo anche le risorse addestrative, oltre a quelle logistiche e infrastrutturali) con meno del 10% del fabbisogno standard calcolato secondo i parametri NATO. L’intero budget dell’Esercizio della Difesa sarebbe sufficiente a garantire solo la gestione efficiente dell’Esercito.
Il risultato è quello di sistemi d’arma con disponibilità operativa ridottissima, personale non addestrato ai compiti istituzionali più difficili e gravosi (situazioni combat) e attenzione rivolta, per forza di cose, al solo approntamento del personale destinato alle operazioni correnti.
Quindi non solo parco mezzi e materiali largamente inefficiente, ma anche personale scarsamente addestrato e in alcuni casi anche scarsamente consapevole di esserlo.
Dopo anni e numerose missioni svolte in contesti di supporto al mantenimento dell’ordine e della sicurezza o al soccorso di personale in mare, il personale tenderà ad assumere una postura tipica di questa tipologia di attività che, ovviamente non è positiva o negativa in sé stessa, ma non è quella tipica delle missioni militari.
Se tutto ciò è accompagnato ad una forte riduzione delle risorse, non solo finanziarie, per l’addestramento, il risultato rischia di essere catastrofico nel caso in cui il Paese si trovi ad affrontare la “sorpresa strategica” e cioè impiegare le F.A. per la loro missione primaria: difendere gli interessi vitali del Paese con l’uso della forza.
Qui desiderat pacem, praeparet bellum.
1 Ogni scelta capacitiva, adottata in relazione ad ipotesi di sviluppo del futuro comporta dei rischi associati in termini di conseguenze in caso di diverso andamento degli eventi.
Foto: ministero della Difesa / U.S. Army Reserve / U.S. Army National Guard