Gian Micalessin
Ed. Cairo
pagg. 266

Non è stato facile riordinare i pensieri e le emozioni suscitate dalla lettura di questo lavoro firmato Gian Micalessin,  giornalista de “Il Giornale”, inviato di guerra, e autore di numerosi reportage sui teatri bellici contemporanei.

Data la delicatezza e l’impatto emotivo dell’oggetto in questione è difficile persino definirlo come genere, rischiando di catalogarlo con superficialità e forse, anche con mera retorica.

In 266 pagine, Micalessin racconta storie di persone, amici, famiglie, amori ed affetti segnati da una scelta che negli anni correnti può apparire anacronistica: tenere fede, fino alla fine, ad un giuramento  prestato ed abbracciare tutto ciò che  esso comporta.

Le due prefazioni, del generale Vincenzo Camporini  – capo di Stato Maggiore della Difesa dal febbraio 2008 al gennaio 2011 – e del tenente colonnello paracadutista Gianfranco Paglia, medaglia d’Oro al valor militare,  spalancano al lettore una finestra affacciata sull’Afghanistan, e motivano, senza ritrosie, lo spirito deciso, equilibrato e quasi mistico di chi sceglie di indossare le stellette.

A prescindere da qualsiasi giudizio politico, viene delineato il quadro di una terra martoriata, triste, trovata ingovernabile ma controllata dal fondamentalismo. Un teatro operativo insidioso nel quale le nostre Forze Armate hanno cercato e ottenuto un rapporto di fiducia con le popolazioni locali al fine di non essere mai percepiti quali entità negative di invasione .

Successivamente, di capitolo in capitolo, significano finalmente qualcosa quei nomi e cognomi letti sbadatamente sui giornali, ovviamente durante un’indaffarata giornata di lavoro, e di cui ci si scorda una volta acquisita la notizia seguente sul rincaro della benzina o la crisi dell’euro.

L’autore ci insegna che dietro quei nomi non ci sono solo dei “soldati morti in Afghanistan”, ma c’erano ragazzi e uomini, ciascuno con i propri sogni, aspettative e progetti , con l’unica variante di non essere assolutamente mai e poi mai anteposti al senso del dovere liberamente esercitato.

Con Afghanistan solo andata, si sfatano i miti del falso pacifismo e si comprendono i valori e gli ideali che animano un giovane che sceglie la vita militare. Per la prima volta ciò lo si capisce non dal politicante di turno, bensì da un Alpino ventiquattrenne di Thiene, caporal maggiore Matteo Miotto, di cui l’autore riporta una lettera scritta di suo pugno.

Micalessin informa che Matteo scrisse quella lettera per  “…trasferire ai ragazzi degli ideali che non ci sono più…” ,  fa sapere del rapporto che aveva con il nonno, Alpino pure lui, e di come suo padre tentò fino all’ultimo di dissuaderlo da quella pericolosa prospettiva di carriera.

Inquadrato il personaggio, informa che della lettera nessuno ha cambiato una riga:

“Voglio ringraziare a nome mio, ma soprattutto a nome di tutti noi militari in missione, chi ci vuole ascoltare e non ci degna del suo pensiero solo in tristi occasioni come quando il tricolore avvolge quattro alpini morti facendo il loro dovere.

Corrono giorni in cui identità e valori sembrano superati, soffocati da una realtà che ci nega il tempo per pensare a cosa siamo, da dove veniamo, a cosa apparteniamo…

Questi popoli di terre sventurate, dove spadroneggia la corruzione, dove a comandare non sono solo i governanti ma anche ancora i capi clan, questi popoli hanno saputo conservare le loro radici dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case: invano. L’essenza del popolo afghano è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre. Allora riesci a capire che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi.

Come ogni giorno partiamo per una pattuglia. Avvicinandoci ai nostri mezzi Lince, prima di uscire, sguardi bassi, qualche gesto di rito scaramantico, segni della croce… Nel mezzo blindo, all’interno, non una parola. Solo la radio che ci aggiorna su possibili insurgents avvistati, su possibili zone per imboscate, nient’altro nell’aria… Consapevoli che il suolo afghano è cosparso di ordigni artigianali pronti ad esplodere al passaggio delle sei tonnellate del nostro Lince.

Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere l’ultimo, ma non ci pensi. La testa è troppo impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo, finalmente siamo alle porte del villaggio…
Veniamo accolti dai bambini che da dieci diventano venti, trenta, siamo circondati, si portano una mano alla bocca ormai sappiamo cosa vogliono: hanno fame…

Li guardi: sono scalzi, con addosso qualche straccio che a occhio ha già vestito più di qualche fratello o sorella… Dei loro padri e delle loro madri neanche l’ombra, il villaggio, il nostro villaggio, è un via vai di bambini che hanno tutta l’aria di non essere li per giocare…

Non sono li a caso, hanno quattro, cinque anni, i più grandi massimo dieci e con loro un mucchio di sterpaglie. Poi guardi bene, sotto le sterpaglie c’è un asinello, stracarico, porta con sé il raccolto, stanno lavorando… e i fratelli maggiori , si intenda non più che quattordicenni, con un gregge che lascia sbigottiti anche i nostri alpini sardi, gente che di capre e pecore ne sa qualcosa…

Dietro le finestre delle capanne di fango e fieno un adulto ci guarda, dalla barba gli daresti sessanta settanta anni poi scopri che ne ha massimo trenta… Delle donne neanche l’ombra, quelle poche che tardano a rientrare al nostro arrivo al villaggio indossano il burqa integrale: ci saranno quaranta gradi all’ombra…

Quel poco che abbiamo con noi lo lasciamo qui. Ognuno prima di uscire per una pattuglia sa che deve riempire bene le proprie tasche e il mezzo con acqua e viveri: non serviranno certo a noi… Che dicano poi che noi alpini siamo cambiati…

Mi ricordo quando mio nonno mi parlava della guerra: “brutta cosa bocia, beato ti che non te la vedarè mai…” Ed eccomi qua, valle del Gulistan, Afghanistan centrale, in testa quello strano copricapo con la penna che per noi alpini è sacro. Se potessi ascoltarmi, ti direi “visto ,nonno, che te te si sbaià…”

 

Leggere Afghanistan solo andata, oltre alle lacrime, chiama la Memoria e il Rispetto. Lontano da subdoli giochi politici, racconta l’oggettività, mette al corrente.

Non annoia e centra in pieno  l’obiettivo:  (ri)dare un volto a degli (stra)ordinari eroi.

Alberto J. Fallani