23/05/2015 - La Striscia di Gaza è attraversata da numerose strade che si dipanano lungo tutta la sua estensione; vie più o meno praticabili percorse, ogni giorno, da centinaia di palestinesi. Molti però non sanno che nel sottosuolo vive un’altra Gaza, più complicata e sicuramente meno frequentata.

Una rete di comunicazione sotterranea di vitale importanza la cui costruzione, in pochi anni, ha assorbito larga parte del capitale a disposizione di Hamas, la fazione politica che dal 2006 governa l’esile fascia di territorio palestinese. Dall’anno in cui il Movimento Islamico di Resistenza (questo significa Hamas) si è affermato come forza politica contrapposta ad al-Fatah, i rapporti con Israele hanno subito una drammatica involuzione. La strategia di tensione nei confronti di Tel Aviv, messa in atto dalle brigate al-Qassam, ha comportato una serie di azioni terroristiche “lampo” verso le comunità dei kibbutz prossime al confine. L’infiltrazione dei terroristi in territorio israeliano avviene, infatti, grazie ad una fitta rete di tunnel scavata dagli uomini di Hamas durante i periodi di tregua con Tel Aviv; e proprio grazie alla pace e agli aiuti umanitari destinati a Gaza, i palestinesi hanno riunito in poco tempo tutto il materiale necessario per rendere più efficienti e sofisticate le loro gallerie.

Economia e mercato nei tunnel

A partire dal giugno 2007, l’embargo imposto dagli israeliani e dall’Egitto alla Striscia di Gaza creò gravi problemi alla popolazione la quale vide progressivamente affievolirsi le già misere risorse alimentari ed energetiche. Dal momento in cui fu sancito il blocco delle merci, erano gli israeliani a stabilire quante e quali derrate potevano oltrepassare il confine. La situazione divenne particolarmente critica a sud della Striscia dove gli abitanti della cittadina di Rafah, presi dalla disperazione, tentavano ripetutamente di violare i confini con l’Egitto. Gli unici passaggi possibili e sicuri per procurarsi cibo, ma non solo, correvano nel sottosuolo: una rete di tunnel che, partendo da Rafah scavalcava il “corridoio di Philadelphia” per poi sbucare nel Sinai. I cosiddetti “tunnel economici” erano già percorsi, negli anni Ottanta, da molti contrabbandieri che scambiavano cibo, ma anche oro, droga e soprattutto armi. All’epoca i controlli erano indubbiamente più blandi e le merci fluivano senza troppi intralci. Dopo gli accordi di Oslo e la fabbricazione del muro divisorio, il lavoro dei contrabbandieri diventò più arduo obbligandoli a soluzioni alternative e ad ampliare la rete di passaggi sia verso l’Egitto, sia in direzione di Israele.

La costruzione di un tunnel - soffermiamoci per il momento solo su quelli a scopo commerciale – era un affare d’oro. Ciascuna fazione politica contribuiva forzatamente alla causa, accollandosi la costruzione di una via sotterranea che per alcuni rappresentava un vero e proprio investimento economico. Lo scavo di un tunnel costava dagli 80.000 ai 200.000 dollari, teoricamente una spesa improba per le casse di Hamas il quale per raccogliere i fondi, si affidava al potere persuasorio degli Imam. In ogni moschea i sacerdoti incitavano i fedeli a impegnare il proprio denaro in questa nuova impresa contro gli “infedeli” e quando qualcuno moriva, sepolto da metri di terra, era equiparato ad un martire dell’Islam.

Malgrado i rischi che comportavano, le vie di comunicazione clandestine rendevano al Movimento Islamico entrate sufficienti per pagare i salari di 75.000 impiegati e, complessivamente, alla vigilia di Cast Lead, i tunnel fruttavano un’entrata mensile di circa 36 milioni di dollari. Ecco perché i tunnel economici, diversamente da quelli militari, furono subito subordinati ad un ferreo controllo del Ministero dell’interno il quale istituì la Tunnel Affair Commission (TAC) con il compito di regolarizzare e assodare il volume di affari generato nel sottosuolo. I tunnel utilizzati per il traffico di derrate non rappresentavano certo una minaccia grave per Israele, sebbene oltre al cibo e al carburante, passassero ingenti quantità di armi che armavano i terroristi. Dopo l’operazione “Cast Lead”, Hamas approfittò della lunga tregua per scavare nuove vie sotterranee; questa volta però non si trattava di far transitare derrate o armi, ma direttamente piccoli gruppi armati pronti a scatenare l’offensiva oltre i confini israeliani.

L’offensiva sotterranea

Gli introiti provenienti dai tunnel commerciali, sommati all’entrata di merci umanitarie, garantivano al partito di Hamas una fonte di sopravvivenza ragguardevole, anche se i benefici non erano equamente ripartiti tra la popolazione. Ad esempio l’afflusso di materiali edili, come il cemento, utile alla ricostruzione di vaste aree del paese, veniva deviato verso strade non proprio legittime.

Nel 2006 il rapimento del carrista Gilad Shalid e le lunghe ed estenuanti trattative per la sua liberazione, erano solo l’inizio di una prassi che, dal luglio 2014, subì una pericolosa escalation. Il 17 luglio 2014, 13 combattenti di Hamas si infiltrarono via tunnel fino al kibbutz di Sufa, a ridosso del confine. Per un caso fortunato le IDF riuscirono ad intercettare il gruppo prima che questo entrasse nel villaggio: nello scontro persero la vita due soldati israeliani. Il 21 luglio, 30 terroristi sbucarono oltre confine travestiti da soldati di Zahal tentando di attaccare i kibbutz di Erez e Nir-Am, quattro militari israeliani morirono respingendo gli aggressori. Appena sette giorni dopo, il 28 luglio, alcuni guerriglieri comparvero all’imboccatura di un tunnel vicino il kibbutz di Nahal Oz uccidendo cinque soldati. Il succedersi di questi attacchi e il concomitante lancio di razzi Qassam scatenarono la reazione israeliana e l’operazione “Protective Edge”. Se il lavoro principale di intercettazione e distruzione dei razzi era affidato al dispositivo Iron Dome, la stessa tranquillità non valeva per gli attacchi condotti sottoterra. Il problema principale dell’intelligence israeliana era identificare l’ubicazione dei tunnel, la loro estensione, ma soprattutto i punti di accesso e uscita. Secondo il tenente colonnello Peter Lerner, portavoce delle IDF, l’intenzione dei palestinesi era quella di sferrare un attacco simultaneo all’interno di Israele infiltrando, via tunnel, almeno 200 terroristi armati fino ai denti. Sempre secondo Lerner poteva essere una sorta di 11 settembre israeliano anche se, si trattava di una attacco annunciato. Effettivamente il governo di Tel Aviv aveva preso sotto gamba il problema delle scorribande palestinesi oltreconfine, sebbene il passato non fosse privo di episodi simili.

Nel luglio del 2014, l’avanzata militare di Zahal si concentrò prevalentemente sulle zone di confine dove gli israeliani schierarono all’incirca 20.000 unità: una brigata corazzata, tre brigate di fanteria, ma soprattutto squadre del genio qualificate per la guerra nelle gallerie. Lo stato maggiore stimò l’esistenza di circa 60 tunnel, lunghi almeno tre chilometri e profondi oltre 20 metri, tuttavia quello che gli israeliani scoprirono sul campo, oltrepassò di molto le loro aspettative. Le IDF svelarono, infatti, dei veri e propri capolavori di architettura sotterranea, efficienti e perfettamente attrezzati.

Nell’intervallo di tempo tra “Cast Lead” e la nuova offensiva israeliana, Hamas aveva fatto del suo meglio, adoperando oltre 800.000 tonnellate di cemento, tanta manodopera e molto denaro. Secondo gli analisti, i leader palestinesi avevano investito oltre un milione di dollari per perfezionare la rete sotterranea, facendo largo uso di risorse destinate alla popolazione. In questo modo le città della Striscia di Gaza continuavano a vivere al limite delle condizioni umane, mentre il governo di Hamas sprecava forza lavoro e denaro al fine di provocare la guerra con Israele. Un conflitto che per gli israeliani era inevitabile, poiché l’unico modo di sventare l’aggressione dai tunnel, era quello di perlustrare ogni edificio di Gaza. La tecnologia, per quanto sofisticata, non consentiva di rilevare con esattezza la posizione e il tragitto di una galleria anche perché i criteri di scavo dei genieri palestinesi seguivano delle logiche primitive, ma efficaci. Hamas aveva preso insegnamento dal partito libanese di Hezbollah il quale, durante la seconda guerra del Libano, ampliò l’efficacia delle fortificazioni sotterranee grazie all’aiuto di ingegneri nord coreani e delle Quds Force iraniane.

La regola principale per realizzare un tunnel senza destare sospetti era l’interdizione di qualsiasi dispositivo elettrico o che producesse vibrazioni anomale del sottosuolo; la terra veniva rimossa con macchinari rudimentali, spesso alimentati dalla sola forza umana. È utile ricordare come tra i lavoratori non fossero presenti solo guerriglieri, ma anche bambini i quali, opportunamente indottrinati sul fascino del martirio, trascorrevano le loro giornate a scavare come talpe. La comunità internazionale e l’Institute for Palestine Studies ha denunciato la morte di circa 160 bambini, deceduti a causa di crolli o fatica, ma soprattutto vittime innocenti di Hamas. Molti hanno comparato la rete sotterranea palestinese a quella scavata dai vietcong durante la guerra del Vietnam, ciò nondimeno ci sono delle differenze molto importanti. In primo luogo la fattezza delle gallerie: quelle costruite da Hamas risultano più sofisticate, hanno pareti in cemento, luce elettrica e la loro larghezza è tale da consentire il transito di veicoli motorizzati. Secondariamente le gallerie palestinesi seguono un disegno complicato, e cosa ancor più grave, hanno l’entrata dissimulata in edifici insospettabili come scuole, ospedali, moschee o addirittura sedi delle Nazioni Unite. Di per sé l’utilizzo di tunnel per combattere, proteggersi o movimentare truppe non rappresenta alcuna violazione della Convenzione di Ginevra, tuttavia – come ricorda Jay Sekulow nel suo Rise of ISIS – Hamas usa la popolazione come scudo umano alle sue istallazioni, quindi commette un grave crimine di guerra.

Ad appesantire la coscienza di Hamas rispetto il suo popolo, è l’esistenza di una terza ed ultima categoria di tunnel, vale a dire quelli allestiti unicamente per proteggere le personalità di partito e le relative famiglie. I rifugi, solitamente ubicati nel centro cittadino, non hanno carattere offensivo, ciò nondimeno si trovano spesso protetti da edifici a prima vista innocui. È chiaro che i leader palestinesi manifestano una scarsa predisposizione al martirio e a condividere le disgrazie collettivamente; secondo alcune fonti israeliane Ismail Haniyeh, numero uno di Hamas, sarebbe proprietario di vasti appezzamenti di terreno e pagherebbe ingenti somme di denaro per far studiare i suoi figli in Europa e curare la sua famiglia in ospedali israeliani.

La tecnologia contro i tunnel

La brigata del Golan e l’84a brigata Givati sono state le prime ad entrare nella Striscia di Gaza con l’obiettivo di appurare dove fossero gli ingressi dei tunnel. Una volta assodata l’esistenza di un passaggio sotterraneo i soldati avevano l’ordine di bonificarlo dalle varie trappole esplosive e poi distruggerlo; un lavoro estenuante e rischioso poiché la ricerca non era coadiuvata da un adeguato lavoro di intelligence. Su questo punto i terroristi sfruttavano a proprio vantaggio il fattore sorpresa, mentre per Zahal il costo di vite umane stimato per rintracciare un tunnel era davvero troppo alto. Come anticipare le mosse di Hamas e con quali strumenti?

Alla fine di “Protective Edge” gli israeliani conseguirono tutti i loro obiettivi, larga parte dei tunnel erano stati demoliti, tuttavia il futuro non lasciava presagire nulla di buono. Come era già avvenuto, ogni cessate il fuoco conquistato da Hamas significava nuovo tempo e denaro per rincominciare a scavare il sottosuolo e individuare nuovi modi per colpire l’eterno avversario. Era dunque imprescindibile per il governo israeliano acquisire tutti i mezzi necessari per scongiurare la costruzione di nuovi tunnel. Secondo l’opinione del geologo israeliano Jospeh Langotsky, la minaccia dei tunnel era stata per lungo tempo sottovalutata dal comando israeliano; la guerra in Libano del 2006 e i tunnel nei quali operavano gli Hezbollah dovevano servire da campanello di allarme, eppure nessuno fece mai nulla. Al contrario il partito di Hamas imparò bene la lezione, migliorando la qualità delle sue costruzioni.

Quando i soldati della Givati entrarono nelle gallerie restarono sbalorditi dall’accuratezza con la quale erano state costruite: cemento di ottima qualità, cavi elettrici, binari in ferro, tutti materiali di prim’ordine. Ma come avevano potuto reperire tutto quel materiale? Alla fine dell’operazione “Pillar of Defence”, nel novembre 2012, il governo di Obama, per compiacere la comunità internazionale, fece pressioni sul premier Netanyahu affinché accordasse l’entrata in Gaza di tutte le attrezzature edili utili per la ricostruzione. Il primo ministro Netanyahu e la Knesset sapevano però che questa concessione sarebbe costata cara e, alla luce dei fatti, non avevano torto.

Ad oggi l’unità di sviluppo e ricerca delle IDF sta lavorando alacremente per trovare un sistema che permetta di intercettare la costruzione delle gallerie prima che queste sbuchino in territorio israeliano: il costo stimato si aggirerebbe intorno ai 59 milioni di dollari. Alcune tra le migliori imprese israeliane hanno presentato diversi progetti i quali hanno come oggetto “l’ascolto” del terreno. La compagnia israeliana Magna ha proposto di scavare un tunnel di 70 km – lungo il confine con la Striscia – dotato di appositi sensori che rilevano i movimenti del terreno. Secondo il direttore della compagnia, Haim Siboni – intervistato dal Globe – questo sistema trasmetterebbe in tempo reale dati utili per identificare dove sia la zona di scavo e quanti uomini vi stiano lavorando. Sulla questione dei tunnel è persino intervenuto un noto archeologo canadese, Paul Bauman, scopritore del presunto sito di Atlantide. Il canadese ha lavorato diverso tempo con lo stato maggiore delle IDF al quale ha fatto presente che l’unico strumento efficace per scovare le gallerie di Hamas non sia in un solo tipo di tecnologia, ma in una combinazione di esse – radar, tomografie del terreno e misurazione sismica. In particolare, ha riferito Bauman, l’uso di un radar sotterraneo potrebbe essere la soluzione più indicata: “tutto dipende da che tipo di frequenza si vuole utilizzare, infatti, tu puoi avere un apparato che vede 100 metri sotto il suolo, ma a bassa risoluzione o a soli 10 metri ad altissima risoluzione”. In più, ha ribadito l’archeologo canadese “il radar è particolarmente indicato per segnalare costruzioni di cemento e barre di metallo, tutti materiali impiegati nei tunnel di nuova generazione”.

Paradossalmente, l’evoluzione tecnica di Hamas nella costruzione delle gallerie, è diventata un’arma a doppio taglio. Il secondo problema che assilla lo stato maggiore israeliano è la salvaguardia della vita dei suoi soldati allorquando incappano in un tunnel. Alcuni mesi dopo “Protective Edge”, la ditta Roboteam di Tel-Aviv ha presentato al Ministero della difesa il nuovo Micro Tactical Ground Robot, un piccolo dispositivo largo meno di un metro e dal peso inferiore ai 10 chili, che può insinuarsi nei tunnel scansionandoli grazie a cinque telecamere, un microfono interno e un puntatore laser. Questo piccolo e agile strumento, facilmente trasportabile dalla fanteria, fornisce agli operatori israeliani la possibilità di vedere e ascoltare preventivamente ciò che accade in una galleria, così da entrarvi consapevoli dei pericoli che troveranno.

L’ultimo nodo da risolvere è su come distruggere il tunnel nella sua interezza poiché, il crollo di una parte di esso, non basta a eliminare la minaccia. Oltre a una buona quantità di esplosivo, alcuni esperti hanno promosso l’impiego del FAE (Fuel Air Explosives) la cui potenza ricorda il napalm della guerra in Vietnam. Le operazioni militari delle IDF hanno apparentemente raggiunto tutti gli obiettivi prefissati: buona parte dei tunnel sono stati demoliti, tuttavia la scommessa resta aperta poiché in molti si interrogano su quanto tempo impiegherà Hamas per riarmarsi e scavarne di nuovi. La nuova strategia israeliana però è cambiata e, finalmente, punta verso la prevenzione investendo ingenti somme di denaro per arrestare i terroristi prima che questi inizino ad insinuarsi sottoterra. L’unica certezza resta Hamas e la sua ferma intenzione di colpire sempre e comunque Israele: contro questa attitudine non esiste alcuna tecnologia o arma speciale in grado di arrestarli.

Paolo Palumbo

(foto: IDF)