26/03/2015 - Sono giorni che si sente ripetere da più parti : "siamo pronti per un intervento militare in Libia." A parte le buone intenzioni, gli auspici bellicisti di certi gonzi e le fesserie un tanto al chilo di talaltra politica tre cose sicuramente rischiano di far fare all'Italia ed alle sue forze armate una figura incresciosa in terra di Libia.
In primo luogo è chiara l'esistenza di un profondo scollamento tra classe dirigente nazionale ed istituzioni militari, il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito arriva addirittura ad auspicare che se gli si dovessero essere assegnati dei compiti questi dovranno essere accompagnati dalle relative risorse, un modo elegante per far capire che ultimamente non funziona così.
C'è poi da tenere presente l'attrito istituzionale generatosi a seguito dell'ormai annosa querelle chiamata Maró, un problema non solo di natura umana, ma di portata giuridica internazionale.
L'Italia vede il proprio personale militare detenuto ed in attesa di processo presso un altro stato da ormai tre anni, un precedente assai ghiotto per chiunque voglia combattere e vincere sul terreno morale e cognitivo (Stato Islamico). Ultimo sintomo di incomunicabilità tra realtà che dovrebbero costituire il potere nazionale (DIME nda) è il continuo andirivieni di programmi finalizzati alla realizzazione di peace enforcement, poi peace keeping, anzi meglio peace building, insomma al posto dell'approccio onnicomprensivo si sta sperimentando l'approccio casuale dialettico, cioè ognuno dice ciò che pensa e poi realizza ben poco.
Sulla questione libica si vuole applicare un soft power a tutti i costi senza che peraltro vi sia un interlocutore, da qui probabilmente la volontà di farlo sorgere dal nulla attraverso un governo consociativo libico che dovrebbe mettere assieme troppe istanze a volte profondamente opposte tra di loro.
L'auspicio è che si trovi il coraggio di chiamare le cose con il proprio nome e che le istituzioni si ricordino di appartenere tutte alla stessa "squadra".
Se ci dovesse essere la necessità di combattere la si chiami guerra, se si dovrà ricostruire chiamiamolo pure peace building, ma evitiamo di anteporre ad ogni azione la parola pace solo per velare di ipocrisia le esigenze connesse all'interesse nazionale.
L'Italia torni ad essere nazione e la sua classe dirigente impari ad essere guida e garante del benessere comune senza assurdi asservimenti ad altri Stati come troppo spesso accade.
Andrea Pastore