28/03/2015 - Sono le 17 di un venerdì a Mogadiscio dove anche il rumore delle cinture esplosive è normalità. Il commando di 9 miliziani di Al-Shabaab ieri ha fatto irruzione nella capitale somala riscuotendo un risultato abbastanza barbaro da ottenere il plauso di Al-Quaeda: 17 morti e 28 feriti.
La prima esplosione si avverte all'ingresso del Maka Al-Mukarramh, l'albergo che si trova sulla strada per il palazzo presidenziale e che ospita quotidianamente giornalisti da ogni parte del mondo, diplomatici e politici di ogni rango. L'autobomba apre un varco e inizia a mettere in allerta gli ospiti e i vicini.
Il commando irrompe sparando all'impazzata nella hall dell'albergo. Arrivano il silenzio, la paura e la morte che in Somalia pare non lavorare mai abbastanza.
Quattro assalitori raggiungono il tetto dove sparano sulla folla che scappa confusa dal rumore e atterrita dal panico. Altri morti e feriti.
Chi rimane nell'albergo prende possesso dell'intera struttura. La situazione degenera in un assedio in grande stile con tanto di cinture esplosive e raffiche sui civili.
Intervengono le forze speciali somale che sfondano un muro per entrare e, dopo 13 ore, pongono fine all'assedio uccidendo anche l'ultimo dei terroristi asserragliati.
La paura e il fischio dei proiettili nelle orecchie rimangono. Una normale giornata a Mogadiscio può finire anche così.
Mogadiscio e la Somalia non vedono la normalità da decenni, combattono una guerra civile dietro l'altra come se si sentisse l'impellente necessità di covare odio per qualcosa o per qualcuno.
L'Italia nel 1992 aveva posto le basi per iniziare a lavorare sul recupero sociale, economico e politico del paese attraverso il mandato ONU. Nel 1995 con ragioni ancora da chiarire la missione IBIS si conclude: abbandoniamo la Somalia al suo destino e aspettiamo che la situazione si risolva da sola.
"Li abbiamo lasciati a morire come bestie, non penso che me lo perdonerò mai!" mi dice tra le lacrime uno dei veterani.
A vent'anni sembra che mai nessuno abbia messo piede in Somalia.
Crocevia di ogni tipo di traffico illecito e da molti analisti definita "terra di nessuno", chiunque può iniziare una guerra e combatterla in Somalia.
Con immenso slancio di iniziativa (ma pochissima sostanza) l'Europa ha deciso di creare un contingente multinazionale per aiutare il governo somalo ad addestrare le nuove Forze Armate e di Polizia del paese.
Il terrorismo di matrice islamica nel frattempo macina morti e recluta personale; mentre gli altri si addestrano partendo da zero, loro costruiscono un impero di illegalità sulle macerie di uno Stato.
L'Italia ha da sempre rivestito un ruolo chiave per il supporto del paese: visti i suoi trascorsi coloniali e l'ottimo rapporto intrattenuto la Somalia nutre grandissima fiducia nel tricolore e sopratutto nell'Esercito.
Il risorgere economico e politico del paese sarà letteralmente impossibile fino a quando le milizie di Al-shaabab, legate alla rete terroristica di Al-Qaeda, non saranno neutralizzate o almeno ridotte ai minimi termini per mettere in sicurezza il Paese.
L’assenza di una credibile alternativa al dominio delle milizie jihadiste, infatti, costituisce spesso la causa del proliferare dei fenomeni criminali, alimentando non di rado il reingresso delle milizie stesse nei territori sottratti grazie alla capacità militare delle forze governative e dell’Unione africana.
L'Italia si pone in prima linea per l'addestramento delle forze regolari del paese con la missione EUTM Somalia, un'azione sicuramente importante accompagnata però da una strategia complessiva per il paese e l'intera regione assai modesta, scarsamente finanziata e destinata ad assumere un ruolo marginale rispetto a quella di altri paesi europei, o dei nuovi grandi attori come la Turchia.
Sarebbe opportuno dedicare alla Somalia e all’intero Corno d’Africa un progetto di intervento assai più coraggioso e consistente.
Il nostro paese potrebbe assumere la leadership - questa volta seriamente - del sostegno europeo e puntando senza indugio sulla ricostruzione istituzionale e al rilancio culturale del paese, sopratutto grazie alla lunga tradizione che lega le due nazioni.
Investire nella Somalia e nella sua ricrescita vorrebbe dire avere una notevole influenza sulle rotte migratorie dirette sulle coste italiane, non solo il ritorno in termini di opinione pubblica sarebbe eccezionale ma sicuramente inizierebbe una nuova fase di fiducia tra istituzioni e popolazione somala.
Il taglio dei flussi migratori non solo è fondamentale per il nostro paese ma taglierebbe in modo drastico anche il finanziamento al terrorismo della zona del porto di Kisimayo al Sud della Somalia, lasciando al minimo gli investimenti per contrastare le nuove forze della coalizione governativa.
I risultati eccezionali degli investimenti per la sicurezza della zona del Corno d'Africa si sono già dimostrati proficui con l'annientamento della pirateria nel Golfo di Aden.
Il contrasto ha visto schierate sia le forze di terra sia le forze marittime, senza togliere nulla all'importanza fondamentale delle forze di sicurezza privata impiegate sui mercantili.
Quello che rappresenta la Somalia per la politica estera italiana è un progetto di credibilità internazionale, una responsabilità che dobbiamo e possiamo assumerci ma che accantoniamo ritenendo superficiale l'esborso militare e diplomatico che tale incarico richiederebbe.
Mi chiedo allora se sia ancora il caso di lamentarci del terrorismo, se sia il caso di piangere le vittime degli attentati quando non si ha la volontà né politica né di opinione pubblica di debellare il problema o almeno di arginarlo nel momento in cui si potrebbe materialmente fare qualcosa.
Gli ignavi alla Storia non sono mai piaciuti.
Denise Serangelo