07/04/2015 - L’inizio del 2015 non è stato di buon auspicio per il premier israeliano Benjamin Netanyahu il quale, malgrado abbia riottenuto la fiducia dell’elettorato, è testimone di un momento “internazionale” palesemente non favorevole a Israele.

Forse anche per questo motivo l’opinione pubblica israeliana ha scelto lui e la destra del Likud per tutelarsi dai venti ostili che soffiano da occidente. Gli Stati Uniti d’America hanno siglato un patto con l’Iran sul nucleare, un accordo che ha diviso gli stessi americani e che intimorisce la Knesset per le possibili conseguenze. Un patto chiaramente in funzione anti sunnita che smentisce anni di politica internazionale americana e che riequilibra in modo inconsueto la bilancia di potere del Medio Oriente.

Le cattive notizie non arrivano mai sole, questo avrà pensato “Bibi” Netanyahu (foto sotto) quando sul tavolo del suo studio è arrivata la notizia ufficiale che dal 1° aprile la Palestina ha fatto il suo ingresso ufficiale come membro dell’International Criminal Court dell’Aia. Non è una sorpresa per Israele dacché è da diverso tempo che l’Autorità Palestinese sgomita presso la comunità internazionale per entrare in diversi comitati di risonanza mondiale. Lo aveva fatto, senza successo, nel 2011 con le Nazioni Unite, poi nel 2012 entrando nell’Unesco e adesso con la Corte Criminale Internazionale in Olanda.

L’adesione della Palestina alla Corte Internazionale crea un precedente molto pericoloso. Esistono, infatti, altre realtà non statuali impegnate in annosi conflitti ancora irrisolti – ad esempio Baschi, Ceceni, Kurdi, Tibetani – i quali non possono appellarsi alla corte dell’Aia proprio perché non sono considerati stati.

Nel 2009, immediatamente dopo l’incursione israeliana a Gaza (op. Cast Lead) l’ICC aveva seguito la stessa discriminante con l’AP, negando ad Abbas il suo intervento proprio perché la Palestina non era riconosciuta come stato indipendente. Dalla fine del 2014 il vento del consenso ha mutato direzione e, il vicepresidente dell’ICC Sidiri Kaba, contraddicendo le regole generali, ha dato ufficialmente il benvenuto tra i seggi del tribunale allo “Stato” Palestinese. In questo modo l’ICC si colloca in una posizione per niente facile, rischiando molto del suo prestigio poiché non spetta ai suoi membri entrare nelle questioni territoriali, tanto meno immischiarsi in trattative politiche già avviate da tempo. Secondo gli americani, infatti, la presenza della Palestina nel tribunale dell’Aia eroderebbe il lavoro della diplomazia e le prime conseguenze sono già percettibili. I membri rappresentanti di Australia, Canada, Gran Bretagna e Germania hanno espresso il loro disappunto temendo un’arrischiata “politicizzazione” della corte internazionale.

Ovviamente, i palestinesi hanno sfruttato al meglio questa vittoria diplomatica. Il giorno della proclamazione, il capo negoziatore dell’AP Saeb Erekat ha dichiarato come “Oggi sia una giornata storica nella lotta per la giustizia, la libertà e la pace per il nostro popolo e per tutti quelli che inseguono la giustizia nel mondo […] questo giorno riflette l’adesione della Palestina ai principi di pace e giustizia della legge internazionale e dei diritti umani. La nostra determinazione nel proteggere il nostro popolo contro l’ingiustizia e i responsabili dei crimini di guerra”. Anche senza volerlo l’ICC si è fatta trascinare in un gioco forse troppo complesso.

Ma cosa implica questa partecipazione nei termini del conflitto con Israele (stato non membro dell’ICC)? Con l’accettazione da parte palestinese dello Statuto di Roma, siglato nel dicembre 2014, l’ICC può allargare la sua giurisdizione sulla Cisgiordania e la Striscia di Gaza i quali sono considerati, illegittimamente, Stato Palestinese. Il nodo centrale sono i presunti crimini di guerra commessi dalle IDF durante le operazioni militari Cast Lead, ma soprattutto Protective Edge occorsi nell’ultima estate 2014.

David Makovsky, direttore del progetto Middle East Peace Process del Washington Institute for Near East Policy, ha fatto notare come all’atto della firma dello statuto di Roma, il leader Mahmoud Abbas abbia allegato un documento che richiamava l’attenzione della corte sui crimini di guerra commessi a Gaza dal 13 giungo 2014, coincidenti proprio con l’operazione Protective Edge. Quanto è accaduto in quel periodo è noto a tutti: il rapimento dei tre minorenni israeliani, il loro barbaro omicidio, i razzi di Hamas e la conseguente reazione militare di Tel Aviv. La risposta militare israeliana, come sempre, era stata molto incisiva: era vitale distruggere totalmente la rete di tunnel utilizzata dai terroristi per infiltrarsi nei kibbutz a ridosso del confine. È risaputo che le provocazioni di Hamas sono fatte ad hoc per spingere le truppe israeliane all’interno della Striscia, dove le probabilità di mietere vittime tra i civili sono altissime e, malgrado l’attenzione maniacale dello Stato Maggiore di Zahal, il macabro conteggio delle vittime è sempre favorevole alla propaganda dei terroristi.

A gennaio di quest’anno il procuratore dell’ICC, signora Fatou Bensouda (foto a sx), ha avviato un’indagine preliminare sui presunti crimini di guerra commessi dagli israeliani durante l’attacco a Gaza, accogliendo così le istanze palestinesi. Nella sue ricerche però la signora Bensouda deve tener conto di alcuni fattori non secondari. In primo luogo – come ha fatto notare lo stesso Makovsky in una relazione all’Aia – Israele non è uno stato africano retto da un dittatore militare improvvisato, bensì è una democrazia e la corte non ha giurisdizione laddove esistono tribunali democratici funzionanti. Gli eventuali crimini di guerra commessi dai soldati israeliani sono già oggetto di esame della procura militare di Tel Aviv e i responsabili subiranno pesanti condanne dalla corte marziale delle IDF. Ogni giudizio espresso su queste sentenze metterebbe l’ICC in una situazione sgradevole, poiché non sarebbe ammissibile una sua ingerenza nelle questioni processuali di uno Stato sovrano. Il secondo punto è la responsabilità di Hamas su quanto è accaduto in tutti questi ultimi anni.

Jan Sekulow, noto giurista americano, ha esaminato la questione dei crimini di guerra nel suo Rise of ISIS. A threat we can’t ignore. L’esempio da lui preso è proprio quello di Hamas e i suoi capi i quali, ipocritamente, non perdono occasione per puntare il dito contro la brutalità israeliana.

Se leggiamo l’articolo 51 del Protocollo Addizionale della Convenzione di Ginevra questo recita chiaramente che “La presenza o i movimenti della popolazione civile o di persone civili non dovranno essere utilizzati per mettere determinati punti o determinate zone al riparo da operazioni militari, in particolare per cercare di mettere obiettivi militari al riparo da attacchi, o di coprire, favorire o ostacolare operazioni militari”. Hamas contraddice sistematicamente a questo dettame, e le IDF, per quanto maniacali siano le valutazioni su come e dove colpire, non possono evitare “danni collaterali. Hamas viola sistematicamente quanto prescritto, ma in molti preferiscono chiudere gli occhi.

Lo stato maggiore israeliano ha provato che gli ingressi dei tunnel o dei magazzini di armi sotterranei, fossero occultati in abitazioni civili, scuole e persino sedi delle Nazioni Unite. Allo stesso modo i luoghi di culto sono utilizzati dalle brigate Izz al-Din al-Qassam come base di lancio per i razzi diretti in Israele. Se i membri dell’AP intendono muovere accuse contro le IDF non devono però trascurare che l’operato di Hamas pesa interamente sulle loro coscienze, e non deve dimenticarlo neanche l’ICC. Il ricorso alla giustizia internazionale potrebbe, così, rivelarsi un’arma a doppio taglio per i palestinesi.

Se parte del mondo occidentale saluta con esultanza l’ingresso della Palestina nell’ICC dovrà presto ravvedersi. Lo scontro tra israeliani e palestinesi non può essere risolto nelle aule di un tribunale internazionale poiché, come hanno argomentato molti giuristi e diplomatici, solo alcune questioni possono rientrare nelle sue competenze, e non sempre con chiarezza.

Paolo Palumbo