13/07/2015 - Luglio, mese di vacanze e relax.
Per alcuni estimatori dell'informazione vacanziera tra una rivista di gossip e una di cucina si può dare uno sguardo anche ai quotidiani che da qualche giorno in prima pagina scrivono: l'Italia sotto attacco!
Increduli, taluni, si confrontano con il loro vicino di ombrellone - "ma tu ne sapevi nulla?".
Non perdono nemmeno tempo a capire dove sia l'Egitto e quale sia la sua storia più recente. Basta sapere che gli egiziani sono musulmani, occupano una parte di terra che si affaccia sul mediterraneo per essere certi che la colpa sia del Califfato. Inizia così un'avventurosa analisi sui fatti accaduti.
Analisi a tratti ambigua a tratti lacunosa, fa riferimento a momenti storici diversi, materie lontane tra di loro e personaggi che hanno solcato la scena internazionale qualche decennio addietro.
Eccolo che l'italiano a suo dire ben informato apre l'osservatorio di geopolitica internazionale sotto l'ombrellone, avanza ipotesi e trova soluzioni, il tutto tra una birretta e una passata di crema solare.
Fosse così facile l'avremmo fatto anche noi e ci saremmo risparmiati cinque anni di laurea e qualche risma di carta.
L'Egitto è un Paese dilaniato da una primavera araba includente e da vuoti di potere che dal 2011 destabilizzano l'intera società egiziana.
Anche dopo l’elezione di Abdel Fattah al-Sisi a Presidente della Repubblica nel maggio 2014, la transizione egiziana non può definirsi totalmente conclusa poiché a seguito delle destituzioni di Hosni Mubarak nel febbraio 2011 e di Mohamed Morsi nel luglio 2013 permane nel paese un rilevante problema di sicurezza, reale e percepita.
Attualmente la minaccia principale è Ansar Bayt al-Maqdis -ABM - responsabile della quasi totalità degli attentati svolti in tutto il paese diversi anni a questa parte. Questa cellula opera su più fronti coinvolgendo la penisola del Sinai nella sua interezza, il mainland egiziano e le province occidentali vicino al confine libico.
ABM è un’organizzazione islamista radicale di matrice salafita che si richiama all’ideologia qaedista ma che ufficialmente non risulta legata ad Al-Qaeda attraverso un’affiliazione diretta come nel caso di AQAP (Al-Qaeda in the Arabian Peninsula, ndr).
Il gruppo presenta, comunque, collegamenti rilevanti con le sezioni siriane più o meno direttamente affiliate al nucleo duro di Al-Qaeda e ai movimenti islamisti attivi in Libia. Tra le numerose sigle affiliate al gruppo egiziano troviamo immancabile la bandiera nera dell'IS che si è già ampiamente imposta con decapitazioni ed emulazioni nella zona del Sinai.
La sinergia tra le due cellule terroristiche è immancabile e si spalleggiano vicendevolmente grazie ad interessi congiunti.
ABM prima del 2013 - cioè prima del Golpe - fondava le sue azioni paramilitari sopratutto con rapimenti di soldati, sul lancio di razzi verso Israele e sugli attentati alle infrastrutture economiche – tra tutte l’Arab Gas Pipeline, il gasdotto sinaitico che rifornisce di gas naturale liquido la Giordania.
Il golpe del luglio 2013 segna uno spartiacque importante, non solo perché vista la destabilizzazione si può approfittare della situazione ma sopratutto per la nuova presenza sulla scena del Califfato di Al-Bhagdadi.
Il modus operandi della cellula jihadista è segnato da innalzamento del livello qualitativo degli attacchi.
Questo significa obbiettivi maggiormente legati a simboli politici o di potere, edifici che rappresentano un sistema che deve crollare per lasciare posto ai vertici del terrore.
Nonostante le campagne di counterterrorism contro i miliziani di ABM e delle altre sigle jihadiste, i risultati sono contenuti, ma almeno si può gioire del fatto che i risultati ci siano!
Vista la vicinanza geografica a paesi già gravemente colpiti dal fenomeno jihadista, Al-Sisi al fine di impedire il ripetersi di tale scenario anche in Egitto a deciso di offrire il proprio supporto al governo libico riunito a Tobruk inviando un’unità specializzata anti-terrorismo composta di addestratori e di consiglieri militari.
A fronte degli sforzi profusi dal governo egiziano, il numero di cellule radicali continua però a crescere, in particolare nel Sinai: un fenomeno sospinto soprattutto dal dissenso islamista nei confronti dell’establishment civile-militare.
Un paradosso che si è manifestato in tutta la sua evidenza con la non-partecipazione attiva dell’Egitto nella coalizione arabo-occidentale contro l’ISIS, nel timore che una sua iniziativa militare possa incentivare una ritorsione da parte dei gruppi radicali e, allo stesso tempo, favorire un nuovo bacino di reclutamento dal quale attingere nella battaglia jihadista contro il governo centrale.
Se gli Stati Uniti spingono per un maggiore coinvolgimento dell’Egitto nel fronte anti-IS, di converso al-Sisi si limita a una forma di “appoggio esterno” consapevole dei rischi di instabilità crescente che abbracciano tutto il Nord Africa e il Medio Oriente.
La preoccupazione principale è che l'Egitto possa diventare un punto nevralgico per le operazioni terroristiche verso i maggiori scenari di crisi nella regione mediterranea.
L'Egitto dunque è dunque qualcosina i più di un gruppo di musulmani inferociti che si affacciano sul Mediterraneo, l'Egitto rischia di essere l'ultimo grande gigante a cadere nelle mani del terrorismo.
Il presidente Al-Sisi a differenza di quanto si possa dire sotto l'ombrellone è fortemente schierato contro il terrorismo interno ed internazionale che sta dilaniando la sua regione, talvolta a costo di sembrare totalmente intransigente.
Sfortunatamente non basta qualche raid aereo e qualche legge più severa per arginare un fenomeno complesso e dalle mille sfaccettature.
L'Egitto ha da considerare le grosse ondate di turismo che da sempre lo contraddistinguono come una risorsa che non deve essere attaccata, il paese si deve dividere tra la lotta al terrorismo e la sua vita quotidiana.
Chi trova soluzioni sotto la graticola estiva oppure scrivendoli in 140 caratteri sui social sminuisce il problema, lo riduce ad una banale assenza di ferma volontà da parte del governo centrale egiziano.
Il primo luglio scorso con l'approvazione della legge antiterrorismo che concede più potere ai giudici impegnati in questa lotta e che permette un periodo di detenzione più lungo per i sospetti affiliati, il paese si è schierato in prima linea sottolineando l'importanza del "pugno di ferro". Lodevole ma pericoloso.
Il giorno dopo infatti - 2 Luglio - le ritorsioni non si sono fatte attendere, segno che ai terroristi non entusiasma la scelta direzionale presa dal nuovo governo egiziano. Un gruppo jihadista affiliato allo Stato islamico ha attaccato simultaneamente diversi posti di blocco dell’esercito egiziano vicino a Sheikh Zuweid e a Rafah, nel nordest del paese. I miliziani, secondo quanto riportato da alcuni testimoni, hanno attaccato la stazione di polizia di Sheikh Zuweid con colpi di mortaio e armi da guerra, mentre diverse autobombe colpivano cinque posti di blocco nelle vicinanze. L’esercito del Cairo ha risposto con una serie di raid con aerei F-16 ed elicotteri Apache, bombardando le postazioni dei miliziani nel nordest della provincia del Sinai.
I bombardamenti, secondo le fonti sono continuati fino alle prime ore dell’alba.
Un colpo all'incudine - i terroristi - e cento al martello.
Tutto questo è molto interessante è delinea una situazione strategica orientata alla lotta la terrorismo, ma allora come si colloca in questo scenario l'attentato del 12 luglio al Cairo e perché l'Italia ne è presumibilmente coinvolta?
Sarebbe bene iniziare con l'ammettere - a costo di sembrare controcorrente - che l'Italia non è in guerra.
Il nostro governo è da sempre schierato accanto a quello egiziano per a lotta al terrorismo, fatto che abbiamo già detto non essere gradito alle cellule terroristiche della regione.
Alle 6.30 ( ora locale ) un'autobomba con 450 chilogrammi di carica si è stata fatta esplodere nelle vicinanze del consolato italiano.
Immediatamente si è imposta l'ipotesi più lampante, l'Italia è l'obbiettivo. Tuttavia già qualche ora dopo il fatto e nonostante le rivendicazioni - inattendibili - poteva essere chiara la marginalissima attenzione verso il nostro paese.
E' cosa nota che le riflessioni dopo un attentato sono sempre dovute e doverose, ma qualche volta ( per la verità quasi sempre ) i non addetti ai lavori preferiscono l'allarmismo ad una sana analisi dei fatti e delle circostanze.
Partiamo dalla prima ipotesi: avvertimento all'Italia. Presupposto plausibile ma che ci lascia dubbi pesanti sulla sua attendibilità.
Quel che proprio non quadra in questa ipotesi è il modus operandi non attribuibile al califfato. Da un anno a questa parte il califfato di Al-Bhagdadi ci ha abituati ad attentati chiari e senza preavviso, spesso spiegati accuratamente (vedi il pilota giordano bruciato vivo e non decapitato perché di fede musulmana).
Un preavviso non è proprio nella sua natura così come abbiamo già sottolineato per gli attentanti in Francia, l'IS agisce in modo preciso e spietato con finalità chirurgiche.
La ponderazione dei pro e dei contro è il fulcro fondamentale dell'attentato.
Come già evidenziato in diversi casi le modalità di questo attentato mal si attagliano alle abitudini dell'Isis.
Un attacco pianificato dagli strateghi del Califfato sarebbe scattato nell'ora di massimo affollamento degli uffici e non alla loro chiusura. L'autobomba non sarebbe stata fatta esplodere in prossimità del palazzo, ma dentro il portone grazie ad un kamikaze incaricato d'innescare il detonatore prima di schiantarsi sull'ingresso. Non sarebbero mancati militari (o presunti tali) incaricati di eliminare i sopravvissuti emersi dalle macerie.
Scenari già presentati come efficaci ed assodati e che non hanno ragione di esser modificati in Egitto.
La rivendicazione distribuita via twitter e firmata con l'inedita sigla di «Organizzazione dello Stato Islamico-Egitto» aumenta i dubbi sulla reale natura dell'attacco.
La cellula dell'IS in Egitto si è affiancata fin dalle origini alla sopracitata ABM che oggi venne ribattezzata come «EI Wilayat del Sinai», ovvero dal gruppo del Sinai - ovvero Provincia del Sinai - dopo l'adesione al Califfato.
Ma se l'IS non è colpevole di questo attentato e ne ricava solo una vantaggiosa pubblicità allora è lecito chiedersi chi ci sia dietro.
La risposta è da ricercarsi nelle vicende interne dell'Egitto e nella sua geopolitica complessa.
Sulla scena egiziana abbiamo fino ad ora trascurato la presenza del movimento islamico radicale dei Fratelli Musulmani fondato in Egitto nel 1928.
A guidare originariamente il gruppo c’era un giovane precettore, un fervente religioso dall’eloquio eccezionale: Hassan al Banna. I suoi discorsi prendevano di mira la decadenza dei costumi della società egiziana e predicavano il ritorno alla purezza dell’antico Islam. L’Egitto in quegli anni viveva in uno stato di povertà quasi assoluta e Hassan al Banna prometteva di modernizzare il paese e liberarlo dal controllo britannico. L’organizzazione crebbe velocemente fino a diventare un soggetto politico molto popolare, che sposò la causa delle classi in difficoltà e giocò un ruolo preminente nel movimento nazionalista egiziano. Il radicamento nella società fu favorito dalla rapida diffusione di centri di islamizzazione, che si occupavano anche di fornire assistenza economica ed educazione alle persone più disagiate.
Nel 1954 - dopo la morte del leader fondatore - il nuovo presidente egiziano Nasser dopo aver tollerato i Fratelli Musulmani, li considerò responsabili di un tentativo di omicidio a cui era scampato e iniziò ad arrestare, torturare e deportare i suoi membri. Per sopravvivere, la Fratellanza fece espatriare i suoi dirigenti più importanti.
Attualmente sotto il governo di Al-Sisi la Fratellanza ha subito un'ulteriore dura repressione, la linea intrasigente del presidenza ovviamente lo ha reso oggetti di violente manifestazioni.
Il 30 giugno 2015 un'auto bomba - simile a quella usata al consolato - fu utilizzata per uccidere il procuratore generale Hisham Barakat che istituì il processo contro l'ex presidente Mohammed Morsi e centinaia di militanti della fratellanza.
La somiglianza tra le due autobombe renderebbe credibile l'ipotesi che sia stata la Fratellanza musulmana a compiere l'attentato.
Pochi istanti prima dell'esplosione proprio davanti al consolato italiano era transitata la vettura con a bordo il giudice Ahmed al Fuddaly, presidente della corte suprema e molto vicino al presidente Al-Sisi.
In Egitto la Fratellanza Musulmana ha infatti indetto una vera e propria caccia all'uomo (o al magistrato) richiamando gli jihadisti a combattere contro quei soggetti governativi - magistrati e forze dell'ordine - che lavorando per contro dell'anti islamico Al-Sisi.
Esiste un'ipotesi meno rassicurante e anche meno probabile,che vede realmente coinvolto il nostro paese.
L'attentato del Cairo, anticipa la firma dell'accordo di pace e conciliazione proposto per la Libia dall'Onu, accordo firmato da Bernardino Leon e dal governo libico di Tobruk. Lasciata fuori da tale accordo è la coalizione islamista controllata dai Fratelli musulmani che detengono il potere nella zona di Tripoli. L'Italia, visto il suo coinvolgimento nelle vicende libiche ha dichiarato in più occasioni che questo accordo è un groppo passo avanti per la stabilizzazione del paese e perché no per una futura operazione di stampo militare.
Appare lampante che la faccenda sia decisamente più complessa di quanto sembri.
L'allarmismo sconcertante e a dir poco fuori luogo e di questi periodo lascia basiti.
Non riuscire a guardare al dì la del proprio naso e delle proprie convinzioni rischia solo di alimentare un terrore controproducente.
I titoloni che inneggiato ad una guerra ancora da iniziare e che sembra già consumata, le analisi scritte spizzicando paure viscerali sono la più grande forma di terrorismo, un terrorismo decisamente evitabile.
Una sana cultura e un dialogo veritiero sulle condizioni della nostra travagliata politica estera e di quella internazionale sarebbe auspicabile per il futuro anche se alla fine il dubbio sorge spontaneo.
Sotto l'ombrellone poi di cosa di parla?
Denise Serangelo