Alcune riflessioni sul recente bombardamento dell’ospedale di Kunduz alla luce della normativa internazionale

(di Andrea Cucco)
12/10/15

Il 3 ottobre un raid aereo statunitense, svolto in appoggio alle truppe afghane, ha causato la distruzione dell'ospedale della città afghana di Kunduz e la morte, secondo le attuali stime, di oltre venti persone, tra personale sanitario e civili (tra cui anche dei bambini).

Diverse sono le ricostruzioni del fatto, sia da parte statunitense, sia da parte afghana, sia, ancora, da parte dell’organizzazione “Medici senza frontiere”, che gestisce, o meglio gestiva, l’ospedale in questione. E tutte contrastanti tra di loro, naturalmente.

A tal proposito, abbiamo intervistato il nostro Marco Valerio Verni, avvocato esperto in diritto penale, diritto penale militare e consigliere qualificato per le forze armate nell'applicazione del diritto internazionale umanitario nei conflitti armati.

Avvocato Verni, nel caso in questione, tutti gli attori coinvolti tendono a fornire delle versioni contrastanti dell’accaduto. Gli afghani, in particolare, affermano che vi fossero dei terroristi nascosti nell’ospedale, che tra l’altro sparavano contro le loro truppe. Medici senza frontiere, invece, afferma che nulla di tutto ciò è vero e che anzi, i bombardamenti sono proseguiti anche dopo che il comando americano era stato avvertito di cosa stessero colpendo gli aerei statunitensi. In termini di responsabilità, la verità di una o dell’altra versione potrebbe essere dirimente, fermo restando il cordoglio per la morte delle vittime civili?

In linea di massima, direi di sì: non conoscendo ancora la dinamica dei fatti, nel caso specifico, possiamo provare a ragionare astrattamente, e richiamarci alle norme che regolano i conflitti armati (in particolare, le Convenzioni di Ginevra ed i suoi protocolli aggiuntivi che, unitamente ad altri Trattati, costituiscono il diritto internazionale umanitario).

In tale contesto, l'art. 18 della Convenzione di Ginevra per la protezione delle persone civili in tempo di guerra, afferma chiaramente che "Gli ospedali civili organizzati per prestare cure ai feriti, ai malati, agli infermi e alle puerpere non potranno, in nessuna circostanza, essere fatti segno ad attacchi; essi saranno, in qualsiasi tempo, rispettati e protetti dalle Parti belligeranti".

Quindi, in via generale, è vietato il bombardamento di un ospedale, e nel caso in esame, se questo fosse il quadro, probabilmente, potrebbe essersi trattato di un errore, potendo escludersi, certamente, che gli statunitensi abbiano volutamente ucciso dei civili.

Però vi è anche da dire che il successivo art.19 della suddetta Convenzione afferma che la protezione dovuta agli ospedali civili "potrà cessare soltanto qualora ne fosse fatto uso per commettere, all'infuori dei doveri umanitari, atti dannosi al nemico".

Non è raro, infatti che un bene civile, quali una scuola o un ospedale, per l'appunto, vengano - di fatto - usati per il ricovero di armi, per nascondere truppe, o usati come vero e proprio "punto di fuoco". Così facendo, essi finiscono con il poter essere considerati obiettivi militari a tutti gli effetti e, conseguentemente, bombardati. In tale ottica, potremmo quindi disegnare un secondo scenario, nel quale accompagnare l’ipotesi che, all’interno dell’ospedale, vi fossero terroristi, o armi, o, comunque, combattenti, in grado di offendere l’esercito afghano che, in quel momento, stava eseguendo una controffensiva, secondo alcune versioni.

In questo caso, certamente, potrebbe trovare giustificazione il bombardamento dell’ospedale da parte degli Usa, sempreché, però, siano stati considerati altri due requisiti: la necessità militare e la proporzionalità.

A tal proposito, l’art. 52 del I Protocollo Addizionale del 1977 stabilisce la liceità degli attacchi solo se diretti contro “beni che per loro natura, ubicazione, destinazione o impiego contribuiscono effettivamente all’azione militare, e la cui distruzione totale o parziale, conquista o neutralizzazione offre, nel caso concreto, un vantaggio militare preciso“.

Stando a questa norma, due sono quindi i requisiti affinchè un obiettivo possa essere definito militare: il primo è che il bene deve contribuire effettivamente all’azione bellica del nemico a) per natura (aereo militare, nave militare, mezzi corazzati, armi, munizioni, ecc), b) per ubicazione (area militarmente importante, ad esempio: ponte che serve al passaggio delle truppe nemiche), c) per destinazione (uso futuro del bene, ad esempio: bus civile destinato a trasportare armi), d) per impiego (uso attuale del bene, ad esempio: scuola all’interno della quale si è insediato un comando militare).

Il secondo requisito è che la conquista, distruzione o neutralizzazione deve offrire un vantaggio militare preciso, ossia concreto e diretto, escludendo - per la dottrina maggioritaria - vantaggi difficilmente percepibili e quelli che si possono materializzare nel lungo periodo.

E’ stata forse fatta questa analisi, dal comando militare statunitense, nel caso vi fossero stati, effettivamente, dei terroristi nell’ospedale bombardato? Ed il bombardamento era l’unico modo per neutralizzarli? E’ stato fatto un bilanciamento tra l’eventuale vantaggio militare così acquisito e le perdite civili che, inevitabilmente, si sarebbero avute? Che attività di intelligence è stata svolta?

Tra l’altro, la norma di cui all’art. 19 citato, va oltre, affermando, ad esempio, che persino il fatto che in un ospedale siano curati dei militari feriti o malati o che vi si trovino armi portatili e munizioni ritirate a questi stessi militari e non ancora consegnate al servizio competente, non può considerarsi "fatto dannoso".

E specifica, altresi, che, anche in quest'ultimo caso (fatto dannoso), si potrà avere la cessazione della protezione soltanto dopo che "un'intimazione con la quale è fissato, in tutti i casi opportuni, un termine ragionevole, sia rimasta senza effetto" .

Di contro, ancora, occorrerà indagare a fondo se, anche da parte della struttura ospedaliera siano state rispettate le cautele del caso: sempre il citato art. 18 prevede che "Gli Stati partecipanti ad un conflitto dovranno rilasciare a tutti gli ospedali civili un documento che attesti il loro carattere di ospedale civile e precisi che gli edifici da essi occupati non sono utilizzati a scopi che, nel senso dell'articolo 19, potessero privarli della protezione.

Gli ospedali civili saranno contrassegnati, semprechè vi siano autorizzati dallo Stato, mediante l'emblema previsto dall'articolo 38 della Convenzione di Ginevra del 12 agosto 19491 per migliorare la sorte dei feriti e dei malati delle forze armate in campagna.

Le Parti belligeranti, in quanto le esigenze militari lo consentano, prenderanno le misure atte a rendere nettamente visibili alle forze nemiche, terrestri, aeree e marittime, gli emblemi distintivi che segnalano gli ospedali civili, allo scopo di scongiurare la possibilità di qualunque azione aggressiva.

In considerazione dei pericoli che la prossimità di obiettivi militari può costituire per gli ospedali, si dovrà vigilare affinchè tali obiettivi ne siano possibilmente lontani".

Tutto molto chiaro: occorrerà, dunque, accertare bene la dinamica dei fatti, se mai sarà possibile, per attribuire a chi di dovere, le conseguenze del caso.

Certamente: partiamo dall’assunto che delle violazioni del DIU, ove commesse (come accade in prevalenza) da organi statali, rispondono sia gli Stati (per i quali deriva non già un obbligo di riparazione, bensì l’eventuale corresponsione di un’indennità), sia agli autori individuali. Sotto il primo profilo, diverse norme- la Convenzione dell’Aja del 1907 (art. 3), le Convenzioni di Ginevra (Conv. I, art. 51; Conv. II, art. 52; Conv. III, art. 131; Conv. 4, art 148) ed il I Protoccolo Aggiuntivo del 1977 (art. 91)- stabiliscono la responsabilità internazionale degli Stati per tutti gli atti commessi da persone appartenenti alle rispettive forze armate. Sotto quest’ultimo profilo, la normativa di Ginevra ha inteso rafforzare e estendere il campo di applicazione di questo principio, stabilendo l’obbligo di tutti gli Stati parti di ricercare, perseguire o estradare le persone accusate di avere commesso, o dato ordine di commettere le violazioni denominate “infrazioni gravi”, che sono nominativamente elencate dalle Convenzioni e dal I Protoccolo Aggiuntivo del 1977 (Conv. I, artt. 49-50; Conv. II, art. 50-51; Conv. III, artt. 129-130; Conv. IV, artt. 146-147; Prot. I 1977, art. 85, co. 1-2) secondo il criterio della giurisdizione penale universale.

Il presidente Obama ha annunciato una commissione d’inchiesta, al riguardo, per accertare, appunto, la dinamica e le eventuali responsabilità.

Credo che una commissione d’inchiesta che possa essere davvero imparziale non debba essere gestita da una delle parti coinvolte. Come già accaduto in altri casi, potrebbero essere la Croce Rossa, ad esempio, o le Nazioni Unite, a compiere i dovuti accertamenti, per evitare gli ovvi sospetti di indagini pilotate. In tal senso, si è espressa anche la presidente del “MSF’s operational directorate” di Bruxelles, Meinie Nicolai, secondo cui, essendovi il sospetto che possa essere stato commesso un crimine di guerra, ha chiesto che le suddette (indagini) vengano svolte dall’International Humanitarian Fact-Finding Commission, nata nel 1991 proprio nell’alveo del I Protocollo Aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1977, e mai utilizzata fino a oggi. D’altronde, sull’importanza, in questi casi, di una inchiesta imparziale, ne dovremmo sapere qualcosa anche noi con la vicenda dei marò. Ma questa è altra storia.

(foto: MSF)