Nei giorni scorsi si è consumato, in Siria, l’ennesimo atroce episodio di una guerra che, iniziata nel novembre 2011, ha causato un enorme numero di morti, soprattutto tra la popolazione civile, e che ha suscitato lo sdegno della comunità internazionale per le conseguenze che, nel caso di specie, si sono verificate: il riferimento è al raid aereo che l’aviazione siriana avrebbe condotto contro i ribelli sulla città di Khan Sheikhun, nella provincia nord-occidentale di Idlib, nel quale si sarebbe fatto ricorso all’uso di armi chimiche, causando la morte di più di ottanta persone ed il ferimento, anche grave, di numerose altre vittime, tra cui molti bambini.
Il condizionale è d’obbligo, al momento, viste le contrastanti versioni che si sono susseguite, soprattutto sulla dinamica degli eventi (uso deliberato di armi chimiche da parte dell’aviazione siriana, da una parte, effetto collaterale del raid, che avrebbe distrutto un magazzino destinato proprio alle armi chimiche, dall’altra): nonostante questa incertezza, proprio mentre era in corso di stesura il presente contributo, gli Usa hanno comunque deciso, unilateralmente, di attaccare la base militare siriana di Shayrat, nella provincia di Homs, da dove sarebbero partiti i raid incriminati, lanciando nella notte un attacco, con cinquantanove missili Tomahawk partiti da alcune loro navi presenti nel Mediterraneo.
Sul punto, occorre dire che neanche le dichiarazioni effettuate dai vari Capi di Stato e di Governo all’indomani della strage in questione, che avevano portato alla convocazione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, così come di quelle immediatamente successive al rigetto della proposta di risoluzione (vedasi, ad esempio, quanto dichiarato dall’ambasciatrice americana Nikki Haley proprio durante l’ultimo Consiglio di Sicurezza appositamente convocato d’urgenza, secondo cui “Quando l’Onu non riesce a portare avanti il suo dovere di agire collettivamente, ci sono momenti in cui gli Stati sono costretti ad agire per conto proprio”, o, ancora, le affermazioni di quello francese, François Delattre, secondo il quale ”Stiamo parlando di crimini di guerra con armi chimiche: siamo chiari, l’attacco nella provincia di Idlib è avvenuto in una zona dove operano l’esercito e l’aviazione siriana; anche chi sostiene il regime di Assad non può prevenire questi barbari attacchi”, aggiungendo che “La mancanza di azione non è un’opzione, la nostra credibilità come stati membri è in gioco”, e che “è giunto il momento di agire collettivamente nel Consiglio di Sicurezza”), avanzata dagli Stati Uniti, dalla Francia e dalla Gran Bretagna, con la quale si sarebbe provveduto ad istituire una commissione "ad hoc" per indagare sull’accaduto (attraverso una richiesta di informazioni precise sulle operazioni del giorno incriminato, i piani di volo dell’aeronautica siriana, compresi i nomi dei piloti militari coinvolti nelle operazioni, l’accesso alle basi aeree da cui esse sarebbero partite ed una serie di incontri con i generali siriani e la leadership di Damasco, prevedendo altresì la possibilità di alcune alcune sanzioni contro Assad che, dall’inizio del conflitto in Siria nel 2011, è stato più volte accusato per l’uso di armi chimiche, nonostante la Convenzione di Parigi del 1993 - entrata in vigore nel 1997 - ne impedisca il deposito, la fabbricazione e l’uso stabilendo iter di controlli preventivi.
Ma l’attacco statunitense della scorsa notte è ormai un dato di fatto e, a dire il vero, ha già provocato due conseguenze dagli esiti incerti: a) la sospensione, da parte del governo di Putin, del memorandum di cooperazione che, in vigore proprio con gli USA, per scongiurare il rischio di incidenti in Siria, permetterà ora a Mosca di reagire contro le diverse minacce provenienti dalle forze americane (come ad esempio proprio un eventuale altro bombardamento missilistico); b) l’invio, da parte di Putin, della fregata russa Ammiraglio Grigorovich RFS-494, armata di missili da crociera Kalibr, nel Mediterraneo orientale (dove si trovano anche le due navi statunitensi dalle quali sarebbe partito l’attacco in questione), alla volta del porto siriano di Tartus, dove risiede una base militare del Cremlino.
Oltre alla sempre più marcata ed ormai innegabile internazionalizzazione del conflitto, sotto il profilo strettamente giuridico, sebbene non siano mai state un mistero, già negli anni trascorsi, le alleanze più o meno dichiarate con una parte o l'altra di altri attori internazionali (Iran ed Arabia Saudita tra tutti, oltre ai già citati Russia e Stati Uniti).
Al netto di queste considerazioni, sono due gli aspetti di cui, ora, o un domani, si dovrà necessariamente tenere conto e che qui si vogliono accennare: in ordine di tempo, quanto accaduto in Siria riguardo le armi chimiche e, dipoi, la reazione americana.
Con alcune doverose premesse:
1) una analisi tecnica (giuridica, militare, politica o di altra natura), a volte rischia di risultare fredda, apparentemente lontana dalla tragicità di determinati fatti, come quelli in argomento: ma questo non vuol dire che non si debbano condannare, comunque stiano le cose, abominevoli atti che vadano a ledere la persona umana, soprattutto quando essa sia incarnata nell'immagine di bambini straziati e di civili inermi;
2) non si dispone, al momento, di una versione dei fatti che sia terza ed imparziale, e pertanto quel che si cercherà di fare è tentare di offrire degli ulteriori spunti di riflessione che, partendo dalle dichiarazioni ufficiali degli attori coinvolti, possono tornare utili ad una discussione - ci si augura - più consapevole, almeno sotto il profilo delle due categorie generali riguardanti i conflitti armati, ossia quella dello "ius in bello" (da intendersi come rispetto delle norme di diritto durante, appunto, un conflitto) e dello "ius ad bellum" (afferente alla legittimità o meno dell'uso della forza da parte di uno o più Stati nel contesto internazionale).
Procediamo con ordine.
Il bombardamento siriano: lo "ius in bello" è stato rispettato?
Su quest’ultimo attacco, il governo siriano ha addotto la giustificazione che sia stato colpito dalla propria aviazione un deposito di armi chimiche in mano ai ribelli, trovando appoggio, in questa sua versione, nella Russia che, tramite la portavoce del proprio ministero degli Esteri, Maria Zakharova, ha affermato che “Gli Usa hanno presentato una risoluzione basata su rapporti falsi; la bozza di risoluzione complica i tentativi di una soluzione politica alla crisi, è anti-siriana e può portare a una escalation in Siria e nell’intera regione”. Lo stesso ministero della Difesa di Mosca ha spiegato, anch’esso tramite il suo portavoce, Igor Konoshenkov, che la contaminazione con sostanze chimiche sia stata sì la conseguenza di un raid aereo delle forze governative, ma condotto su un deposito di armi chimiche controllato dai ribelli (si vedano le sue dichiarazioni lanciate su YouTube: "Ieri, dalle 11.30 alle 12.30 ora locale, l’aviazione siriana ha condotto un attacco su un grande deposito di munizioni dei terroristi e una concentrazione di materiale militare alla periferia orientale di Khan Sheikhoun. Sul territorio del deposito c’erano officine che producevano munizioni per armi chimiche").
Orbene, tale versione, quand’anche fosse vera, non basterebbe a giustificare in automatico l’operato del governo siriano, dal momento che, nel caso di specie, andrebbero analizzati alcuni aspetti alla luce dei criteri stabiliti dal diritto internazionale umanitario, della cui applicazione, nel conflitto di specie, orami ben difficilmente si potrebbe dubitare: quest’ultimo, infatti, nella condotta delle operazioni belliche, stabilisce non solo che la popolazione civile debba essere tenuta indenne da un qualsivoglia attacco, ma anche che una ipotetica azione, per la quale si presuma sussistente la necessità militare e, di conseguenza, una possibile deroga alle leggi, debba comunque essere condotta in maniera proporzionale e che gli eventuali effetti collaterali (tra cui, come nel caso in questione, l’uccisione accidentale di civili) debbano essere giustificati dal vantaggio tattico ottenuto, che deve essere preciso, concreto e, soprattutto, attuale, a nulla rilevando eventuali implicazioni politiche future.
Nel caso di specie, eliminata subito l’ipotesi di un bombardamento accidentale del deposito di armi da parte del governo di Damasco, ed andando a ragionare su quella, più probabile (almeno si spera, per certi versi), di un attacco mirato, bisognerebbe capire se il vantaggio militare così ottenuto dalla distruzione del magazzino e del suo contenuto potesse in qualche modo giustificare gli effetti collaterali che si sarebbero potuti verificare (ammesso che essi siano stati previsti) come, di fatto, si sono verificati (ossia la morte di più ottanta persone ed il ferimento - anche grave - di tantissime altre persone).
Alla luce di quanto detto, sono tanti gli interrogativi che potrebbero nascere e rispondendo ai quali si potrebbe cercar di capire se, giuridicamente parlando, l’azione delle forze siriane sia stata tutto sommato legittima, fermo restando che sempre di una guerra si discute e che, purtroppo, dei civili (tra cui molti bambini) sono morti o rimasti gravemente feriti: tale attacco è stato preceduto da un lavoro di intelligence? Le armi ivi depositate erano di natura e di quantità tali da accettare, come contropartita della loro distruzione, eventuali perdite umane tra la popolazione civile? Era davvero necessario bombardare quel magazzino? Si è ottenuto, in maniera proporzionale all’azione svolta, un vantaggio militare concreto ed attuale?
L’attacco americano: è stato rispettato lo “ius ad bellum”?
Per quanto riguarda l’attacco missilistico americano contro la base siriana da cui sarebbe partito il raid aereo incriminato, invece, sorge il dubbio sulla sua liceità giuridica, stante il fatto che esso sia avvenuto in mancanza di uno dei requisiti previsti dalla Carta delle Nazioni Unite (ossia: difesa della pace e della sicurezza internazionale - nel qual caso, però, occorrerebbe - o, nel caso di specie, sarebbe occorso - il mandato del Consiglio di Sicurezza e legittima difesa, propria o di uno Stato parte delle stesse Nazioni Unite).
Le motivazioni addotte dal Presidente americano, Donald Trump, in realtà, secondo cui l'attacco sarebbe avvenuto per difendere la comunità internazionale - ed in primis gli Stati Uniti - dalla minaccia siriana dell'uso delle armi chimiche, si inseriscono nel solco della dottrina già attuata dal governo Usa nella war on terrorism
Se poteva (e può) risultare una forzatura quella (ma che potrebbe trovare la sua ragion d’essere - e quindi una sorte di giustificazione - nella oggettiva asimmetricità dello scontro in essere con i terroristi), lo può essere ancora di più estendere tale concetto all’intervento in Siria, sia perché, allo stato dei fatti, non vi è alcuna prova dell’uso di armi chimiche da parte di Assad (se vi fossero, allora potrebbero essere mostrate all’opinione mondiale: altrimenti, accettare un attacco verso uno Stato che, lo si voglia o no, è sovrano, vorrebbe dire ammettere l’aggressione arbitraria verso chiunque, ed accettare, in questo modo, la visione di alcuni, secondo cui il diritto internazionale è, alla fine dei conti, il diritto dei più forti e nulla più), sia perché, così facendo, si rischierebbe di indebolire il governo di quel Paese proprio nella sua lotta contro i gruppi terroristici.
Per un verso, se non è un mistero che il numero uno della Casa Bianca non abbia mai avuto in simpatia le stesse Nazioni Unite, che, come si ricorderà, furono dallo stesso definite, all'indomani del suo insediamento alla Presidenza americana, "solo un club per gente che si ritrova, chiacchiera e si diverte", per altro non possono neanche sottacersi gli interessi economici sottostanti alla crisi siriana che contribuiscono - e non poco - a gettare tante ombre anche (e non solo) sui fatti in commento. Di interesse, in tal senso, potrebbero risultare le dichiarazioni di Robert Kennedy junior, dallo stesso rilasciate alla rivista “Politico” nel febbraio 2016, secondo cui "La decisione americana di organizzare una campagna contro Assad non è iniziata a seguito delle proteste pacifiche della primavera araba del 2011, ma nel 2009, quando il Qatar ha offerto di costruire un gasdotto per dieci miliardi di euro che avrebbe dovuto attraversare Arabia Saudita, Giordania, Siria e Turchia".
Di certo, gli accadimenti di questi giorni - ma non solo - dimostrano ancora una volta, da una parte, la necessità di una riforma delle Nazioni Unite, che tenga conto delle mutate esigenze e di una realtà che, dagli anni della sua creazione, è indubbiamente cambiata; dall’altra, la totale assenza dell’Unione Europea, priva di una sua identità, di un suo sistema di difesa comune (tante volte annunciato ma ancora lontano dall’essere istituito e messo a regime) e, soprattutto, di una sua politica estera, lasciata ancora alla dichiarazione dei singoli che, come in questo caso, lasciano intravedere un disarmante appiattimento nei confronti degli Usa, della cui importanza nessuno dubita, ma di cui pure, per tanti aspetti, andrebbero probabilmente rinegoziati i termini dell’alleanza, non in maniera unilaterale (come pur vorrebbe fare lo stesso Trump, desideroso di disimpegnare alcuni finanziamenti americani attualmente impegnati nella Nato e nell’Onu, di applicare dei dazi alle merci di provenienza europea e, in generale, di rivedere gli accordi commerciali con i partner di sempre) ma secondo schemi paritari: fare diversamente, vorrebbe dire rimanere ancora per lungo tempo alla mercè di scelte altrui, finendone con l’essere vittime o, a volte, complici. Speriamo che la Siria non ne sia un triste esempio.
(foto: U.S. Navy)