La normativa previdenziale, e nella specie la porzione di questa che risulta applicabile ai dipendenti pubblici (e segnatamente ai militari), non fa eccezione rispetto al quadro complessivo dell’ordinamento giuridico nazionale: è ridondante, densa di richiami (interni ed esterni) e per questo oscura, e per certo non di immediata comprensione. Simili opacità hanno costituito negli anni terreno fertile per la formulazione di interpretazioni restrittive da parte dell’INPS, evidentemente giustificate da esigenze globali di contenimento della spesa pubblica.
Schiacciato dalla convergenza dei suddetti fattori, il destinatario delle norme di cui si tratta ha un’unica possibilità: diventare consapevole dei propri diritti.
Un contributo a questo risultato potrà venirgli, se lo vorrà, da questo e dai prossimi articoli in materia di diritto militare amministrativo e previdenziale che saranno pubblicati su questa rivista e che daranno conto di tutte le più recenti novità (normative e soprattutto giurisprudenziali) del settore.
Il ricalcolo delle pensioni militari in base all’aliquota maggiorata di cui all’art. 54 del d.p.r. 29 dicembre 1973, n. 1092
Tanto premesso, gli ultimi mesi hanno visto emergere e consolidarsi un orientamento pretorio (ormai fatto proprio da numerose Sezioni Giurisdizionali Regionali della Corte dei Conti), in base al quale si sostiene l’applicabilità di un’aliquota maggiorata in ordine al ricalcolo delle pensioni militari, in presenza di determinati presupposti.
Dopo le pronunce di segno negativo del 2017, in particolare, prima la Corte dei Conti della Sardegna (con la sentenza n. 2/2018) e poi la Corte dei Conti della Puglia (con la recentissima sentenza n. 468/2018), hanno adottato una posizione favorevole in relazione all’applicazione dell’art. 54 del d.p.r. 29 dicembre 1973, n. 1092, con il conseguente riconoscimento dell’aliquota al 44% in ordine al trattamento pensionistico dei militari in regime misto (retributivo e contributivo), arruolati all’inizio degli anni ’80.
Ma procediamo con ordine.
La questione controversa e le due posizioni contrapposte:
L’orientamento contrario all’applicazione dell’aliquota maggiorata
A seguito del subentro dell’INPS all’INPDAP, a far data dal 1° gennaio 2012, l’INPS ha ritenuto (e tuttora ritiene erroneamente) che gli arruolati in un qualsiasi corpo militare che abbiano maturato, al 31 dicembre 1995, non meno di 15 e non più di 20 anni di servizio utile ai fini pensionistici, siano soggetti, in ordine alla quota di pensione regolata dal sistema retributivo, all’aliquota prevista nella misura del 35,9% dall’art. 44 del d.p.r. n. 1092/1973 (peraltro a rigore dettato per gli impiegati civili dello Stato), e non a quella del 44%, prevista dall’art. 54 del medesimo testo normativo. Ciò nel caso in cui gli interessati abbiano maturato, oltre la data anzidetta del 31 dicembre 1995, anni di servizio ulteriori, tali da determinare un ammontare superiore alla soglia di 20 anni complessivi.
La soluzione prospettata dall’INPS si basa su una lettura assai rigorosa del succitato art. 54, il quale testualmente dispone, al primo comma, che “la pensione spettante al militare che abbia maturato almeno quindici anni e non più di venti anni di servizio utile è pari al 44 per cento della base pensionabile, salvo quanto disposto nel penultimo comma del presente articolo”. In forza dell’adozione di un criterio d’interpretazione strettamente letterale, l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale ritiene dunque in estrema sintesi che la norma in questione debba trovare applicazione esclusivamente nei confronti dei militari che non solo abbiano maturato la suddetta anzianità contributiva (come detto, tra 15 e 20 anni di servizio) al 31 dicembre 1995, ma siano poi cessati immediatamente dal servizio, senza sommare annualità ulteriori.
Tale ipotesi esegetica è stata purtroppo avallata da una parte della giurisprudenza.
Si è argomentato nello specifico in tal senso che “la norma, in quanto di favore, non può che formare oggetto di stretta interpretazione, venendo a configurare una deroga sostanziale rispetto al regime pensionistico ordinario; ne consegue che essa non può trovare applicazione al di fuori delle ipotesi specificamente e tassativamente indicate dalla normativa di riferimento atteso il divieto di interpretazione analogica a cui sostanzialmente si perverrebbe in caso contrario, vulnerando i principi costituzionali della ragionevolezza e di parità di trattamento (art. 3 Cost.)”1. In altri termini, poiché la disposizione in esame introduce un regime di vantaggio per i suoi destinatari, il suo ambito di applicazione andrebbe definito e circoscritto in virtù dell’adozione di un criterio interpretativo strettamente letterale, con espressa esclusione di qualsivoglia ricorso sul punto all’analogia.
L’orientamento favorevole maggioritario
Una simile interpretazione risulta tuttavia più che insoddisfacente, nella misura in cui si limita a prendere in considerazione esclusivamente il primo dei commi della norma in esame, senza in alcun modo tener conto del contesto normativo in cui la suddetta disposizione si colloca, e – per paradosso – degli ulteriori commi di cui essa stessa si compone.
Il comma immediatamente successivo contraddice infatti in modo palese tale impostazione, in quanto stabilisce che “la percentuale di cui sopra è aumentata di 1,80 per ogni anno di servizio utile oltre il ventesimo”. Ora, come potrebbe aversi un aumento percentuale addirittura ulteriore rispetto all’aliquota del 44% per gli anni successivi (anche) al ventesimo, maturati oltre il 31 dicembre 1995, se venisse adottato il criterio proposto dall’INPS? Come si concilia, altrimenti detto, l’esclusione dall’area soggettiva di applicazione del suddetto regime per i dipendenti che abbiano maturato, dopo tale scadenza, ulteriori anni di servizio utile ai fini pensionistici, con il secondo comma del medesimo art. 54 del d.p.r. n. 1092/1973, che al contrario prevede appunto un aumento contributivo aggiuntivo “per ogni anno di servizio utile oltre il ventesimo”?
Proprio su questa base, più Sezioni Giurisdizionali Regionali della Corte dei Conti hanno cominciato tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 a superare l’orientamento sostenuto dall’INPS, finendo col pronunciare sentenze favorevoli all’applicazione dell’aliquota maggiorata anche per chi, dopo la fine del 1995, abbia maturato un’ulteriore anzianità contributiva.
E si badi bene che l’argomentazione contraria è smentita nei suoi stessi presupposti: è lo stesso dato letterale al quale la soluzione sostenuta dall’INPS si richiama che la smentisce, se solo si adotta, accanto al criterio esegetico letterale, il canone altrettanto irrinunciabile dell’interpretazione sistematica. Se solo si accosta – come necessario –, così procedendo, al primo comma il comma immediatamente successivo della medesima disposizione.
Si legge così in sede pretoria che “la lettera del primo comma dell’art. 54, su cui sostanzialmente si basa l’interpretazione data dall’INPS, deve invece intendersi nel senso che l’aliquota ivi indicata vada applicata a coloro che possiedano (al 31 dicembre 1995) un’anzianità contributiva compresa tra i 15 e i 20 anni, mentre il successivo comma chiarisce che la disposizione del comma 1 non può intendersi limitata a coloro che cessino con un massimo di venti anni di servizio (come opinato dall’INPS), atteso che esso prevede che spetti al militare l’aliquota dell’1.80% (nel caso dei sottufficiali dei Carabinieri, il 3,60%) per ogni anno di servizio oltre il ventesimo. (…) La disposizione non avrebbe senso qualora si accedesse alla tesi dell’amministrazione”2.
Per di più, l’ipotesi contraria porterebbe ad un esito giuridicamente assurdo, in quanto l’art. 44 del d.p.r. n. 1092/1973 risulta destinato al personale civile, e non potrebbe mai trovare applicazione nei confronti dei militari. A proposito di quel canone letterale di interpretazione che l’INPS ed alcune Sezioni Giurisdizionali Regionali della Corte dei Conti dicono di voler scrupolosamente rispettare, si è osservato che “tale ultima disposizione non può in alcun caso trovare applicazione al personale militare (…) trattandosi di disposizione espressamente ricompresa nel Titolo III, rubricato "Trattamento di quiescenza normale", Capo I, rubricato "Personale civile", mentre, correttamente, l'invocato art. 54 rientra nel Capo II, rubricato "Personale militare". Ne consegue che in alcun modo a tale disposizione può farsi riferimento ai fini del calcolo delle pensioni militari”3.
Una conferma ulteriore – semmai ve ne fosse stato bisogno, una volta letti in combinato disposto i primi due commi dell’art. 54 – della fondatezza della tesi che sostiene l’applicabilità dell’aliquota maggiorata in relazione ai casi in oggetto.
Chi può fare ricorso: i requisiti
Può proporre ricorso per il ricalcolo della pensione ogni militare e addetto alle forze di polizia ad ordinamento militare (esercito, carabinieri, ex guardia forestale, aeronautica, guardia di finanza, corpo delle capitanerie di porto - guardia costiera), la cui pensione sia stata liquidata con il sistema misto (retributivo e contributivo) dall’INPS (gestione ex INPDAP), in modo conforme a quanto disposto dalla legge n. 335/1995, e che possa vantare al 31 dicembre 1995 un’anzianità di servizio utile ai fini pensionistici compresa tra i 15 e i 20 anni.
Cosa fare per ottenere il ricalcolo e cosa si può ottenere in caso di accoglimento
Per ottenere il ricalcolo della propria pensione in forza dell’applicazione dell’aliquota maggiorata al 44% è necessario dapprima introdurre un’istanza stragiudiziale di riesame all’ufficio INPS del luogo di residenza dell’interessato. Quindi (in caso di rigetto o di mancata risposta, dopo che siano inutilmente decorsi 120 giorni dalla data di ricevimento della domanda), si tratterà di proporre ricorso (entro i successivi 3 anni, a pena di decadenza) alla Corte dei Conti territorialmente competente.
In caso di accoglimento del ricorso, il militare otterrà la riliquidazione della sua pensione in base all’aliquota più favorevole prevista dall’art. 54 del d.p.r. n. 1092/1973, con un aumento in busta di regola compreso tra 150,00 e 300,00 euro su base mensile. Per di più, tale aumento sarà dovuto con applicazione retroattiva ai 5 anni che precedono la presentazione dell’istanza, dovendo in tal caso l’INPS corrispondere anche i relativi arretrati (fermo restando ovviamente che ciò dovrà costituire l’oggetto di un’apposita domanda giudiziale in sede di formulazione dell’atto di ricorso).
Non rileva, infine, in ordine all’introduzione del giudizio, la circostanza che l’interessato abbia ormai da anni avuto accesso al trattamento pensionistico: il termine decadenziale di 3 anni dalla liquidazione del trattamento pensionistico, entro cui soltanto è possibile domandare il ricalcolo della propria pensione, è infatti stabilito dal d.p.r. n. 639/1970 con riferimento ai soli dipendenti del comparto privato, e non è ripreso da alcuna disposizione del d.p.r. n. 1092/1973 in relazione ai pubblici dipendenti4. Con riguardo a questi ultimi, una decadenza triennale viceversa maturerà – come detto – soltanto a partire dalla data in cui si sarà fatta pervenire all’INPS l’istanza stragiudiziale di ricalcolo, nei termini di cui sopra.
Il decorso del tempo, allora, non inciderà sul diritto alla riliquidazione della pensione in base alla suddetta aliquota maggiorata, che potrà sempre richiedersi, ma avrà rilievo soltanto ai fini della prescrizione del diritto ai ratei arretrati, che potranno recuperarsi non oltre il quinto anno (compreso) precedente l’avvio dell’iniziativa giudiziale.
Avv. Francesco Fameli
esperto di diritto amministrativo militare
1In questi termini Corte dei Conti Emilia Romagna, Sez. Giurisd., 25 gennaio 2018, n. 29. Nello stesso senso, Corte dei Conti Veneto, Sez. Giurisd., 30 marzo 2018, n. 46, nonché Corte dei Conti Sardegna, Sez. Giurisd., 20 giugno 2017, n. 87.
2Si è espressa in tal modo Corte dei Conti Sardegna, Sez. Giurisd., 4 aprile 2018, n. 68. Nello stesso senso, del medesimo organo giudicante, Corte dei Conti Sardegna, Sez. Giurisd., 4 gennaio 2018, n. 2 e 27 febbraio 2018, nn. 42 e 43). Si veda anche, ex multis, Corte dei Conti Puglia, Sez. Giurisd., n. 446/2018.
3Si veda in tal senso Corte dei Conti Calabria, Sez. Giurisd., 19 aprile 2018, n. 46. In modo in tutto e per tutto analogo, dello stesso organo giudicante, Corte dei Conti Calabria, Sez. Giurisd., nn. 12, 13 e 44/2018.
4Tale indirizzo interpretativo è stato anche di recente ribadito dai Tribunali del Lavoro di Firenze e di Milano, nonché dalle Sezioni Giurisdizionali della Corte dei Conti del Lazio e del Trentino Alto Adige (in riferimento a quest’ultima, ad esempio, può citarsi la sentenza 31 ottobre 2017, n. 44).