Cominciamo dalla cronaca: il 23 ed il 24 novembre la Camera dei Deputati ha ospitato un seminario del Gruppo Speciale per il Mediterraneo ed il Medio Oriente, in cooperazione con la Delegazione Italiana presso l’Assemblea Parlamentare della NATO. I temi in oggetto, molti e di notevole spessore, sarebbero sicuramente stati meritevoli di disamine più approfondite da un punto di vista eminentemente tecnico e “dottrinale”. La visione più realista della scienza politica applicata alle relazioni internazionali ha evidenziato connotazioni peculiari di un consesso più versato per disquisizioni di carattere sottilmente politico che non per analisi geopolitiche e strategiche. Operiamo dunque, quale esercizio pratico, i necessari distinguo tenendo ben presenti le necessarie (ed apparentemente molto deboli in sede assembleare) basi teoretiche delle relazioni internazionali e della scienza politica.
Parafrasando Clemenceau, per il quale la guerra è una cosa troppo seria per affidarla a dei militari, le relazioni esposte durante i lavori hanno ridimensionato il comune pensiero politico attuale conferendo, gioco forza, il giusto maggior spessore a “tecnici” tuttavia colpevolmente confinati in un ambito puramente accademico e ristretto; dando il giusto credito all’assunto del professor Sartori, per cui “la scienza politica deve essere rilevante, non è lo studio delle farfalle”, di lepidotteri se ne sono visti in abbondanza, eccezion fatta per i professori Lombardi e Strazzari, che hanno confermato l’invidiabile pregio di saper analizzare con compiutezza - in un lasso di tempo concesso troppo breve - tematiche fondamentali e quanto mai vitali per l’Occidente per come è stato finora inteso.
La vision politica internazionale delineata non ha approfondito oggettivamente le problematiche né ha suggerito soluzioni praticabili, e quella nazionale si è mantenuta su di un piano ideologico corrente non propriamente attagliato alle contingenze. L’assenza di personalità chiave di governo (Difesa, Giustizia e soprattutto Esteri) ha confermato una carenza di intenti propositivi e fattivi da rappresentare in sede internazionale, ad eccezione di quanto chiaramente esposto dal Ministro dell’Interno che, in modo politically uncorrect rispetto alla tendenza, non ha temuto di delineare un quadro preoccupante, ma purtroppo veritiero, della situazione Mediterranea contingente. Che lo si desideri o meno, l’essenza geostrategica del Mediterraneo ha subito un profondo mutamento che, data la nostra posizione, non può non coinvolgerci; già dal 1991 il Conflitto del Golfo, unitamente alle profonde transizioni politico sociali avvenute nell’area, ha evidenziato l’importanza del Mare Nostrum per la proiezione delle forze in M.O. e nel Golfo Persico sia operativamente che da un punto di vista logistico; l’acutizzarsi delle criticità degli aspetti connessi al mantenimento della sicurezza, alle difficoltà insorte per lo sfruttamento delle risorse energetiche, all’evidente squilibrio demografico con conseguenti ed incontrollabili ondate migratorie, indussero già a suo tempo la NATO a riconsiderare il teatro Mediterraneo come sì unico ma caratterizzato da numerose e complesse peculiarità.
Un primo warning era già giunto con la deflagrazione delle ostilità nell’ex Yugoslavia, che avevano evidenziato la portata etnica e delle connessioni pan islamiche tra atti terroristici ed organizzazioni operanti in un ambito ormai privo di controllo statuale, con la contestuale riduzione della distanza tra le politiche di sicurezza europee e quelle mediorientali. Il primo “inciampo” concettuale è stato dato da un malinteso multilateralismo, peraltro richiamato sia da personalità politiche italiane sia ultimamente da Kehoane, evidentemente poco inclini a seguire realisticamente le dinamiche internazionali. La linea d’azione wilsoniana, fondata su un principio di cooperazione multilaterale che rigettava particolarismi e bilateralismi contrapposti, ha sì trovato parziale successo solo nel secondo dopoguerra, ma una vita particolarmente travagliata con la fine della Guerra Fredda. La realpolitik ha sistematicamente posto in crisi dei principi difficilmente difendibili se non in un’ottica idealistica: la non discriminazione tra membri del sistema, l’indivisibilità dei contenuti degli agreements, e soprattutto la reciprocità di diritti ed obblighi, secondo una logica qualitativa e non meramente quantitativa attinente il numero dei soggetti politici coinvolti. La richiamata qualità del concetto avrebbe dovuto condurre i Paesi Atlantici a considerare la NATO non solo dal punto di vista operativo e militare, ma anche e soprattutto dalla prospettiva di una collaborazione politica di ampio respiro che, portando ad una intesa costruttiva, non prescindesse dal mantenimento da parte dell’Occidente di un irrinunciabile retaggio storico e culturale, emendato delle negatività che hanno contraddistinto il trascorso operato del Vecchio Continente. La globalizzazione è stata intesa in senso finanziario, di apertura liberista di nuovi mercati, e non ha tenuto conto di una pervasività interpretata come una nuova forma di colonialismo leopoldino, supportata da azioni che, nel tempo, hanno evidenziato caratteri unilaterali e sovranisti, ispiratori di interventi incoordinati ed altamente destabilizzanti.
Il pensiero del professor Sartori – absit iniuria verbis - è stato ed è tutt’ora chiaro, se rapportato alle attuali contingenze: l’integrazione pacifica di una comunità come quella musulmana, monoteista e teocratica che non distingue il potere temporale da quello religioso, è un’illusione; la società occidentale, fondata sulla democrazia e sulla sovranità popolare, è incompatibile con l’Islam, che si fonda sulla sovranità di Allah.
Come appellarsi ancora, dunque, ad un frustrato multilateralismo interpretato dai competitors mediorientali in guisa di costante rinuncia? L’uguaglianza occidentale è ciò che connota la democrazia attuale, tanto da aver permesso di realizzare il progressivo ampliamento della base politico – economica della nostra società, una democrazia politica di massa con un’economia di mercato fondata sui consumi di massa; nell’esperienza occidentale democrazia e mercato si sono vicendevolmente sostenuti in funzione del fatto che, bene o male, l’uno allevia e corregge le imperfezioni dell’altra.
Ad oggi l’Occidente – segnatamente l’Europa – è in crisi, afflitto dalla carenza di una linea politica realmente collegiale ed in grado di indirizzare azioni congiunte, caratterizzato da unilateralità nazionali che non possono giovare a cause comuni. Daesh è stato sconfitto militarmente, ma credere che la minaccia asimmetrica non sia più incombente sarebbe un errore. La hybrid war più volte richiamata non è cessata, e probabilmente il primo atto preventivo dovrebbe consistere nel controllare sia il fortissimo impatto della comunicazione mediatica jihadista, sia il rientro in Europa di un numero significativo di foreign fighters esfiltrati dai teatri mediorientali. La radicalizzazione del conflitto, iniziata con l’assassinio di Ahmad Shah Massud, il Leone del Panshir, nel settembre del 2001, procede sia lungo reti reali sia soprattutto via web, non si arresta e continua a manifestare tutta la sua virulenza; al netto della sovrastruttura ideologica e religiosa essa trova terreno fertile in zone dove la “manovalanza” del terrore può essere reclutata senza particolari difficoltà, in forza della povertà e delle condizioni critiche in cui versano le masse: l’ammonimento del Ministro Minniti circa il concreto rischio per cui tra i “migranti” possano celarsi dei fighters islamici è dunque più che reale.
Il Califfato, in sintesi, non può ancora dirsi finito, specie se si tiene conto del fatto che le due realtà del terrore, ISIL ed Al Qaeda, generate da un’unica costola, procedono secondo strategie e modus operandi differenti. Laddove la creazione di uno Stato Islamico ha istituzionalizzato il Califfato quale Paradiso in Terra, al Qaeda ha continuato ad operare con progetti a più lungo termine, senza avere il bisogno di statualizzare la propria azione. In questo contesto va dunque considerata anche un’iper valutazione dell’aspetto teologico wahabita, che si ispira al mito del periodo aureo del primo Islam, che va in attrito con l’accertata e scarsa preparazione dottrinale di numerose reclute jihadiste catturate. In questo quadro, già di per sé così complesso, si inseriscono le dinamiche che coinvolgono le monarchie del Golfo, l’Arabia Saudita sunnita, che sta vivendo un momento politico di rara delicatezza, l’Iran sciita, animato da una mai doma volontà di potenza regionale, e lo Stato di Israele; sullo sfondo, il nuovo corso politico statunitense, alle prese con una difficile revisione dell’opera diplomatica posta in essere dalla precedente Amministrazione.
Gli interventi dei delegati dei vari Paesi hanno dunque portato alla luce, con estrema facilità, acrimonie e rancori mai risolti che di multilaterale e cooperativo non assumono nemmeno la lontana sembianza. L’ipotesi di un’azione strategica congiunta tra EU e NATO, laddove gli interessi comuni vengono spesso accantonati, sembra dunque essere attualmente molto ardua. Al di là delle (stupende, per carità!) enunciazioni di principio, come quella del prof. Burgat che è finanche riuscito ad arrivare a citazioni poetiche di inclusione a dispetto della realpolitik del suo stesso Paese, la Francia, ferma nel respingimento dei migranti, o come quelle della dott.ssa Molenaar, che ha dottamente illustrato, statistiche e sondaggi alla mano, le dinamiche migratorie, di concreto, di ruvidamente oggettivo e risolutorio si è percepito ben poco. La retorica corrente, incarnata fin dalle relazioni introduttive, cozza contro la realtà di un conflitto verbalmente oscurato ma, di fatto, tangibilmente combattuto. Le risposte (congiunte) da proporre per la risoluzione dell’impasse, probabilmente, passano attraverso diversi percorsi: un approccio economico (tardivo?) che privilegi i lati migliori della globalizzazione, che non mostri il ventre molle ideologico dell’Occidente, che non parta dal presupposto di dover necessariamente offrire un atteggiamento percepito alla stregua di una resa incondizionata e che, soprattutto, tenga in debita considerazione il rinnovamento dei players al tavolo da gioco internazionale.
Impensabile, da un punto di vista realista, non vagliare le dinamiche che, sapientemente condotte, hanno condotto nell’area geostrategica in questione l’Orso russo ed il Dragone Cinese; poco accorto il non predisporre le proprie carte al fine di giungere alla conquista di una posta dal valore, materiale ed in termini di sicurezza, di ammontare significativo; poco lungimirante l’aver destabilizzato un’area in perenne ebollizione con una sorta di democrazia esportata che, al termine di effimere primavere, ha lasciato un vuoto politico che, ad esempio, i soggetti politici Sauditi ed Iraniani stanno cercando di colmare con tutti i rischi che ciò sta già comportando.
Quel che è emerso, con chiarezza realisticamente oggettiva, è stato un buckpassing che di multilaterale, per sua natura, non ha assolutamente nulla. La politica occidentale può essere interpretata con gli scritti di Antonio Gramsci, che operava una distinzione tra buon senso e senso comune, riprendendo per questo il Manzoni per cui “il buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”; il buon senso dovrebbe spingere la comunità politica ad interrogarsi su ciò che realmente accade senza farsi raggirare da sovrastrutture ideologiche ingannevoli, dovrebbe cioè evitare che il senso comune, inteso come archetipo dominante, induca ad un’operosa inerzia, fatta di seminari senza oggettive determinazioni conclusive.
Negare l’oggettività per evitare di dover cambiare gli strumenti di valutazione conduce, come già ora accade, ad una dissonanza fra previsioni e realtà, rendendone impossibile il reale e veritiero apprezzamento. Sempre rimanendo in ambito meramente realista, del resto, riprendendo Churchill, in guerra non devi riuscire simpatico: devi solo avere ragione.
(foto: Presidenza del Consiglio dei Ministri)