Andy Costa: "Un security contractor deve essere affidabile, non un malato di armi"

(di Giusy Federici)
06/12/23

"Questo testo parla di un settore, o mondo come qualcuno lo ha definito, che è in gran parte oscuro e sicuramente conosciuto molto poco (e male), anche da giornalisti che spesso si occupano di tematiche simili. Tutto ciò è dovuto alla mancanza di sviluppo del settore della Security in Italia, che attualmente riconosce poche figure professionali (guardia giurata, analista o security manager) e che difficilmente ne comprende però le peculiarità, capacità, e soprattutto la necessità che si ha di figure preparate e qualificate nei vari ruoli…".

La frase appena letta fa parte della prefazione del libro di Andy Costa, Security Contractors – ciò che nessuno vi ha mai spiegato, autopubblicato e acquistabile su Amazon. Andy è un security contractor di lungo corso, un professionista credibile.

Veronese, 45 anni, dal 2008 cittadino del mondo, avendo viaggiato sempre per 8, 9 mesi l’anno. Un passato nel rgt. Lagunari, ha scoperto il mondo dei security contractor con la morte di Fabrizio Quattrocchi. Ha lavorato in molte parti del mondo dove ci sono conflitti e instabilità, dalla Libia all’Afghanistan all’Iraq, Medio Oriente come Sud Est asiatico, est Europa, Oceano Indiano. Specializzato in close protection, enterprise risk management, loss prevention e intelligence, oggi lavora come "senior risk advisor" per varie security risk management companies europee.

Il libro è molto interessante, ben scritto e anche ironico in certi punti, il che non guasta affatto, soprattutto perché è una cosa che non ci si aspetta da un security contractor, ma solo per una questione di pre-giudizio…

Non ho voluto farlo correggere, mi sono preso la responsabilità in toto e ho voluto che uscisse come libro “per il popolo”, cioè per tutti e non per la “massa colta”.

Credo che - soprattutto per chi fa una professione come la mia - l’ironia sia fondamentale. Spesso ti trovi in luoghi e situazioni in cui se ti fai mancare l’ironia rischi di andare in depressione, senza contare che fa bene averla quando tratti con il cliente, perché comunque al committente a cui piaci per il modo di fare, oltre che all’impostazione del fare sicurezza, gli rassereni le giornate: curi anche la parte psicologica del suo stare in un posto disagiato e lontano dalla famiglia. Il saperci fare con le persone è quasi un servizio aggiunto.

In quei momenti, in quei luoghi, sei tu la famiglia.

Eh sì, poi diciamo che la salvaguardia della persona non è solo legata al discorso fisico ma anche a quello mentale. Un trauma psicologico è comunque un danno subito dal cliente ed è tua responsabilità cercare di evitarlo.

Essere professionali, secondo me, è anche curare molto la parte psicologica, cosa che invece tanti danno per scontato, pensando che la sicurezza sia solamente armi, elmetti, etc.

Specifichi bene che fare sicurezza non è quello, non è necessario provenire dalle forze speciali né, tantomeno, essere il fenomeno della situazione, tutto armi e testosterone, perché fai solo danno. Ci vuole equilibrio, che è altra cosa

Se vogliamo rifarci ad altre situazioni, è anche quello che viene cercato in appartenenti a reparti speciali. Tu alcuni li conosci, anch’io ho amici che sono stati in certi reparti e, nelle selezioni per entrare, non vogliono malati di guerra ma gente equilibrata, perché l’equilibrio è la base su cui formare professionisti. Ovvio, c’è sempre l’eccezione alla regola, ma in genere quelli vengono cacciati.

Aggiungo anche che, nel mio lavoro, c’è bisogno di una grande etica e di sapere cosa sia la riservatezza.

Ma perché hai sentito l’esigenza di scrivere questo libro?

In realtà non era un’esigenza ma un periodo “creativo” della mia professione durante l’era covid. Avevo fatto 6 mesi e mezzo di fila in Libia per una Private Security Company, coprendo 2 posizioni per causa di forza maggiore: quella di operations manager e di project manager, portandomi a lavorare spesso 7 giorni su 7 dalle 6 di mattina alle 2 di notte.

Quando ho iniziato quasi a dimenticarmi come mi chiamassi (ovviamente lo dico in senso ironico), ho capito che era giunto il momento di chiedere una pausa all’azienda. Sei mesi di fila a certi ritmi cominciavano ad essere pesanti.

Una volta rientrato a casa, ho potuto seguire le mie cose, anche perché eravamo chiusi a casa per il covid. Da lì ho aperto un sito internet in cui sia io che altri colleghi abbiamo iniziato a scrivere articoli e, per caso, mi sono messo a lavorare su un libro che, inizialmente, aveva un taglio in stile “manuale”. Poi, grazie anche a degli amici che avevano letto alcune idee già buttate giù, mi è stato consigliato di renderlo più narrativo, in modo da alleggerire la parte tecnica. Cosa che ho fatto, inserendo anche esperienze e considerazioni personali.

È stato un libro scritto lentamente, in due anni. Quest’anno mi sono reso conto che c’era abbastanza materiale e ho deciso di pubblicarlo, su Amazon. Il tutto perché ho sempre avuto, da quando ho iniziato a espormi sui social, molte persone che mi facevano tantissime domande e, oltre a quello, anche dei tuoi colleghi giornalisti, che sono usciti con degli articoli del tipo “il mercenario Andy Costa” per i quali ho dovuto chiamare la redazione e chiedere la rettifica, (online si fa in un attimo) e cambiare la dicitura, così da evitare eventuali querele. Chiamarmi "mercenario" è come dare dell’assassino e io non sono né l’uno né l’altro.

La differenza tra security contractor e mercenario sembra non essere ancora chiara neanche a chi si occupa di questo a vari livelli (anche istituzionali), spesso per ignoranza e a volte in malafede. Allora, specifichiamo: di cosa si occupa un security contractor?

Come hai letto nel libro, parlare solo di contractor, senza indicare l’industria di riferimento, è sbagliato, perché il termine “contractor” indica un contratto a progetto, un co.co.co. Questo è per tutti i lavori, dai camerieri agli idraulici a chi guida una ruspa e così via.

In Italia abbiamo identificato con la parola "contractor" chi va a dare servizi paramilitari a pagamento ma, fondamentalmente, non è così. Quello che facciamo, io ed altri colleghi, è il "security contractor", cioè un professionista che fa sicurezza in uno dei ruoli di questa industria, con un contratto a progetto, a tempo determinato. Questa è la spiegazione tecnica più semplice.

Ovvio che poi, all’interno dell’industria della security, i ruoli siano tantissimi: dal paramedico, persona a supporto medico di chi come me viene dislocato in certe aree, al project manager, chi fa investigazioni, intelligence e così via. Questa professione è molto variegata e va dalla figura più conosciuta che è quella del "close protection officer" sino ai ruoli molto tecnici legati alle consulenze.

Se vogliamo usare l’immagine del cinema, che magari dia un’idea più chiara, pensiamo a Russell Crowe che in "Proof of Life" è inviato in un Paese sudamericano a dare consulenza su situazioni di rapimento e riscatto ad una famiglia il cui padre, manager in una multinazionale, è stato rapito. Ti dico questo per ribadire che in questo mondo c’è veramente di tutto e di più e la varietà dei ruoli in questo settore è enorme.

Purtroppo, quello che viene più identificato e desiderato dalla massa è il ruolo di chi fa "close protection", forse perché è il ruolo più legato al mondo delle armi.

È un po’ come per i leoni di tastiera: frequentando un poligono o facendo un corso di tiro in movimento, pensano di essere Rambo.

Concordo. Tanti considerano questo lavoro solo perché legato al mondo delle armi. L’essere “tosto” per me non va mai valutato da come usi un’arma ma dall’affidabilità che tu dai. La security è affidabilità, è per questo che il cliente si fida di te e non perché tu sia il Rambo della situazione.

Tanti chiedono se si ha paura a lavorare in certi posti: la verità è che non ci pensi, lavori in condizioni così disagiate che il tuo problema, magari, è trovare un bagno o, a volte, una bottiglia d’acqua pulita.

Tante volte le leggi nazionali non prevedono l’uso delle armi, quindi dovete girare disarmati?

Dipende sempre dalla legislazione del posto dove fai servizio. Tanti pensano che sia tutto Iraq o Afghanistan, ma non è così. Io ho lavorato anche in Pakistan e Libia e il personale espatriato non può detenere armi, non essendo previsto dalle leggi locali.

Le armi sono relative: c’è tutto un discorso di cultura della sicurezza, pianificazione delle operazioni, preparazione del personale. Preferisco uno che sappia gestirmi benissimo la parte medica, se devo scegliere, rispetto a uno che si sente Tex Willer. Mi è successo solo due volte di trovarmi in mezzo a un conflitto a fuoco mentre ho avuto molte più volte la necessità di avere supporto medico, dal più leggero al più impegnativo.

Anche quello del "close protection officer", ruolo da cui molti iniziano, richiede delle capacità che vanno oltre il sapere usare le armi: dall’abilità di pianificazione al saper leggere una mappa, al saper fare una ricognizione, dove devi sapere come rilevare e ottenere le informazioni necessarie e come pianificarla, devi saperti muovere in low profile, devi saper fare foto utili per i report, devi rapportarti con personale locale per avere informazioni valide, devi sapere come improntare il report della ricognizione, utilizzare mappe online, pianificare strade da percorrere (primaria e alternative), identificare i safe-havens, etc. Quindi, non è solo prendere un’arma, salire su un mezzo e seguire qualcuno.

Devi saper utilizzare sistemi di navigazione gps, capire come funzionano i tuoi mezzi blindati, che non sono propriamente semplici e puoi trovarti a doverci mettere le mani. Sono tante le cose che deve sapere chi fa questa professione.

Certo, so sparare molto bene, anche se ci sono altri molto più bravi di me, ma a noi non viene richiesto di essere degli sniper o di fare un cambio caricatore in millisecondi, non viene richiesto di essere dei killer a pagamento con una mira infallibile. Al contrario, a noi viene richiesto di fare il possibile e l’impossibile per evitare uno scontro a fuoco, di saper dialogare con un committente e di saperti presentare perché con certi clienti, soprattutto quelli diplomatici, entri in certi ambienti e non puoi essere il buzzurro di turno. Ed è anche ovvio che più sali di ruolo o tipologia di cliente, più devi specializzarti.

Alla luce della tua esperienza, quanto ancora l’Italia potrà stare senza una soluzione legislativa che riconosca e regoli la figura del "security contractor"? Tante compagnie italiane devono affidarsi ad agenzie straniere e in mezzo c’è anche la sicurezza delle informazioni nazionali.

Sicuramente a noi – e parlo come economia – non fa sicuramente bene perché si tratta di capitali (notevoli) che escono dal nostro Paese ed entrano nelle tasche di altri. Nonostante tutto, molte aziende italiane fanno sempre riferimento ad agenzie britanniche o francesi quando si tratta della protezione dei propri assets in zone a medio o alto rischio.

Sembra assurdo che noi si arrivi sempre millenni dopo ma questo penso che sia dovuto al fatto che l’Italia della security, come in molti altri dipartimenti e industrie, è sempre legata alla burocrazia elefantiaca e a gente che non vede di buon occhio cambiamenti e miglioramenti e preferisce che tutto rimanga uguale.

Anche la Germania, ormai da anni, ha iniziato ad avere team di close protection privati che seguono il personale diplomatico delle sue ambasciate. Diciamo che, probabilmente c’è un difetto a monte nel giudicare queste cose, legato al pregiudizio.

Chiediamoci perché tutte le nazioni sviluppate del mondo stanno subappaltando questi lavori ad aziende private e non mantenute nel pubblico. Forse perché ci sono dei vantaggi a farlo!

In Italia non lo si vuole capire. Si continua nell’altra direzione. Tra l’altro, tirando a mille il personale di Forze Armate e Forze di Polizia, le quali sono ormai allo stremo, a causa dei vari tagli subiti e alla continua richiesta di copertura di innumerevoli servizi.

Nel caso si riuscisse a far evolvere con la giusta modalità questo settore in Italia, ricordiamo che si potrebbe così dare lavoro anche a quell’enorme quantità di volontari che non sono riusciti a riaffermarsi in servizio permanente o che hanno lasciato le Forze Armate o di Polizia per altri motivi.

Mi riallaccio a quello che scrivi all’inizio del libro, quando decidi di lasciare le Forze Armate perché deluso per la mancanza di meritocrazia e poi ti colpisce Fabrizio Quattrocchi, la sua dignità e schiena dritta nell’affrontare la morte

Ho sempre creduto moltissimo nell’uniforme e soprattutto a quella che è la fratellanza che unisce le persone che la indossano, cosa che è molto difficile trovare nel privato e mi manca tutt’ora. Però, anche lì, ti ritrovi in mezzo a situazioni dove ti accorgi che chi ti gestisce, come in ogni settore in Italia, fa politica.

Ovviamente questi sono casi limite. Io mi sono trovato in mezzo a una situazione particolare e ho deciso di andarmene. L’uniforme mi è sempre mancata e l’ho un po’ ritrovata in questo ambiente.

Un giorno mi sono trovato in tv Fabrizio Quattrocchi. Non sapevo nulla di questo mondo ed avevo fatto un anno come guardia giurata a Verona, ma non era la mia strada. Dopo quell’evento tragico sono venuto a conoscenza di questo settore e ho pensato che fosse la cosa più affine al mondo in cui ero prima, con l’uniforme. Ho così iniziato a informarmi.

Ho impiegato un bel po’ prima di riuscire a entrare, non è stato così semplice e le prime risposte sono state negative: avevo solo 5 anni nei Lagunari e per molti "non ero adatto", senza nemmeno conoscermi. Ma ho sempre avuto un carattere per cui più cerchi di limitarmi e più insisto.

Dopo 4 anni di ricerche, un ex collega mi ha sponsorizzato a un’azienda che stava cercando un consulente della security che parlasse anche italiano (a quei tempi questa industria funzionava più per sponsorship rispetto ad oggi, dove contano molto più le qualifiche e i processi di recruiting). Ho preso la palla al balzo e da lì mi sono ritrovato, in meno di un mese, nel sud del Libano a lavorare per questa azienda. Ho avuto così modo di migliorare il mio inglese e di crescere professionalmente, iniziando anche a sviluppare il network. È vero che all’inizio tu entri per qualifica, però in questo lavoro vai avanti unicamente se riesci a costruirti una rete. Cosa serve per costruirla? Torniamo su quanto detto prima, serve l’affidabilità, la parola chiave di questo lavoro. Se ci sai fare con le persone, se sei affidabile, vieni richiamato.

Ci sono donne nel mondo della security?

Ce ne sono poche e servono in ruoli specifici. Ho lavorato anche in India e, ad esempio, per le famiglie di qualche miliardario, per uno dei figli hanno voluto l’executive protection donna. Da altre parti, come i progetti delle organizzazioni internazionali, invece, vengono richiesti i "close protection donna" perché le organizzazioni stesse hanno quote di personale femminile. Se si è in un ambiente dove la differenza di gender è molto sentita, come nei Paesi islamici, se si ha a che fare con signore del luogo, è comunque buono che tu abbia delle donne nel team. Questo aiuta ad avere una migliore comunicazione ed è importante per mitigare i rischi culturali.

Nelle mie esperienze non ho mai conosciuto nessuna italiana che facesse questo lavoro, per lo più sono britanniche, francesi ed irlandesi.

Ti chiedo una considerazione: molte nazioni addestrano i cittadini per l’emergenza. L’Italia è un Paese perennemente a rischio anche per attentati. Secondo te, sarebbe opportuno fare anche da noi una cosa del genere e farla gestire ai security contractors?

Secondo me il problema principale non è fare una cosa ma come si decide di farla. Perché purtroppo, in Italia, si va sempre su certe figure che non sono qualificate e preparate su standards internazionali. Non basta essere ex generale dei Carabinieri o dell’Esercito o Polizia, che tra l’altro rivestono ruoli di stampo più “strategico” che tattico e operativo. Il problema è che dovrebbero far sviluppare questo settore a chi veramente lo conosce a livello internazionale e ha parametri di confronto già testati da altre nazioni e purtroppo, in Italia, queste figure non sono molte.

Manca inoltre una capacità di pianificazione vera su questo argomento. Manca una visione che sia realistica e fattibile, che porti a un risultato a lungo termine, non cose buttate lì da uno che ha mollato la carriera e adesso vuole rivendersi senza esperienza nel campo della sicurezza civile. Bisognerebbe avere l’umiltà di ammettere le proprie carenze, andare all’estero e imparare da inglesi, francesi e americani, che hanno già fatto i loro errori in passato nel settore di security privata e copiare quello che loro stanno facendo di buono, magari migliorandolo.

Io mi sono preparato con i britannici: loro sono alla base dell’odierno "security risk management" e hanno maturato tutta l’esperienza in un settore che ha ancora delle falle, il che è tutto dire.

Impariamo dagli altri e prendiamo i lati positivi, altrimenti ci troveremo con un settore avviato ora che è come il loro 20 anni fa, ove la cura è peggio della malattia, come avvenuto per l’antipirateria.

Va fatto riferimento a figure che abbiano effettiva conoscenza di un dato settore, piuttosto che andare a fare piaceri ai soliti “amici di” che si vogliono rivendere nell’ambito privato.