Intervista all'autore de "Sul ciglio della foiba"

(di Giusy Federici)
09/02/17

"Nel mio libro, Sul ciglio della foiba, ho voluto fare un percorso sulle radici dell’italianità in Istria, Fiume, Dalmazia e Venezia Giulia, proprio per far capire che quello che si commemora il 10 febbraio, il Giorno del Ricordo, è una storia che nasce prima delle foibe e dell’esodo. Questa contrapposizione degli italiani con il mondo slavo è stata fomentata soprattutto dall’impero austriaco, con la logica suicida del divide et impera, di cui poi hanno fatto le spese gli stessi austriaci. Quindi, tutto quello che succede dopo, con le foibe e l’esodo, in realtà è soltanto l’ultima tappa di un lunghissimo percorso che affonda le sue radici in un progetto, anche espansionista, slavo".

Sul ciglio della foiba. Storia e vicende dell’italianità, I libri del Borghese editore, è l’opera prima di Lorenzo Salimbeni, uno storico con varie pubblicazioni scientifiche alle spalle, ricercatore della Lega nazionale di Trieste e del Comitato 10 Febbraio e responsabile comunicazione dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. Triestino, classe 1978, Salimbeni ha presentato il lavoro a Roma, alla Casa del Ricordo, insieme a Donatella Schürzel, presidente del Comitato provinciale dell’Anvgd e Giuseppe Parlato, docente di Storia contemporanea dell’Università degli Studi internazionali di Roma. In copertina la Foiba di Basovizza, monumento nazionale.

Tu chiami il libro Sul ciglio della foiba. E foiba vuol dire i comunisti titini, gente inerme trucidata perché italiana, i vari trattati dove l’Italia ha di fatto venduto i suoi connazionali, gli esuli trattati da stranieri in Patria e malvisti, la sinistra nostrana che ancora oggi minimizza o nega. È una situazione che dopo 70 anni non è ancora pacificata. Forse perché gli esuli pagano il prezzo di essere scappati da quel paradiso del socialismo reale che era la Yugoslavia comunista?

Sì, è così. Nel 2017 ricorrono proprio i 70 anni del Trattato di pace di Parigi del 1947 ed è assurdo vedere come ci siano ancora problematiche aperte. Anche perché quel trattato di pace ha sì unito l’Italia e il confine orientale con tutte quelle cessioni territoriali, però al suo interno aveva, anche, alcune piccole garanzie a tutela delle proprietà e dei diritti degli italiani. Nulla di tutto questo è stato rispettato, né da parte jugoslava né, paradossalmente, da parte italiana, se pensiamo che ancora oggi gli esuli aspettano un indennizzo da parte dello Stato italiano che, con i loro beni, abbandonati in Istria, Dalmazia, Fiume e che sono stati nazionalizzati dalla Jugoslavia, di fatto il nostro Paese ha pagato gran parte del suo debito di guerra nei confronti di Belgrado.

Nel 1975, con il Trattato di Osimo, l’Italia avrebbe potuto rivendicare quei territori. Invece ha fatto ulteriori concessioni alla Jugoslavia…

Nel trattato di Osimo c’erano dei margini di manovra. Lo Stato italiano non ha voluto capire che, morto Tito, la Jugoslavia sarebbe crollata e ha accettato di cedere quel che invece poteva ancora rivendicare nei confronti della ex zona B del mai costituito territorio libero di Trieste. La cosa ancora peggiore è che a Jugoslavia dissolta, intorno agli anni Novanta, non c’è stata neppure la volontà di riaprire il contenzioso con la Slovenia e con la Croazia. Lo spiegano bene giuristi di alto spessore come il professore di Diritto costituzionale Giuseppe De Vergottini: si poteva riaprire almeno la questione di Osimo, ma non è accaduto.

Invece lo Stato italiano ha preferito pagare la pensione ad alcuni tra i più famosi “infoibatori” jugoslavi, Oskar Piskulich un nome per tutti…

Invece noi siamo ancora in attesa che l’Italia corrisponda un riconoscimento ai perseguitati italiani del regime di Tito come è stato concesso, giustamente, ai perseguitati antifascisti o ai deportati. Si sono delle previdenze a loro favore da parte dello Stato italiano e da tempo si chiede altrettanto nei confronti di chi ha patito queste cose in quanto italiani.

La Chiesa, che comunque ha fornito aiuto nell’accoglienza, ha sempre dato l’idea di essere più a favore dei popoli slavi e un po’ meno dalla parte degli esuli. È così?

Il problema è che, nel contesto del confine orientale italiano, sloveni e croati rappresentano una componente dei popoli slavi fortemente cattolica e in cui anche lo stesso elemento nazionale nasce all’interno delle chiese. Attraverso la predicazione in lingua slovena e croata, sacerdoti sloveni e croati sono stati, a fine Ottocento, tra i leader del nazionalismo nascente slavo e anche della seconda guerra mondiale. Molti di loro sono stati anche fra i collaborazionisti croati, in particolare tra gli ustascia o, addirittura, hanno benedetto i massacri compiuti dai nazionalisti croati a scapito di serbi ortodossi, di ebrei e di nomadi. Eppure, ci sono stati anche sacerdoti italiani vittime delle foibe, come don Angelo Tardicchio, parroco di Villa di Rovino, preso di notte dai partigiani titini e incarcerato a Pisino d’Istria. Fu ucciso e gettato in una cava di bauxite. Quando fu riesumato, si vide che gli avevano messo una corona di spine in testa, per ulteriore sfregio. È considerato il primo martire delle foibe. O, ancora, l’istriano don Francesco Bonifacio, il cui corpo non è mai stato ritrovato, molto probabilmente gettato in una foiba. Anche lui è stato beatificato in quanto martire per odium fidei. Però su questo, forse, è mancato un apporto più significativo dal centro (Vaticano, ndr), non certo dal territorio. Basti pensare, ad esempio, al vescovo di Trieste e Capodistria Antonio Santin, che si spese in prima persona per difendere la città, per difendere la popolazione e in seguito ebbe un grande ruolo per l’accoglienza dei profughi a Trieste.