L’intensa attività di ricerca sui conflitti, sui processi di pace, sui rapporti tra cultura, religione, politica e società di Maria Luisa Maniscalco, già professore ordinario di Sociologia presso l’Università degli Studi Roma Tre e coordinatore del Master in Peacekeeping & Security Studies, ha riguardato più di recente anche le problematiche legate al radicamento di popolazioni musulmane sui territori europei a cui ha dedicato due volumi (Islam europeo. Sociologia di un incontro, 2012 e Voies et voix de l’islam européen, 2014) e numerosi saggi.
Attraverso questa intervista la professoressa ci racconta il nuovo volume, curato assieme all’antropologa Elisa Pelizzari, dal titolo Deliri culturali. Sette, fondamentalismi religiosi, pratiche sacrificali, genocidi.
Il volume raccoglie saggi di specialisti di differenti settori (antropologia, diritto internazionale, psichiatria transculturale, sociologia) accomunati dall’intento di riflettere su fenomeni sociali, quali il terrorismo, le pratiche sacrificali, i fondamentalismi religiosi, come pure i genocidi che hanno caratterizzato la storia del recente passato.
Nel confronto interdisciplinare che anima il volume la nozione di “delirio culturale” si prospetta come una chiave interpretativa trasversale con valenza ampia che trascende l’ambito puramente clinico.
Professoressa Maniscalco, come nasce l’idea del volume Deliri culturali. Sette, fondamentalismi religiosi, pratiche sacrificali, genocidi, pubblicato dalla casa editrice Harmattan, Italia?
L’idea di un volume collettaneo intorno alla violenza e ai suoi legami con la cultura nasce all’interno di un gruppo di discussione multidisciplinare promosso da Goffredo Bartocci, psichiatra e psicanalista, con una notevole esperienza di psichiatria transculturale e da Elisa Pellizzari, antropologa con una consistente esperienza di ricerca in Africa e docente di “antropologia della violenza”. Senza disconoscere le basi biologiche e istintuali dell’aggressività, ci siamo trovati concordi sul fatto che la violenza si manifesta nella vita collettiva quale prodotto storico della cultura che forgia personalità e comportamenti attraverso l’educazione, la socializzazione, l’indottrinamento e li iscrive in una dinamica collettiva di appartenenza. Di qui l’interesse ad iniziare un percorso di riflessione sulle dimensioni culturali radicali, totalitarie e inclini alla violenza.
Che cos’ è un “Delirio Culturale”?
Nei termini specialistici del saggio di Bartocci e Zupin il delirio culturale viene definito come una struttura culturale che, interiorizzata a livello psichico, svolge la funzione di una sorta di diapason che può far prendere alle rappresentazioni tinte precostituite. In termini non clinici il concetto attraversa trasversalmente tutto il volume e viene utilizzato quale idea relativa ad un’esaltazione che si manifesta in maniera vertiginosa, in un eccesso di certezze e con un’incapacità ad esercitare qualunque tipo di riflessività sulle proprie azioni. Emergono profili di universi culturali chiusi, aggressivamente gelosi della propria identità e timorosi della contaminazione. Gli altri sono considerati non-umani, possono generare ripugnanza, disgusto; ucciderli può essere un dovere per purificare il mondo (come nel caso dei genocidi), per riaffermare una norma religiosa (come nel caso dei delitti culturale), per realizzare un ideale politico religioso (come nel jihad rivoluzionario) o per ottenere un beneficio (come nel caso delle pratiche sacrificali).
Il suo saggio all’interno del volume, intitolato “Il canto delle Sirene. Narrazioni Jihadiste, dinamiche settarie e processi di radicalizzazione” è a mio parere, un’edificante riflessione sulla violenza politica radicale ovvero quella del terrorismo sunnita jihadista. Quali sono le dinamiche socioculturali che sosterebbero la radicalizzazione del jihadista homegrown, esiste un jihadista “tipo”?
Sui processi di radicalizzazione jihadista violenta e sulle relative cause la letteratura presenta molte chiavi di lettura; in generale alcuni si focalizzano su problemi psicologici (esperienze traumatiche, disturbi psichiatrici, stress continuativo…) e su fattori emotivi (disagio personale o socio-culturale, crisi identitarie, pressioni sociali a conformarsi, percezione che i musulmani siano oggetto di persecuzioni), altri su fattori socio economici (discriminazione sul mercato del lavoro, disuguaglianze economiche, discriminazioni ….), altri ancora sui fattori socio-ambientali (network di parentela, amicizia, vicinato) e sulle esperienze biografiche (famiglie disgregate, carcere, vissuto borderline ..). Infine non mancano i richiami ai fattori politico-ideologici dalle eredità del colonialismo alla politica internazionale e nazionale.
Nel mio saggio ho concettualizzato la radicalizzazione come un processo incrementale, inizialmente di carattere essenzialmente psicologico, che assume la forma di un cambiamento di mentalità a seguito di nuove di convinzioni che dà poi luogo ad una modifica delle pratiche quotidiane. Procede con una rottura delle relazioni e dei legami familiari, amicali, sociali e porta all’assunzione di una nuova identità (frequentemente segnata con il cambio del nome) con dichiarazioni e comportamenti che fanno registrare l’eclissi della morale ordinaria.
Ho di seguito sviluppato un modello multidimensionale che tenesse conto di diversi fattori e dimensioni che in sintesi potremmo così individuare: un livello micro (caratteristiche psicologiche, storie personali e dinamiche quotidiane), un livello meso (tipo di network familiare e sociale, caratteristiche delle comunità di vita e circostanze scatenanti) e un livello macro (ideologie ed elementi simbolico-culturali, situazione geopolitica internazionale).
Mi sono concentrata infine sugli aspetti dottrinari e sulle narrazioni come emergono dalla propaganda jihadista ai fini del proselitismo; questa offre un sistema di significati di riferimento per modellare le percezioni, sostenere trasformazioni identitarie, forgiare comportamenti e incitare alla violenza. L’aspetto della propaganda islamista militante è da considerarsi fondamentale sia nei suoi contenuti (come per esempio: l’idea che i musulmani sono perseguitati, l’attribuire la crisi dei musulmani al loro aver abbandonato il vero messaggio divino, il presentare i jihadisti come i soli difensori dei sunniti, il mito dell’arrivo dell’Apocalisse …) sia nelle modalità in cui viene veicolata ( leader carismatici, supporters madre-lingua europei …) sia infine nei mezzi (social media, media...). Nel lungo periodo, il confronto ideologico è forse più rilevante dei meri aspetti di sicurezza.
Per l’altro suo quesito devo rispondere che non esiste il jihadista “tipo”, essendo la radicalizzazione l’esito di percorsi personali molto differenziati e riguardando differenti categorie sociali; alcune variabili sono più frequenti quali il sesso maschile (ma non sono certo mancati i casi di donne che hanno portato a termine attentati anche sacrificando la propria vita), la giovane età, ma anche in questo caso con eccezioni come dimostra l’ultimo attentato di Londra (22, marzo, 2017) perpetrato da Adrian Russell Elms (alias Khalid Massood) di cinquantadue anni e aver soggiornato in carcere anche per reati minori. Pure questa ultima variabile non è sempre riscontrabile e non presenta carattere predittivo.
Quale potrebbero essere gli strumenti socioculturali utili al contrasto del continuo dilagare della violenza tracciante la vita collettiva?
La violenza purtroppo segna pesantemente la nostra vita collettiva e non è certo appannaggio esclusivo dell’estremismo jihadista. Tornando però a quest’ultimo, a cui è dedicato il saggio che ho scritto per il volume “Deliri culturali”, credo che a livello socio culturale occorra lavorare molto con le comunità musulmane, evitare che si formino enclave, società parallele, no-go zones all’interno delle quali tutti i musulmani vengono indotti a conformarsi a un islam radicale perché queste realtà, molto presenti in paesi quali la Gran Bretagna, la Francia, il Belgio, aumentando le differenze, frammentano il tessuto sociale, producendo nei musulmani la sensazione di estraniamento dal resto della società. Questi ultimi hanno il diritto/dovere di sentirsi cittadini a pieno titolo e di vivere la loro cultura come un fattore arricchente e non come un punto di contrasto.
Ma perché questo accada, senza timore di accuse di islamofobia e senza debolezze, occorre avere idee chiare sulle regole che vogliamo siano rispettate nei nostri paesi, evitando esercizi intellettuali e sterili interrogativi circa la nostra incapacità di coerenza rispetto ai diritti e alle libertà che pure professiamo, ma che negheremmo agli altri proibendo di seguire tutti i dettati anche estremi della loro cultura, spingendo l’acceleratore su un’etica delle convinzioni in una fuga in avanti fino a sospendere ogni assunzione di responsabilità nei riguardi delle conseguenze e delle generazioni future.
Forse non abbiamo ancora riflettuto abbastanza su come muoversi per sostenere un vivere insieme pacifico e reciprocamente rispettoso senza scardinare il nostro sistema di valori e di garanzie.