Legittimità dell'uso dei droni nella guerra al terrore. Intervista all’avv. Marco Valerio Verni

(di Andrea Cucco)
22/09/17

In ambito militare gli aeromobili a pilotaggio remoto (i c.d. droni) sono utilizzati da tempo nella lotta al terrorismo, tra luci e ombre. Da una parte, infatti, è indubbio che il loro impiego comporti, per gli Stati che ne facciano uso, di non dover inviare soldati sul campo (“boots on the ground”), con tutto ciò che ne può conseguire, sia, di rimando, un risparmio notevole di costi; dall’altra, però, sono tante le polemiche che, ogni volta, sorgono, in merito sia alle morti di civili che comunque, da alcune statistiche divulgate da certe associazioni umanitarie, sembrano derivarne ogni volta, sia alla liceità o meno, in particolare, delle c.d. targeted killings (uccisioni mirate), alla luce del diritto internazionale e, in particolare, del diritto internazionale umanitario.

Per chiarire un po’ i termini della questione, abbiamo intervistato l’avvocato Marco Valerio Verni (foto), esperto di diritto internazionale e di diritto internazionale umanitario, che, proprio recentemente, tra l’altro, ha avuto modo di intervenire sulla tematica in questione in un seminario svoltosi lo scorso 7 settembre, presso il Comando Operativo di Vertice Interforze, in Roma, nell'ambito del LII° Corso per Consigliere Qualificato per l'applicazione del Diritto Internazionale Umanitario nei conflitti armati e nelle Crisis Response Operations, organizzato dalla Croce Rossa Italiana.

Avvocato Verni, quando inizia l’uso degli APR nelle operazioni militari e, nello specifico, nella lotta al terrorismo? E perché?

Dopo l’attentato delle Torri Gemelle, di cui è ricorso il triste anniversario proprio di recente, l’allora amministrazione Bush, ritenendo quel grave atto una dichiarazione di belligeranza a tutti gli effetti da parte dei terroristi, decise di intraprendere, in risposta, una vera e propria guerra contro di essi, che, per la sua stessa natura, si sarebbe dovuta intendere "worldwide" and "permanent". Naturalmente, questo avrebbe avuto dei costi, sia in termini di vite umane, sia economici, ed il popolo americano, sebbene colpito nel profondo, non era certo entusiasta ad un ulteriore e prolungato spargimento di sangue. Fu così che, nel tempo, si iniziò a prediligere l’uso degli APR che, pilotati da remoto, avrebbero evitato tutto questo. Inoltre, la guerra che si sarebbe dovuta combattere non sarebbe più stata (solo) contro degli attori statali ma contro gruppi di terroristi, più sfuggenti e difficili da catturare. Da lì, la successiva prassi delle uccisioni mirate o "targeted killings", ossia quelle operazioni volte ad eliminare un particolare individuo, non in custodia delle autorità statali, e considerato seriamente pericoloso in ragione delle sue attività terroristiche pregresse o future.

Proprio sul loro utilizzo e sulle uccisioni mirate non mancano le polemiche, sia da parte di alcune organizzazioni umanitarie, sia da parte delle stesse Nazioni Unite... 

Facciamo un passo indietro: sempre all’indomani dell’attacco alle Twin Towers (ossia il 14 settembre del 2001), il Congresso americano rilasciò al presidente degli Stati Uniti l’Authorization for the use of military force against terrorists (AUMF), per consentire l’impiego di ogni mezzo necessario a perseguire i responsabili degli attentati di tre giorni prima e ogni individuo o gruppo fiancheggiatore, interpretando in maniera estensiva quel concetto di diritto di autotutela in risposta ad un attacco altrui che, accanto all’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nei casi in cui si renda necessario "mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale" (art. 42), è previsto come deroga (art. 51 della Carta ONU) al divieto di uso della forza colà sancito dall’art. 2, paragrafo 4, "contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato" o "in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite".

Queste ultime (Nazioni Unite), dal canto loro, hanno sempre visto con una certa diffidenza questa impostazione, sostenendo che, per quanto sia grave il fenomeno terroristico, esso non possa considerarsi, per la sua intensità, al pari di un conflitto armato, e che sarebbe una forzatura, se non, addirittura, una prassi contra ius quella di combattere una guerra senza luogo e senza tempo ed evidenziando (vedasi, ad esempio, il Report on extrajudicial, summary or arbitrary executions - U.N. doc. A/HRC/14/24/Add.62 del 28 maggio 2010 - del Relatore Speciale del Consiglio dei Diritti Umani Philip Alston, o quello “on Promotion and protection of human rights and fundamental freedoms while countering terrorism” - U.N. doc. A/68/389 del 18 settembre 2013, redatto dal Relatore Speciale Ben Emmerson), come al di fuori di un conflitto armato formalmente accertato, la possibilità di un "intentional, premeditated and deliberate use of lethal force" realizzato mediante l'impiego di APR non possa ritenersi ammissibile "under international law".

Impiego che, viceversa, sarebbe da ritenersi lecito in caso di un formale conflitto tra Stati, ossia in presenza di una delle due deroghe all’uso della forza prima citate, previste dallo Statuto delle Nazioni Unite, sempre avuto riguardo, però, alle regole dello "ius in bello".

La Croce Rossa è dello stesso avviso?

Il Comitato Internazione di Croce Rossa, attraverso un'intervista rilasciata nel 2013 dal suo presidente Peter Maurer, ha affermato che, una volta accertata la liceità di un conflitto secondo le norme dello "ius ad bellum", l’uso degli APR non è certamente vietato dalla normativa di diritto internazionale umanitario (che, naturalmente, non esprime un richiamo esplicito ad essi, ma ne rende implicita l’equiparazione alle armi convenzionali), ma è chiaro che è ad esso che poi, il loro impiego, si debba conformare. Quindi: rispetto della distinzione tra obiettivi militari e beni civili, rispetto della popolazione civile, operazioni militari svolte secondo determinati criteri (necessità, proporzionalità, idoneità dei mezzi e dei metodi impiegati, in primis).

In prospettiva, però, stanti le caratteristiche della guerra al terrore, e la nuova tecnologia militare a disposizione, incentrata proprio sull’uso degli APR, e dei vantaggi da esso derivanti, c’è chi suggerisce di approfondire e sviluppare l’idea anzidetta, ossia di creare, accanto alla categoria dei conflitti formali tra Stati, e di quelli rientranti nelle deroghe previste dalla Carta ONU, un tertium genus, che preveda la possibilità di combattere un conflitto armato "diffuso" (in quanto potenzialmente esportabile in qualsiasi luogo geografico) e "permanente" (perché destinato a concludersi solo quando la minaccia terroristica sarà definitivamente sventata), sulla falsariga di quello ipotizzato dagli USA dal 2001, con l’AUMF prima richiamato.

La strada, però, è lunga ed in salita perché questo presupporrebbe ammettere, da una parte, la possibilità di rendere il mondo intero un campo di battaglia, magari a tempo indeterminato, dall’altra, la possibilità di condurre un conflitto, o, magari, eseguire singole missioni implicanti l’uso della forza letale, sul territorio di uno Stato straniero senza il consenso – anche implicito – di quest’ultimo. Non considerando che, anche qualora esso fosse concesso, ci si scontrerebbe comunque con il diritto alla vita (e quindi con il divieto di uccisioni arbitrarie) che, in quanto tale, è protetto, nel suo nucleo essenziale, da norme generali di natura imperativa e, quindi, insuscettibili di deroga convenzionale.

Per quanto riguarda, invece, le organizzazioni non governative, la loro polemica nasce dal fatto che, secondo alcune statistiche1, a fronte di pochi bersagli “veri” - alias terroristi - si conterebbero, ogni volta, diverse vittime civili.

Un numero inaccettabile di "vittime civili"...

Non mi sento di discutere simili numeri, ma è pur vero che degli "effetti collaterali", come detto, sono sempre possibili, e, per quanto cinica possa sembrare l’affermazione, prevedere delle morti di civili a fronte di una azione militare necessaria, condotta con proporzionalità ed idonei mezzi e metodi di combattimento, volta a conseguire un preciso ed importante vantaggio militare, è nella drammatica natura dei conflitti.

Chiaramente, al di fuori di questi parametri, tali uccisioni potrebbero benissimo essere considerate dei crimini di guerra, alla luce di quanto previsto dall’art. 8 dello Statuto della Corte penale Internazionale, secondo cui è vietato il lanciare deliberatamente attacchi nella consapevolezza che gli stessi possano causare perdite di vite umane, lesioni alla popolazione civile o danni a proprietà di civili.

Una sorta di bilanciamento di interessi?

Esattamente. Se, dopo tanti sforzi, ad esempio, si riesce ad individuare un terrorista che si nasconde in un determinato posto e si ha il ragionevole sospetto che il giorno dopo, non sarà più lì, per andare chissà dove - magari a compiere un altro attentato - occorre agire in fretta e mettere sul piatto della bilancia diversi aspetti, seguendo i criteri anzidetti: necessità militare e sua inderogabilità, vantaggio, oltre alla proporzionalità dei mezzi impiegati nell’azione, proprio per evitare, o ridurre al minimo, le perdite di innocenti.

Anche l’Italia è coinvolta nella lotta al terrore tramite aeromobili a pilotaggio remoto.

Al momento, gli APR in dotazione alla nostra Aeronautica militare non sono armati ed hanno compiti di sorveglianza e ricognizione: il loro utilizzo in teatro operativo (Afghanistan innanzitutto) ha consentito a numerosi convogli di non saltare sulle mine o di non cadere in imboscate. Quindi, sono certamente inseriti nei piani di azione della coalizione anti-terrore, ma i nostri piloti non sono stati impiegati per colpire.

 

(foto: U.S. Air Force)

1 Al link drones.pitchinteractive.com, ad esempio, se ne possono trovare alcune riguardanti il Pakistan.