Radicalizzazione jihadista nelle carceri: cause e proposte di prevenzione. Intervista a Francesco Bergoglio Errico

(di Sara Catalini)
26/04/18

I casi rilevati di radicalizzazione e reclutamento jihadista nelle carceri hanno determinato ed evidenziato, non solamente in Italia, una forte debolezza del sistema penitenziario, istituzione rimasta in disparte rispetto alle evoluzioni sociali e culturali che hanno interessato la collettività.

Le carceri sono considerate un terreno fertile per la radicalizzazione, in linea generale in quanto la diversità delle origini e l'atmosfera poco accogliente del penitenziario, portano gli individui a relazionarsi con i detenuti più compatibili in termini di lingua, cultura o religione. Ma questo processo naturale può degenerare in proselitismo se intervengono determinati elementi a destabilizzare l’identità del detenuto.

Nel caso di detenuti stranieri infatti sono molti gli ostacoli che la permanenza in carcere comporta: si sommano tra loro difficoltà linguistiche, differenze culturali, e una generale mancanza di punti di riferimento stabili nell’ambiente esterno (famiglia lontana o assente, domicilio, lavoro). Di conseguenza è più complesso vigilare per arginare l’alienazione che anche le carenze strutturali degli stessi penitenziari alimentano, al fine di garantire il pieno reinserimento nella società di chi sconta la propria pena.

Per analizzare il complesso fenomeno della radicalizzazione, abbiamo parlato con il dr. Francesco Bergoglio Errico (foto), antropologo ed emerging challenges analyst presso il NATO Defense College Foundation nonché cultore della materia e autore di uno studio che ricostruisce il racconto del proselitismo jihadista partendo dal concetto di “Crisi della presenza”.

Qual è il profilo di un individuo a rischio radicalizzazione?

Partendo dal presupposto consolidato che non esiste un profilo unico che attesti il rischio, vi sono delle cause che emergono dallo studio dei profili di jihadisti. In primo luogo bisogna escludere le patologie psicologiche, tanto che una delle caratteristiche è proprio la “normalità” dei soggetti che sono a rischio e che poi si radicalizzano, ma anche qui ci sono state delle eccezioni. In secondo luogo, si tratterebbe di uomini tra i 18 e 30 anni, immersi nella cultura europea, con generalmente, ma non esclusivamente, un medio-basso livello culturale, di seconda o terza generazione. Spesso sono figli della prima ondata di immigrazione, generalmente delusi dalle scarse opportunità e vittime dei problemi sociali come l’emarginazione, disoccupazione, criminalità. Altra caratteristica comune è il sentimento di non appartenenza, di alienazione dalla società e dalla cultura dominante, nonché quella dei famigliari. Tutti questi fattori e caratteristiche, amalgamandosi, pongono l’individuo in uno stato di crisi di identità capace di portare il soggetto verso una “cognitive opening” che lo rende ricettivo al proselitismo e all’ideologia jihadista.

In che modi e tempi avviene il processo? Quali fattori catalizzatori possono velocizzarlo?

Il processo di radicalizzazione jihadista può essere riassunto con il modello NYPD composto da quattro tappe. La prima tappa è la “pre-radicalizzazione”, ove risiedono le cause sociologiche e psicologiche collettive e individuali che predispongono l’individuo alla vulnerabilità delle narrative radicali, del proselitismo e della retorica jihadista. La seconda tappa è “l’identificazione”: l’individuo si scosta dalla sua identità sociale e religiosa o dal comportamento che fino a quel momento lo caratterizzava. La terza tappa è “l’indottrinamento”: l’individuo inizia ad approfondire le narrative e le ideologie estremiste, consolidando una nuova identità e una nuova visione del mondo, Weltanschauung. La quarta è la “manifestazione” o “jihadizzazione”, caratterizzata dalla piena presa di coscienza nell’agire per la causa attraverso il proselitismo, il reclutamento, l’aiuto logistico nonché, nell’azione di atti terroristici, compreso il martirio. Generalmente questo processo si svolge con tempistiche differenti da soggetto a soggetto, può essere breve oppure con una lunga tempistica, inoltre tale processo potrebbe interrompersi in qualunque momento e in qualunque fase.

I fattori che possono velocizzare il processo sono di diversa natura, per esempio di natura contestuale come l’assidua frequentazione di luoghi radicali ossia ristoranti halal, centri sportivi, moschee garage, viceversa vi sono fattori catalizzatori di tipo socio-psicologico, come il forte legame che si può instaurare con un reclutatore nelle prigioni, lo stato di forte vulnerabilità che genera un vuoto riempito dall’immensa gratificazione, senso di appartenenza e protezione che può dare un individuo o un gruppo radicale, oppure la piena condivisione dei fatti e della retorica propugnata dalla propaganda jihadista di facile reperibilità on-line ma anche nelle carceri, altresì la partecipazione in forum jihadisti, laddove si può interagire con persone dall’ideologia simile e che sono la causa, parziale, della partenza di una buona percentuale di FTF, i quali, in tali forum criptati, hanno trovato contatti con facilitatori per raggiungere il territorio siriano.

Il carcere è considerato un terreno fertile per la radicalizzazione. Quali aspetti della vita detentiva influiscono maggiormente?

È un dato di fatto, le carceri sono un giardino da coltivare per i reclutatori! Esiste un manuale pubblicato da al-Qaeda on-line, nel corso del 2009 col titolo “Un corso per l’arte dell’indottrinamento”, per cui i reclutatori sanno perfettamente come individuare soggetti vulnerabili, come attrarli, come farseli amici e come indottrinarli. Nel carcere vi è un’alta percentuale di convertiti o di ri-convertiti, born again, i quali trovano nella religione una via di fuga dal senso di alienazione e da altri fattori alimentati dall’ingresso in un istituto penitenziario. Questo senso di disagio viene cooptato dai reclutatori, restituendo protezione, aiuti di vario genere e una solida risposta esistenzialistica. Di conseguenza, gli aspetti della vita detentiva che favoriscono l’avvicinamento al jihadismo, mascherato con raffinatezza dai reclutatori come la religione islamica vera e propria, sono i problemi riscontrabili in molti istituti penitenziari: la mancanza di un imam, la difficile praticabilità dell’alimentazione halal, il disturbo recato a non musulmani o non praticanti per esempio dalla preghiera notturna, ṣalāt al-ʿishāʾ, la difficoltà di praticare i doveri religiosi, wajibat, la non possibilità di avere lo sajjāda ossia il tappeto per la preghiera... Tutte queste prescrizioni religiose rendono la vita del detenuto musulmano difficile ma, cosa molto importante è che non tutti quelli che vogliono praticare la religione sono dei jihadisti, anzi, al contrario, la religione può essere una “tecnica di controllo” dei detenuti e un sistema educativo facile da accettare per gli stessi ma, chiaramente vi sono difficoltà di gestione, carenza di personale, carenza di imam qualificati con il vaglio del ministero dell’Interno, nonché una scarsa conoscenza dell’islam e del jihadismo.

Parliamo della “Crisi della presenza”, una delle cause primarie. Quali sono i segni tangibili che è in atto?

La crisi di identità o, come la definisco io, utilizzando De Martino, “la crisi della presenza” è individuabile attraverso i modi di agire, d’interazione, di parlare, del comportamento, per esempio un individuo repentinamente si fa crescere la barba, inizia a pregare o intensifica la frequentazione di detenuti che fino ad un determinato momento non frequentava, il cambio di opinioni, l’interesse di fatti politici particolari, insomma la crisi di identità è un momento importante e a mio avviso è il principale fattore che scatena la radicalizzazione.

La crisi di identità comporta il passaggio determinate alla c.d. “cognitive opening”, ossia il momento particolare di un individuo, caratterizzato da un’apertura mentale verso alternative capaci di sopperire allo stato di disagio derivato dalla crisi, e quindi, con parole demartiniane, il “ritorno alla presenza”, tanto che i reclutatori spesso sono i primi ad indurre la crisi, così facendo accorciano le tempistiche del processo di radicalizzazione, anticipando il processo di indottrinamento.

In 10 anni sono stati accreditati appena 25 imam* dal ministero dell’Interno e ammessi negli istituti di pene. Quali difficoltà e anche rischi si incontrano nella selezione? C’è diffidenza da parte dei detenuti nei loro confronti?

È stato firmato, nel febbraio 2017, il “Patto nazionale per un islam italiano, espressione di una comunità aperta, integrata e aderente ai valori e principi dell'ordinamento statale” tra lo Stato e le principali associazioni e organizzazioni islamiche in Italia, rappresentative di circa il 70 per cento dei musulmani che attualmente vivono in Italia. Tra i punti salienti del patto c’è la “formazione di imam e guide religiose” che prelude a un albo degli imam. Su questa linea quello che serve è una maggior collaborazione con le associazioni islamiche e con le ONG per la formazione di imam certificati, facendo sì che diventino un punto di forza per combattere la radicalizzazione.

Accade di frequente che nelle carceri vi siano figure carismatiche che si autoproclamano imam. Visto la rarità di quest’ultimi e per sopperire a tale mancanza, gli autoproclamati guidano la preghiera e danno sostegno religioso a tutti coloro che lo necessitano, per di più soppiantare tale figura con un imam esterno, viene considerato un atto mal visto dai fedeli detenuti e, in un certo senso viene respinto e non ascoltato per i più disparati motivi, per esempio per la lingua parlata o per le teorie differenti.

Questa problematica è centrale per combattere la radicalizzazione e soprattutto per far progredire sempre di più un islam moderato e lontano dal jihadismo, ma sarà complesso fare ulteriori passi avanti, soprattutto per la divisone interna che caratterizza l’islam italiano e globale e per le gravi mancanze che gli istituti penitenziari devono affrontare, aspettando invano una riforma che consegni strumenti adatti al contrasto delle minacce come la radicalizzazione.

* Il termine imàm può indicare tanto una guida morale o spirituale quanto un semplice devoto musulmano particolarmente esperto nei movimenti rituali obbligatori della preghiera canonica ṣalāt