25 aprile: liberi da cosa?

(di Paolo Palumbo)
24/04/19

L’Italia del 25 aprile è cambiata. Discorrendo su questa ricorrenza è facile scivolare sul qualunquismo, oppure dire banalità del tipo “non ci sono più gli uomini di una volta”. Dietro l’assioma appena citato, effettivamente, qualcosa di vero c’è, soprattutto nel campo della politica la quale, oggi più che mai, rispecchia fedelmente la maggioranza degli italiani. Il 25 aprile serve a ricordare a questa, ma anche ad altre generazioni, quale sia il valore della libertà, ma più di ogni altra cosa a rammentare come un popolo sia ancora prigioniero dalla vergogna di quegli anni. Un periodo storico pieno di contraddizioni e voltafaccia che, fino ad un certo punto, ha confinato gli italiani su due argini differenti, con valori dissimili e con alle spalle crimini per i quali nessuno voleva accollarsi la responsabilità.

Oggi sarebbe giusto andare avanti, oltrepassare quei blocchi emotivi che spingono diversi leader italiani a parlare tuttora di “fascisti criminali” o di “comunisti che mangiano i bambini”; anche perché, se esaminiamo attentamente i fatti di questo ultimo decennio, noteremo come certi dogmi abbiano subito un rimescolamento tutt’altro che coerente ed in certi casi assimilabile all’eresia. Restano pochi nostalgici, un po' patetici, a sventolare le bandiere inneggianti al Duce come simbolo più nobile dell’essere italiani. Un’ilarità provocata parimenti dai vecchi "compagni", quelli che hanno riposto nello sgabuzzino la bandiera rossa con la falce e martello, tirandola fuori solo in occasioni di protesta dove il comunismo non ha la benché minima speranza di trovare un ruolo.

Il governo del cambiamento ha però ammaliato tutti, trovando la bussola per indirizzarci fuori dall’incubo di quella granitica bipartizione, regalandoci una nuova, e sempre meno intelligente, ripartizione di animi e valori. Mai come con questo governo, il 25 aprile, acquista un sapore insipido, dacché gli italiani hanno finalmente scoperto una nuova coscienza nazionale; quelli che anni fa scendevano in piazza con il pugno alzato, cantando “Bella ciao” e inneggiando alla fine della barbarie, oggi sono ferventi fans del “super ministro” che predica tutto fuorché la libertà. Oggi, parte di quel popolo rosso, privilegia tinte più tenui, riscoprendosi italiani a danno di qualcun altro. Il 25 aprile era la festa della liberazione, laddove anche quelli che vestirono con alterigia la camicia nera, apprezzavano la bellezza di un mondo in cui tutti potevano dire la loro.

Su questo punto potremmo sforzarci di cambiare il significato del 25 aprile, mutuando le manifestazioni di piazza con un rispettoso silenzio. Oppure dedicare questa commemorazione ad una lezione di storia collettiva, la medesima “storia” denigrata dai signori onorevoli sol perché la temono e non la conoscono. Un insegnamento imparziale che dia spazio a tutte le voci: sia dei vincitori, sia dei vinti. Questo aiuterebbe a fare un balzo in avanti rispetto ad un passato che, sempre più, si è mutato in un alibi dietro il quale eclissare la mancanza di idee originali.

Stiamo vivendo sull’onda poco entusiasmante di una nuova era: sprofondati, con stomachevole consapevolezza, in una “Repubblica dell’ignoranza” dove sui seggi, tempo fa occupati dai padri della costituzione, campeggiano ministri poco eleganti incapaci di coniugare un congiuntivo in maniera corretta.

Che fine ha fatto il 25 aprile? Ma soprattutto dove stanno andando gli italiani? Questo, bene inteso, è un appello bipartisan, rivolto sia ai cosiddetti “neo fascisti” “nazionalisti” e seguaci del “prima gli italiani”, sia ai ragazzi spacca vetrine dei centri sociali. Tutti, infatti, farebbero bene a farsi un esame di coscienza, domandandosi se hanno ancora una ragione di esistere oppure se sia meglio continuare ad essere maschere vuote ad uso e consumo del governo.

Approfondire ciò che si sceglie di rappresentare conferisce alle proprie idee una forza ineguagliabile, purtroppo però oggi preferiamo affidarci alla faciloneria di un tweet per fingere di aver inteso. Per questa ragione, una data come il 25 aprile, fatica a trovare un barlume di comprensione, giacché non è riassumibile in un post. Quel giorno del 1945 pretende un racconto complesso e articolato, con persone disposte ad ascoltare, ma anche a metterci la faccia e dire la verità. Ecco cosa sta avvenendo: chi ha ancora buon senso, gli intellettuali, quelli veri non i “radical chic” da salotto, hanno definitivamente perso la forza narrativa. Chi decide di farlo resta inascoltato, preso in giro e zittito. Un ministro che parla di storia – ammesso che la conosca – non otterrebbe neppure un “like”, quindi meglio farsi fotografare mentre si divora con avidità una costoletta durante una festa paesana commentandola con slogan seducenti del tipo: “la vera sagra degli italiani”. Questa parola, “italiani”, che riempie la bocca di uomini che si beano della percentuale di favori raggiunta sulle pagine di Facebook senza aver fatto nulla.

La cosa più divertente, ma nel contempo tipicamente nostrana, è che gli stessi che oggi inneggiano all’italianità quale valore assoluto, hanno il medesimo profilo di quelli che bramavano una nazione spaccata in due, credendosi i plenipotenziari di un “non luogo” come la Padania. Perché allora stupirsi quando il ministro dell’interno dichiara – palesando orgoglio e indifferenza – che non sarà presente nel giorno in cui si celebra la fine di un regime?

Gli italiani, nel bene e nel male, dimostrano di avere la memoria corta. Ecco perché in questo 25 aprile, le strade e le piazze dovrebbero essere spopolate.

Infine, tra le vittime più eccellenti della liberazione, c’è l’esercito italiano: condannato all’oblio per diversi decenni, poi riscoperto nel periodo della Guerra Fredda e recentemente oggetto di un tentativo mirato di rimozione. L’Italia del dopoguerra ha maledetto chi vestiva la divisa, omettendo che molti combattenti per la libertà portavano l’uniforme di alpino, carabiniere, fante o marinaio. Chi, durante la guerra, aveva sfoggiato con dignità le stellette, fu travolto dall’8 settembre e da una guerra fratricida destinata ingiustamente a macchiarne il futuro. È doveroso rammentare che l’esercito della seconda guerra mondiale era il “regio esercito” e non l’esercito fascista, sebbene esistessero unità con connotati specificamente politici. La grave colpa dei generali sabaudi fu quella di chinare il capo davanti ad un uomo che il mestiere della guerra lo aveva subito in trincea, ma completamente ignaro su cosa volesse dire predisporre una nazione per un conflitto.

Nel 1940, Mussolini sorprese l’Europa entrando in guerra con la stessa fanteria che aveva combattuto sul Carso, decantando le virtù del soldato italiano che tutto amava fuorché la guerra. Discorsi colmi di fervore nazionalista, destinati a sbriciolarsi sui monti della Grecia e dell’Albania. Poi l’Africa di El Alamein, dove “mancò la fortuna”: una frase che dice molto sulla preparazione strategica dello stato maggiore che preferì affidarsi al coraggio di pochi disperati, anziché dotarli di mezzi idonei ad affrontare il nemico. Sulla base dei fatti bellici dell’ultima guerra viene, infatti, da chiedersi perché in molti pensino ancora che l’esercito soffra di simpatie destrorse. Il fascismo in primis ha di fatto distrutto l’esercito, sia dal punto di vista storico, vanificando le vittorie ereditate dalla prima guerra mondiale, sia nella sostanza mandandolo a morire, con vergognosa indifferenza, solo per compiacere l’alleato.

La stessa ignobile noncuranza con la quale il governo precedente e quello attuale stanno trattando i militari. La copertina è cambiata, ma la musica è sempre la stessa: risorse ridotte al lumicino e soldati trasformati in poliziotti, guardiani notturni e addetti alla manutenzione stradale. Il militare, come lo intendono i libri di divulgazione storica, non c’è più. Purtroppo continuano ad esistere i ministri “esperti” nel campo della difesa (e non solo) che stanno dimostrando una pochezza intellettiva disastrosa. Il ministero della Pinotti inaugurò un percorso lento, ma inesorabile, per depotenziare il comparto militare; la Trenta – osannata inizialmente, non si capisce come, sulle pagine di questa rivista – sta dando il colpo finale, attorniata da lacchè rispondenti ad un direttivo somigliante più a una setta che non ad una compagine governativa.

Sarebbe auspicabile un secondo 25 aprile (non importa il giorno, purché avvenga). Una nuova ventata che liberi l’Italia dalla stupidità, dalla svogliatezza, dal crimine (quello vero, tutto nostrano), dall’arroganza, dalla superficialità e dalla supponenza. Speriamo di ritrovare la strada giusta: questo sarà possibile soltanto creandoci una nuova coscienza nazionale che disconosca qualsiasi colore politico, ma che tragga vigore da un Paese che ha regalato al mondo una cultura di cui nessuno può fare più a meno.

Foto: ministro della difesa / presidenza del consiglio dei ministri