Nel dizionario della lingua italiana il termine nonnismo viene così definito: “Nella vita militare, il comportamento dei soldati prossimi al congedo, che pretendono di esercitare un'autorità talvolta tirannica e vessatoria nei confronti delle reclute, in forza di un presunto potere derivante dall'anzianità”. È chiaro, la descrizione non fa una grinza, tuttavia dietro al problema “nonnismo” c’è un mondo molto vasto che valica i confini dell’ambiente militare. Non dobbiamo, infatti dimenticare, che quel genere di vessazione, o esercizio dell’autorità da parte di anziani sui più giovani, esiste ancora nei luoghi di lavoro, in certi gruppi sportivi e finanche accademici.
Per chiunque acceda per la prima volta all’interno di un nuovo gruppo, dove al suo interno vi siano già da tempo elementi con più esperienza e anni di servizio, c’è sempre una sorta di rituale d’ingresso che può variare dal semplice “l’ultimo arrivato paga per tutti” fino a casi di imposizione più sgradevoli e umilianti. Sono noti alla cronaca i diversi episodi di violenza legati alle confraternite universitarie americane, oppure più semplicemente le penitenze dei “primini” nelle scuole superiori e riti d’iniziazione in un contesto sportivo. Il “nonnismo” è dunque un moto di prevaricazione, non solo militare, che dura per un tempo limitato e non fine a se stesso poiché esso viene tramandato: è un dato di fatto che il giovane una volta diventato anziano possa – a sua coscienza – moltiplicare all’infinito la stoltezza di simile pratica.
Dietro le mura di una caserma questa transizione era sancita dal cosiddetto “passaggio della stecca” attraverso il quale lo scaglione congedante, prossimo ad abbandonare la divisa, affidava il “fardello” della naja allo scaglione successivo. I tanto contestati episodi di prevaricazione avvenivano ovviamente una volta che la recluta terminava il mese di addestramento al CAR (i vecchi Centri Addestramenti Reclute) dove già aveva assaggiato l’autorità legittima dei caporali istruttori con i quali, in alcuni casi, si poteva diventare persino amici. Una volta lasciati i fratelli di scaglione si arrivava al reparto di destinazione che poteva essere operativo e non operativo, e li ad attenderti c’erano i vecchi.
In primo luogo è bene ricordare che il problema del nonnismo non era appannaggio della Folgore, ma uniformemente condiviso con altri reparti dell’esercito. E a dire il vero vi era ancora una differenza molto importante da non sottovalutare: nella Folgore ci andavi volontario, bene o male sapevi di incontrare un ambiente peculiare, mentre negli alpini (popolari tanto quanto i paracadutisti per la “simpatia” dei “veci”) ci venivi mandato d’ufficio. Una volta varcate le soglie della caserma iniziava un percorso che per molti era una nuova esperienza, per altri un vero e proprio calvario, e questo indipendentemente dal rapporto con gli anziani. L’esperienza militare era un punto di rottura per un giovane di 18 anni sia in senso negativo, sia in quello positivo; alcune amicizie fatte al tempo della naja rimangono indelebili, come alcuni valori che oggi, ad esempio, mancano del tutto. Per alcuni invece l’anno di militare fu un vero incubo, e non solo a causa del nonnismo. Il contesto in cui si trovavano i ragazzi che avevano appena abbandonato le comodità della vita civile era di per se destabilizzante, gli anziani percepivano questo disagio, ma non sempre lo sfruttavano per farti sentire ancora più male.
In caserma la figura del “nonno” aveva anche accezioni positive, giacché per molti era colui che possedeva le coordinate giuste per guidarti in un mondo nuovo e irto di tranelli. Purtroppo a prevaricare erano sovente le dinamiche del branco che – a guardar bene – non sono le stesse che amalgamano un reparto militare. L’atto di prevaricazione, infatti, era comunque un imprinting individuale probabilmente già insito nell’individuo durante la sua vita da “borghese”: gli ufficiali o i sottufficiali conoscevano il problema, forse lo sottovalutavano oppure ci convivevano, ma dobbiamo essere sicuri che non lo promuovessero in linea ufficiosa. La magistratura farà chiarezza.
Come poteva difendersi una burba? Il metodo più diffuso era semplicemente quello di fare buon viso agli stupidi giochetti a cui ti obbligavano i “vecchi”, sempre che questi non fossero violenti o troppo umilianti. Pompate, frasi da ripetere o canzoncine da cantare, blocchi e sblocchi, flessioni per prendere la posta o per un’affermazione non gradita erano tutti teatrini apparentemente innocui ad uso e divertimento degli anziani.
Il film di Marco Risi, “365 giorni all’alba”, ha riprodotto in modo abbastanza fedele in cosa consistessero questi “scherzi” anche se nel caso cinematografico ebbero un risvolto negativo. Nel caso filmico il giovane Amendola decise di non piegarsi agli ordini della “vecchia”, intraprendendo una battaglia personale che lo condurrà direttamente davanti la porta del suo diretto superiore, senza però ottenere soddisfazione.
Questo è un nodo cruciale che viene messo in evidenza anche negli atti processuali del caso Scieri, vale a dire la possibile connivenza tra quanto accaduto e gli ufficiali superiori della Folgore. In linea di principio gli ufficiali erano le presone più indicate alle quali rivolgersi se vittime di atti di nonnismo, tuttavia non possiamo escludere che certi episodi fossero messi a tacere per il buon nome del reparto e per evitare noie con le alte gerarchie. Partiamo dal presupposto che la coscrizione concentrasse nelle caserme italiane giovani di ogni estrazione sociale, alcuni con posizioni già affermate, altri dei veri e propri casi umani. Questa eterogeneità coinvolgeva sia la truppa, sia gli ufficiali promossi grazie ai concorsi AUC (Allievi Ufficiali di Complemento). La disciplina militare avrebbe dovuto appianare ogni difformità esistente a livello sociale, ciò nondimeno non era in grado di intervenire sull’indole dell’individuo, anzi in taluni casi ne enfatizzava i problemi: in altre parole nessun bravo addestratore poteva trasformare un potenziale assassino in un bravo ragazzo.
L’episodio del povero Scieri è prima di tutto un delitto commesso da uno o più delinquenti che hanno avuto la vigliaccheria di nascondersi dietro una presunta “tradizione” gettando fango sulla loro divisa e sul nome del reparto. Non possiamo e non vogliamo immaginare che un’istituzione militare abbia coperto volontariamente una simile vergogna: se così fosse sarebbe un fatto gravissimo e i responsabili dovrebbero essere condannati con pene esemplari proprio perché militari. Non dobbiamo cadere nel tranello di punire a priori la “Folgore” o qualsiasi altro reparto dell’esercito, sarebbe stupido e inutile rispetto ad un’evoluzione che è iniziata proprio dal comparto della difesa con la sospensione della naja e la trasformazione delle caserme in luoghi in cui si formano e lavorano dei professionisti. Attenzione a non sporcare nemmeno quella che fu la coscrizione: sono milioni i cittadini italiani che hanno servito sotto le armi, alcuni facendolo con convinzione, altri magari in modo più scettico: tuttavia è d’obbligo riflettere sul fatto che tutti, indistintamente, hanno portato in alto e con orgoglio la bandiera dell’Italia in Libano e Somalia dove, sebbene fossero attorniati da professionisti, non hanno mai fatto sentire la differenza.
Speriamo che la sanzione contro quegli idioti (o singolo idiota) non sia un ennesimo pretesto per additare la Folgore, ma serva da esempio a tutti quelli che il nonnismo lo proseguono sotto altri nomi, come il “bullismo” che trae legittimazione solamente dalla stupidità, dalla noia e dalla complessiva inettitudine nella quale è caduta un’intera generazione alla ricerca di identità. Almeno in questo la naja offriva qualcosa di alternativo, un punto di partenza, mutando il destino di persone che altrimenti, nella vita civile non avrebbero trovato nulla che rispecchiasse le loro convinzioni.
(foto: web / U.S. Army)