Il gabinetto Conte - powered by Salvini e spinto anche dal meno visibile Di Maio - non fa paura a nessuno. Questa è la conclusione che se ne ricava leggendo le cronache degli ultimi tre mesi, dalla faticosa gestazione fino all’approvazione del Decreto Dignità. Non che il governo di un Paese democratico debba incutere timore: non siamo di fronte né a Lukashenko né a Erdogan. Ma per lo meno dovrebbe mostrare di avere il consenso esplicito di una parte produttiva o culturalmente forte della società civile del Paese, non solo di avere più troll di PD e Forza Italia. Invece, nello scenario attuale, la grande stampa del Nord e i media dei vari “padroncini”, i sindacati e gli imprenditori, gli artigiani e i commercianti, la Chiesa cattolica e le comunità israelitiche: tutti hanno levato critiche forti e hanno ostinatamente negato al governo Conte persino il beneficio di una apertura di credito concessa a quasi tutti i governi del passato.
Dal punto di vista del ceto produttivo e delle istituzioni socioculturali, nessuno si è esposto approvando i primi provvedimenti dell’esecutivo, neppure quando i ministri annunciavano le migliori intenzioni o picchiavano il pugno sul tavolo: è mancata persino la prudenza di chi teme di farsi nemici i nuovi potenti appena insediatesi e destinati a influenzare i destini del Paese per gli anni a venire. Forse solo i disoccupati del Sud, il pubblico impiego e i pensionati garantiscono ancora un robusto consenso alla maggioranza giallo-verde, attendendo trepidanti il reddito di cittadinanza e una riforma radicale della legge Fornero, ma anche loro pronti a sentirsi taroccati nel caso in cui il governo in carica offrisse loro solo magri assegni di disoccupazione e pochi aggiustamenti alla principale riforma voluta dal gabinetto Monti.
Oltre alla base elettorale incerta, a non incutere timori riverenziali c’è la strana figura del presidente del consiglio, Giuseppe Conte, che regna ma non governa (a quello ci pensano Salvini e Di Maio) come la Regina Elisabetta II e si concede spesso il lusso di intere settimane di silenzio come nemmeno le buon’anime di Andropov e Chernenko. Qualcuno ha detto che sembra contare quanto il due di picche quando la briscola è fiori: riesce solo a fornire magre opere di mediazione quando Salvini sembra troppo preso dalla propaganda per posare i piedi per terra o quando i Cinque Stelle appaiono sul punto di far saltare la camicia di forza messa dal presidente Mattarella all’esecutivo, nelle rispettabili persone del ministro dell’economia Tria e di quello degli Esteri Moavero Milanese. Tuttavia, Conte, che sembra più istruito ed edotto di questioni internazionali ed istituzionali dei suoi vice, sa che senza questa “camicia” il Paese sarebbe preda della Troika in poche settimane.
Rimangono, capaci di incutere timore, i sondaggi che danno al governo una maggioranza schiacciante del 60% dei consensi, misurata ovviamente sulla scia delle ultime elezioni1 e in un periodo storico di grande bonaccia, diremmo di “quiete prima della tempesta”, in cui gli Italiani riescono persino a compiacersi per un ministro degli Interni che fa il grosso per bloccare flussi migratori quasi inesistenti, a confronto con quanto successo nel 2015-16 a cui aveva posto una toppa il suo predecessore, l’ex PCI Minniti, un anno fa.
Già, la bonaccia e i sondaggi positivi… Solo chi non sa guardare più oltre del proprio naso non vede che l’economia manda segnali a dir poco inquietanti (calo di un terzo della crescita, picco della disoccupazione, spread ai massimi da 5 anni, imminenza dello scatto delle clausole di salvaguardia e di aumento dell’IVA, fine del Quantitave Easing ecc.), a cui il presidente Trump, sedicente amico dell’attuale maggioranza, aggiunge del suo alzando muri tariffari a danno delle imprese e del commercio. Trump è in buona compagnia nel fare sfaceli: non solo le opposizioni, ma i lavoratori e gli imprenditori da settimane si sbracciano perché il governo Conte non provochi danni all’economia comprimendo la flessibilità del mercato del lavoro, bloccando la costruzione di infrastrutture strategiche, impedendo investimenti privati in imprese strategiche con l’acqua alla gola (Alitalia, Ilva ecc.) e compromettendo imprese e enti a cui gli Italiani hanno affidato i loro risparmi di una vita (vi dicono niente INPS e Cassa depositi e prestiti?): nel far questo, trovano un muro di gomma per le loro tante lamentele.
Non che all’interno dello stesso governo manchino “grilli parlanti” saggi ma inascoltati, a partire dal ministro della Difesa Trenta (foto) che sembra capire più e meglio del suo collega agli Interni che il Paese non deve dare all’estero un’immagine di inaffidabilità nell’implementazione dei trattati, né andare nelle nazioni confinanti a dettar legge restando inascoltato (l’incontro di Salvini col collega libico avrà insegnato qualcosa?).
Nessuno, dicevamo, ha paura di avvertire il governo che non si tratta più di fare campagna elettorale, nonostante si prospetti una vittoria a mani basse in caso di elezioni anticipate, a dar retta a Piepoli e colleghi. Né mancano gli ammonimenti che, nonostante Grillo e Casaleggio annuncino la morte del parlamentarismo liberaldemocratico, prima o poi Lega e Cinque Stelle dovranno rendere conto agli elettori, mostrando al mondo se per la prima volta i sondaggisti sono stati buoni profeti o se l’amore tra i “sovranisti” e i loro elettori è durato il tempo di un’estate al mare.
Il fatto è che Salvini e Di Maio, ignorando le batoste subite da Renzi, paiono credere davvero alla loro forza elettorale: dopo tutto, pensano, Democratici e Forzisti non hanno alcun interesse a fare seriamente opposizione, dato che in caso di elezioni sarebbero ridotti ai minimi termini. Salvo, poi, stupirsi quando il neovicepresidente di Forza Italia Tajani viola l’etichetta dell’ex “partito di plastica” costringendo il leader e fondatore a non fare compromessi con la Lega sulla presidenza della RAI, a costo di perdere una parte di eletti. Dopotutto, Salvini e Di Maio puntano, nell’ipotesi che quel 60% di consensi diventasse appena il 40%, a sbranare la base elettorale dell’altro e a restare come stakeholder del sistema politico italiano. Ragionando in termini elettorali, dimenticano che le elezioni non le indicono i capi e i capetti della maggioranza, né i troll russi o americani a loro servizio, ma il Capo dello Stato, che ha già dimostrato di saper piegare gli immodesti leader della maggioranza gialloverde e che ha i poteri necessari a portarli a più miti consigli o persino a guidare una eventuale nuova crisi politica.
Insomma, chi ha vissuto la breve stagione del governo Berlusconi I, rimasto in carica per meno di sette mesi nel 1994, ha oggi l’impressione di un déjà-vu: quello di un governo debole, con i due azionisti di riferimento pronti a litigare come suocera e nuora appena le acque si faranno agitate. E con le elezioni non così vicine anche in caso di rottura: nel 1994 Scalfaro negò ostinatamente, come farebbe ora Mattarella, il ricorso alle urne… Ma ci sono anche due differenze fondamentali: le promesse elettorali di Lega e Cinque Stelle, a differenza dell’anticomunismo del Berlusconi della “discesa in campo”, hanno una data di scadenza, mentre il bilancio dello Stato - a meno di voler scassinare il salvadanaio della Cassa depositi e prestiti e rompere con l’Unione europea - oggi non permette la finanza creativa dei governi degli anni Novanta.
Insomma, un governo “povero” e impelagato nel realizzare troppe promesse elettorali, non sembra in grado di mettere a tacere le tante voti di dissenso, soprattutto alla vigilia di una manovra finanziaria per il nuovo anno in cui Conte, Salvini e Di Maio, per forza di cose, dovranno scontentare qualcuno e, volenti o nolenti, dovranno mettere le mani nelle tasche di molti2. Se, poi, lo scenario economico da poco positivo diventerà molto negativo, allora qualcuno dovrà pentirsi di non essere rimasto all’opposizione a lanciare strali contro il governo, e dovrà raccontare al Paese che ora le cose col governo del cambiamento vanno molto meglio, anche se tutto va a rotoli.
Insomma, il governo gialloverde, con la borsa piena di promesse da mantenere e il portafogli vuoto, non riesce a incutere nemmeno timori riverenziali. Ma un rapido cambiamento di scenario, possibile nel corso del 2019, con la decrescita dell’economia, l’aumento dell’inflazione e della disoccupazione, la fine del Quantitative easing e - last but not least - la conferma dello spread a livelli altissimi per periodi anche solo medio-brevi, potrebbe cambiare di molto le cose. A quel punto, le decisioni del governo, se non ben concertate con la parte produttiva del Paese ma solo con leoni da tastiera e con quella parte della popolazione che preme per un massiccio public spending, potrebbero davvero far paura. E non solo metaforicamente3.
1 Vi ricordate come i sondaggisti dettero il PD di Renzi attorno al 40% per un anno intero dopo il risultato delle elezioni europee del 2014, tanto che l’attuale senatore di Scandicci si convinse a spendere tutte le sue energie per la legge elettorale nota come Italicum, salvo poi perdere tutte le elezioni dal 2015 a oggi?
2 I militari hanno calcolato come cambierà il loro tenore di vita con i prevedibili tagli alle missioni all’estero?
3 Chi ritenesse questo articolo troppo allarmistico e “di parte”, potrebbe leggere Il Sole 24 Ore di oggi: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-08-04/nelle-sale-city-caso-b... per quanto riguarda l’allarme internazionale sui nostri conti gestiti dalla maggioranza giallo-verde.
(foto: presidenza del consiglio dei ministri)