Nei giorni in cui il capoluogo ligure è in testa a tutte le cronache in Italia e all’estero, voglio condividere con i lettori una lettera firmata da Vittorio Emanuele II il giorno 8 aprile 1849, uno dei primi documenti del suo lungo regno, nel mezzo dell’assedio di Genova:
Mio caro generale, vi ho affidato l'affare di Genova perché siete un coraggioso. Non potevate fare di meglio e meritate ogni genere di complimenti.
Spero che la nostra infelice nazione aprirà finalmente gli occhi e vedrà l'abisso in cui si era gettata a testa bassa.
Occorre molta fatica per trarla fuori ed è proprio suo malgrado che bisogna lavorare per il suo bene; che ella impari per una volta finalmente ad amare gli onesti che lavorano per la sua felicità e a odiare questa vile e infetta razza di canaglie di cui essa si fidava e nella quale, sacrificando ogni sentimento di fedeltà, ogni sentimento d'onore, essa poneva tutta la sua speranza. Dopo i nostri tristi avvenimenti, di cui avrete avuto i dettagli in seguito a un mio ordine, non so neppure io come sia riuscito in mezzo a tante difficoltà a trovarmi al punto in cui siamo.
La lettera del re di Sardegna, da poche settimane succeduto al padre Carlo Alberto, è rivolta al generale Alfonso La Marmora: a leggerla oggi, sembrerebbe essere stata scritta dal presidente Sergio Mattarella al sindaco o al prefetto di Genova, mentre ancora i soccorritori scavano tra le macerie del così detto “Ponte Morandi”. Se non facessero parte di un carteggio tra il re e il suo ufficiale nel corso della repressione dei moti rivoluzionari, dette parole sembrerebbero rivolte a una città che si è consegnata due volte “a testa bassa” nelle mani sbagliate: quelle degli amministratori che in quasi 35 anni non hanno avuto la forza morale e politica per risolvere in modo celere ed efficiente il problema infrastrutturale che ruotava attorno viadotto della A101, ma anche in quelle del popolo NIMBY (dall’inglese: not in my backyard, non nel cortile di casa mia) capeggiato e spalleggiato dal Movimento Cinque Stelle. Come dei No-TAV, No-ILVA e No-TAP ante-litteram, i No-Gronda oggi stanno a simboleggiare un Paese che non crolla, ma si lascia crollare, preoccupato più di difendere poche case costruite sotto un viadotto, piuttosto che rendere un buon servizio all’intera comunità, insomma ignorando deliberatamente il suo vero bene e la sua felicità, come scritto dal Padre del nostro Risorgimento.
Chi scrive teme che questa catastrofe rappresenterà per Genova quello che l’acqua alta record del 4 novembre 1966 fu per l’antica rivale Venezia: l’inizio di un rapido declino demografico e industriale, senza che la locale classe dirigente faccia alcunché di diverso dal semplice assecondamento della decadenza. Chi conosce Genova già teme per la situazione logistica e idrogeologica della città appena una fiumana di auto e di mezzi pesanti si riverseranno su stradino e ponticelli che dal 1967, quando fu inaugurato il famigerato viadotto, non conoscono una simile pressione. Anzi, allora proprio non c’era questo traffico di merci e di persone!
Quanto peserà, poi, sul PIL del Paese un disastro di queste proporzioni? Genova è il porto del triangolo industriale del Nord Ovest: non si sbaglia a calcolare in bei punti di PIL il valore delle merci che finiranno in questo collo di bottiglia. Nessuno dei leader di questo Paese pare preoccupato degli effetti a valanga di questo disastro, in termini di export e imprese. Anzi, dando la caccia al concessionario Autostrade per l’Italia / Atlantia2 prima della fine delle indagini hanno posto seri dubbi sulla tenuta dello Stato di diritto nel nostro Paese: un gran brutto messaggio per gli investitori stranieri, passibile di causare una fuga di capitali stranieri paragonabile a quanto è successo in Turchia negli ultimi anni con la fuga degli Americani, ben prima dell’arrivo di Trump. Il ministro degli Interni Matteo Salvini, per giunta, già latra contro gli euroburocrati che non ci permettono di spendere in deficit, ignorando bellamente il fatto che casomai i soldi per le infrastrutture ci arrivano copiosamente proprio da Bruxelles e ogni anno ne lasciamo nel piatto decine di miliardi, perché non sappiamo nemmeno progettare nuove opere: servirsi di questa fortuna non sembra essere nei piani del Governo del Cambiamento. Tra l’altro, il “contratto di governo” di grandi opere e infrastrutture ne parla il meno possibile e quando lo fa è per rinviare la discussione, dato che ai Leghisti dai tempi dei governi Berlusconi i cantieri garbano da morire, mentre ai loro soci grillini piace pensare che non si debba più costruire e che ponti, strade e acquedotti costruiti nel dopoguerra possano durare quanto il Reich dei mille anni. A chi scrive pare che la catastrofe del Ponte Morandi, oltre che la prima prova seria per il gabinetto Conte, rappresenti un punto di svolta per il Paese: stretto tra un governo statalista ma senza capitali3 e uno scenario per l’Italia mai percepito così tanto fragile dopo gli anni di ripresa sprecati dal centrosinistra, il signor Mario Rossi, italiano medio attento ai segni dei tempi, sente come non mai lo sgomento per il futuro, suo e dei suoi familiari e non vede nessuno, a Taranto come in Val di Susa, che lavori malgrado tutto per il bene dell’Italia, anche se ci giochiamo parecchi punti di PIL tra deindustrializzazione e penali. Il vicepremier Di Maio scrive sui blog “scemo chi emigra”, ma Mario Rossi è ora più tentato che mai da lasciare il Paese: pensa che non solo il ponte su cui sta guidando potrebbe crollare, ma in fondo tutta la Nazione potrebbe davvero fallire, in tutti i sensi. Forse nemmeno ai tempi della crisi del debito sovrano la prospettiva gli era parsa così tanto realistica. Che dire poi dei (pochi) giovani liguri, stavolta a rischio disoccupazione?
Attenzione: non stiamo parlando di fronte all’ennesimo scandalo della solita Italietta: il Ponte Morandi, a leggere le cronache, non era fatto di cattivo cemento, ma molto semplicemente era stato costruito -negli anni del Boom economico- in cemento armato, come centinaia di opere nelle stesse condizioni. Il che equivale a dire che aveva una data di scadenza, come lo yogurt. Una data di scadenza che è stata ignorata, da alcuni per incapacità, da altri per furore ideologico. Dai più, per ignavia, l’atteggiamento tipico di un Paese che non fa le rivoluzioni e non scende in piazza se non quando ci sono i pullman gran turismo per portare la gente a Roma con l’aria condizionata e il bagno a bordo. Tutto questo, per Mario Rossi, è un gran brutto segno: il Paese non vuol salvarsi.
Esagerazione? Beh, qualcuno può dire al nostro Mario Rossi che questa preoccupazione dello scrivente è una “favoletta”: già, come quella di duecento metri di un viadotto di due chilometri che si sbriciolano come se fossero fatti di segatura bagnata. Ora, con le macerie di Genova ancora fumanti e con tanti pensieri per la testa, il nostro Mario Rossi può solo sperare “che la nostra infelice nazione aprirà finalmente gli occhi e vedrà l'abisso in cui si era gettata a testa bassa”. Per questo, a chi scrive, piace rileggere le parole sagge e misurate del presidente Mattarella, il quale conscio che a “questo momento dell’impegno comune, per affrontare l’emergenza” seguirà “un esame serio e severo di quanto è accaduto”, non manca di affermare con forza che, nonostante l’inazione o il furore nymby dei politici, “gli italiani hanno diritto a infrastrutture moderne ed efficienti che accompagnino con sicurezza la vita di tutti i giorni. I controlli, la cultura della prevenzione e l’intelligente ammodernamento del sistema delle comunicazioni, devono essere sempre al centro dell’azione delle istituzioni pubbliche e dei concessionari privati, a tutti i livelli”.
1 https://www.corriere.it/cronache/18_agosto_14/gronda-storia-piano-che-po....
2 Per chi scrive, la revoca della concessione sembra non tanto un’operazione fattibile e seria, quanto un tentativo di non far passare da fesso chi l’ha proposta per primo e poi si è scontrato con la certezza di penali miliardarie da pagare… sull’unghia.
3 I ministri Di Maio, Salvini e Toninelli hanno attaccato la concessionaria della A10, prospettando un ritiro della licenza, ma senza spiegare bene chi pagherebbe il conto plurimiliardario dei lavori necessari in quel di Genova, se non la holding dei Benetton…
(foto: web)