Poche settimane fa mi trovavo seduto al tavolo con un imprenditore turco: la mia azienda e la sua stavano trattando una partnership per il mercato della Sublime Porta. Contravvenendo all’etichetta e avendoli finiti, non gli avevo potuto dare il biglietto da visita dove sono chiaramente indicato come founder e amministratore della mia limited company. Sapevo che lui era lo stesso per la sua, ma non avevo voluto sprecare troppo tempo in convenevoli, per andare subito al sodo. Invece, lui cincischiava, faceva domande sulla governance della mia azienda, si dilungava in discussioni sul who’s who della sua. Insomma, a un certo punto ho fatto un’inversione a U nella conversazione e mi sono dilungato nello spiegargli che sono io quello che comanda nel mio business e che è il MIO business: sono l’ultimo anello della (non molto lunga) catena di comando e non rispondo ad altri. Con sua grande soddisfazione, ha allargato la bocca a un sorriso ed ha commentato: è perfetto, siamo i due boss!
Questo excursus per pormi una domanda: ma quando i vari Minniti, Gentiloni, Salvini e Trenta sono stati in Libia negli ultimi anni, sapevano chi sono (o erano) i loro interlocutori, a chi rispondevano - a parte il popolo libico che nemmeno esiste, alla stregua di dei Belgi qualsiasi - all’interno della struttura di potere della Libia attuale e soprattutto se, anche se posti apparentemente come ultimo anello, erano davvero The Boss e, se tali, c’erano delle prospettive serie che lo sarebbero rimasti?
La domanda può anche essere posta in altri termini: stiamo trattando la Libia in un’ottica di breve periodo, negoziando con la controparte che ci fa più comodo, anche se priva di potere decisionale reale e magari a spregio di tutte le altre, puntando solo a gettare negli occhi dell’opinione pubblica il falso problema contingente dell’immigrazione clandestina ma senza una prospettiva di medio-lungo periodo, senza cioè valutare i prossimi futuri scenari del potere nella nostra ex colonia?
Chi scrive trova realistica la presa di posizione del ministro Trenta di fronte al suo omologo tripolitano:
“Condividiamo la stessa casa, il Mediterraneo, e l’Italia vuole fare di più per la stabilità della regione e del Paese. Ma condividiamo anche un problema importante: i flussi migratori che portano instabilità all’Italia e alla Libia. Occorre fermare il traffico di esseri umani e l’immigrazione irregolare. In questo senso, visto che mi ritengo una persona pragmatica, credo che l’Italia debba intensificare il suo sforzo ed è pronta a farlo, secondo le necessità e le esigenze del popolo libico”.
Piace soprattutto la seconda parte del discorso, dato che - checché ne pensino alcuni - la Libia non è uno scatolone di sabbia pieno di immigrati clandestini: oltre ad essere stata quasi un Emirato per molti anni sotto Gheddafi, è un partner economico a dir poco strategico dell’Italia, sconvolto da una guerra civile causata dall’inettitudine e dall’insipienza italiane prima ancora che dall’ingordigia del Regno Unito, della Francia e degli Stati Uniti e dalle interferenze islamiste. È un Paese in cui l’Italia ha delle responsabilità storiche, che cerchiamo da sempre di nascondere come la polvere sotto il tappeto: è per noi quello che Israele rappresenta per la Germania, per capirsi. Ma nessuno chiede il biglietto da visita all’interlocutore: andiamo a trattare con i “sindaci” di Minniti o a vendere hotspot con Salvini, ma non ci poniamo il problema del who’s who. Già, chi comanda davvero? Ebbene, il nostro barbuto ministro degli interni lo ha incontrato: ci piace pensare che se ne sia accorto, di trovarsi al cospetto di qualcuno che ha l’ultima parola, per davvero.
Chissà se Salvini, accolto al Cairo dal presidente Al Sisi in persona (mentre a Mosca Putin gli ha persino negato la stretta di mano in pubblico) ha discusso di qualcosa d’altro rispetto alla questione dei clandestini e dei terroristi? Se no, qualcuno avrebbe dovuto inserire nel suo dossier riferimenti alle risorse minerarie ed energetiche della Libia, che sono a dir poco strategiche. Dopo tutto, aveva davanti a lui The Big Boss, non solo dell’Egitto ma anche di almeno due terzi della Libia stessa: come tale, Al Sisi gli ha concesso l’alto onore di riconoscerlo come Lord Protector del governo italiano e in tal guisa lo ha accolto e onorato. Spero che Salvini se ne sia accorto e che non ci abbia parlato solo di barconi immigrati e di terroristi da rimpatriare: non capita tutti i giorni di trovarsi davanti al ragno al centro della ragnatela.