Armando Micheli
Ed. Sette Città
pp. 176
Con questa storia voglio raccontare “il mio 2 luglio 1993”, quello che ricordo di quella lunga terribile giornata, quello che ho provato nelle ore in cui ho partecipato ai combattimenti, paure, pensieri, sentimenti, ricordi, emozioni, fatti, persone, azioni... E non è stato facile far riemergere dai ricordi quello che inconsciamente era stato rimosso. Non me ne vogliano quindi coloro che si sentiranno offesi da questa mia dissertazione, perché non è mia intenzione ledere la sensibilità di nessuno, ma solo rievocare fatti e sensazioni vissute…
Il libro Somalia, Mogadiscio. Il mio 2 luglio 1993, del maggiore Armando Micheli, incursore che ha militato molti anni nel Nono Col Moschin, non è un semplice amarcord, sebbene si parli di uno di quegli episodi che l’Italia dovrebbe avere in mente, se non altro per rispetto dei soldati che facendo il loro dovere, ovunque nel mondo, tornano a casa con la consapevolezza, anche, di non aver vissuto pienamente una vita privata, di aver lasciato a casa un figlio appena nato, di aver vissuto un quid che oggi identifichiamo come stress post traumatico. Oppure feriti, ma comunque fortunati per non essere scesi da un C130 in una bara avvolta nel tricolore. E in un Paese di memoria scarsa come il nostro, di rimozione, dove l’argomento “soldati” spesso viene usato e abusato per mera e bieca politichetta, ben venga chi aiuta a ricordare l’impegno e il valore di chi, con una divisa, onora il proprio Paese, la Patria.
Somalia, Mogadiscio. Il mio 2 luglio 1993, parla dell’operazione Canguro 11 che iniziò alle prime luci dell’alba con un rastrellamento e finì con un combattimento contro le milizie somale di Aidid, che si erano fatti scudo con donne e bambini e un risultato pesantissimo tra feriti e uccisi da entrambe le parti. Ed è anche un’ulteriore dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che un vero soldato è un guerriero ma non un guerrafondaio e la differenza è sostanziale.
Il libro di Armando Micheli è un viaggio introspettivo, scritto con sensibilità virile, oltre che con ottima conoscenza della lingua italiana. Micheli è un uomo di cultura, oltre che d’arme. Aveva 25 anni, in Somalia nel ’93 e oggi, dopo altrettanti 5 lustri, ne ha 50 ed è di nuovo in Somalia, nella missione europea Eutm-S a lead italiana, ora sotto il comando del generale di brigata Matteo Spreafico.
I fatti del 2 luglio 1993 li conosciamo, mediaticamente, come la “Battaglia del Pastificio o del “check point Pasta” a Mogadiscio. Anche se di check point a Mogadiscio ce n’erano altri, ad esempio Ferro o Banca, quest’ultimo non distante dalla nostra ex ambasciata e dove i disegni nei pochi muri rimasti in piedi indicano lì un altro avamposto dei paracadutisti italiani. Il contingente italiano era, tra gli occidentali e dopo lo statunitense, quello con il maggior numero di soldati, moltissimi di leva. Per la scarsa memoria degli italiani, di cui sopra, ma non di quella americana, si ricorda Black Hawk Down e molto poco il supporto italiano, che invece fu importante anche a beneficio degli americani stessi.
“È vero, 25 anni fa ero in Somalia e il libro esce 25 anni dopo e sono di nuovo a Mogadiscio, anche se è un caso… ma sono missioni completamente diverse. Quella Onu aveva il compito di facilitare la distribuzione degli aiuti umanitari e cercare di eliminare la situazione anarchica che si era creata; oggi la missione Eutm-S è di addestramento delle locali Forze Armate, pur nelle difficoltà oggettive di aiutare a ristabilire le regole in un Paese dove la popolazione al 60% ha meno di 28 anni e ha sempre vissuto con l’anarchia, senza leggi e regole… Questi ragazzi, al tempo del colpo di Stato, non erano neanche nati…”, osserva Micheli, raggiunto al telefono. Il libro è ben strutturato e segue le cinque W del giornalismo anglosassone (Who? What? When? Where? Why?), a cui si aggiunge il Come, How?, regole usate anche in ambito militare per facilitare la spiegazione di alcuni compiti.
L’autore ricorda tutta la missione, i vari step, ma anche il momento prima, la vita da civile a Viterbo, la sua città, la scelta di arruolarsi, il suo percorso da incursore. E poi Mogadiscio, come scorta al generale Giampiero Rossi, primo comandante del contingente italiano Ibis in Somalia dal dicembre 1992 al maggio del 1993, che poi passò le consegne al generale Bruno Loi, sotto il cui comando è avvenuta la Battaglia del Pastificio. Il libro è fondamentalmente un viaggio introspettivo durato 25 anni.
“Devo essere sincero: quando ho iniziato a scrivere questo libro, ero incerto sul risultato che avrei potuto ottenere, ma il mio intento era di scrivere la storia di quegli eventi e non di come li avevo vissuti. Invece, quando ho mandato in visione la prima bozza al generale Loi, che l’ha letta e mi ha risposto in brevissimo tempo peraltro con bellissime parole, lui mi ha fatto capire quanto, in realtà, il libro fosse un’introspezione psicologica scatenata dall’esperienza somala. E per questa cosa lo ringrazio. A volte si scrive, ma non sempre sai qual è la motivazione reale che ti spinge a farlo. Loi mi ha fatto capire che lo scopo era quello di liberarmi, attraverso il raccontare, di quell’esperienza che avevo tenuto dentro…”, aggiunge Micheli.
E questo si percepisce, man mano che scorrono le pagine. Anche per questo il libro è particolare. L’autore ha il dono di farti vedere quegli accadimenti attraverso i suoi occhi, che sono filtro emotivo e professionale al tempo stesso. Se poi hai la fortuna di essere stata a Mogadiscio, riesci a contestualizzare ancora meglio, ti sembra di vedere quei ragazzi che sistemano i locali della nostra ex ambasciata, quasi senti le voci, le bestemmie, le risate, la musica malinconica e sensuale della cantante Sade che è stata la colonna sonora di Micheli in quella missione, in quelle nottate somale piene di umida calura, senza soluzione di continuità. E poi la battaglia vera e propria, la prima che ha coinvolto le nostre Forze Armate dopo quasi 50 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale.
L’autore ci racconta, anche, cosa passa nella testa di chi combatte. “Nei momenti di pausa durante le fasi del combattimento, i sentimenti che mi presero furono molteplici, ma il dominante, sarei ipocrita se non lo dicessi, era la paura. Paura di cosa? Di morire? Sì, perché no, ripeto: non sono mai stato un guerrafondaio, quindi ho sempre avuto bene in mente il significato di dover uccidere o essere ucciso. Non era un videogioco di quelli che al giorno d’oggi piacciono tanto ai ragazzi… Un solo colpo vagante avrebbe potuto terminare la mia vita distruggendo i miei progetti, le mie idee, i miei sentimenti, le mie sensazioni... Un altro sentimento dominante era una profonda sensazione di dispiacere...”. Dispiacere non solo per il padre e la madre che avrebbero perso un figlio, ma soprattutto dispiacere di non avere, all’epoca, una donna, moglie o fidanzata, che lo avrebbe rimpianto e ricordato. “Come accade oggi per la fidanzata di Stefano Paolicchi, che ancora lo ricorda con tanto amore. So che potrebbe essere inteso come egoismo, perché pensare di dedicare un così grande dolore ad una donna che avrei lasciato sola? Non lo so, ma il cervello umano è meravigliosamente e drammaticamente strano…”, scrive Micheli.
Il libro è un uscire ed entrare tra gli inizi da incursore e l’esperienza somala, tra l’addestramento e la Battaglia del Pastificio con il ricordo dei colleghi feriti. E il pensiero di quelli caduti in quel dannato 2 luglio ’93, il sergente maggiore del Col Moschin Stefano Paolicchi, il parà del 186° reggimento Folgore Pasquale Baccaro e il sottotenente dell’8° reggimento dei Lancieri di Montebello Andrea Millevoi, è una ferita ancora aperta.
“Il fulcro della narrazione è incentrato nel quinto capitolo, dedicato alla mia battaglia del Pastificio, “mia” perché racconto la mia esperienza, ma c’è una premessa nella quale ho cercato di raccontare come la Somalia era arrivata a quel punto e come io ero arrivato in Somalia, per poi descrivere la battaglia e gli eventi successivi. Quel che volevo trasmettere è quel che si poteva provare anche dal punto di vista psicologico…”.
Ecco un’altra prova, qualora ce ne fosse bisogno, che un soldato è un guerriero ma non un guerrafondaio e che per fare questo mestiere, per comandare, per portare un’arma e a volte doversi difendere e usarla, devi essere equilibrato, altrimenti è meglio che una divisa non la porti ed è opportuno che resti a casa, a fare altro.
“…Sai qual è il fatto? Che molto spesso, soprattutto quando si parla di forze speciali, non si capisce che la convinzione c’è, è ovvio, ma per l’esaltato che pensa alla guerra e alle armi non c’è posto. Tra i non addetti ai lavori ci sono tanti stereotipi e a volte anche nello stesso ambiente militare. Se tu vai fuori dalle forze speciali, se tu parli loro di incursori, pensano subito a persone preparate ma un po’ fuori norma. E quindi nel libro ho anche voluto sfatare questo modo di vedere le forze speciali. Che sono fatte, come sai, di gente che ha esperienza ed è equilibrata. È vero che a volte puoi trovare l’atteggiamento arrogante, un “similguerrafondaio” nel giovane appena qualificato, ma in genere quelli che iniziano con quella mentalità alla fine vengono cacciati, perché quello non è il giusto approccio per quel tipo di lavoro. Anche perché diventi pericoloso, per te e per gli altri. E comunque l’addestramento ti prepara anche ad essere equilibrato…”, ribadisce Micheli.
“In Somalia abbiamo avuto parecchi scontri, affrontati anche per supporto ad altri contingenti di UNOSOM, ma quello del 2 luglio è l’evento che ha impegnato di più le Forze Armate … Mi chiedi cosa mi sia rimasto? È rimasto, l’ho scritto nel libro, un’esperienza formativa professionale di altissimo livello, perché pur essendo molto giovane, la varietà di operazioni a cui ho partecipato mi ha dato modo di mettere in pratica tutto quello per cui ero stato preparato; ma anche dal punto di vista umano è stata un’esperienza fondamentale per comprendere quale lavoro mi ero scelto e a quale tipo di vita stavo andando incontro. Operare lì, in quel contesto, significava rischiare la vita, ma anche difenderti e dover eliminare altre vite e a questo ci pensi, non sei una macchina”, conclude l’autore.
C’è questo e tanto altro nel libro di Armando Micheli, ma non sveliamo oltre, perché è giusto che, chi vuole, si faccia accompagnare da lui in un viaggio che a volte è anche duro, ma sa di buono.
Giusy Federici