Ed. Longnesi
pagg. 304
“Vivendo nell’ombra, si riesce a seguire meglio lo Stato, la sicurezza dei cittadini. In realtà è una vita piena di luce. E di sacrifici, certo, però tutto questo lo facciamo molto volentieri”. C’è il carabiniere, c’è l’uomo delle forze speciali, c’è il marito e il padre. È una vita a 360 gradi quella raccontata dal comandante Alfa nel suo ultimo libro, Io vivo nell’ombra. Il comandante Alfa è uno dei fondatori del Gruppo intervento speciale, Gis, dell’Arma dei carabinieri.
Oltre quarant’anni di servizio sul campo, tanta esperienza e tanti premi, all’estero come in Italia, l’ultimo la Croce d’Oro al merito dell’Arma dei carabinieri. In giro per l’Italia a promuovere il libro, racconta di sé, della nascita del GIS (Gruppo di Intervento Speciale, ndr) ma anche della vita privata, dei ricordi di ragazzo, di come nonno Ciccio gli abbia inculcato il primo amore per la legalità e quindi la scelta di campo fatta già da bambino, contro ogni tipo di mafia. Alle sue presentazioni c’è sempre un pubblico numeroso desideroso di incontrarlo, di stringergli la mano. Molti sono giovani ed è un ottimo segnale: evidentemente, c’è ancora voglia di eroi della giustizia che diano l’esempio.
Il comandante Alfa è un uomo di gran carisma ed è un grande comunicatore, si vede che ama stare in mezzo alla gente. Ma ha dovuto imparare la solitudine e a parlare soprattutto con gli occhi: chi fa una certa scelta di vita, chi lavora in segreto per la nostra sicurezza, per l’incolumità propria e di chi gli vive accanto – perché le mafie non perdonano, mai - non può mostrare il volto, deve nasconderlo nel mephisto, il passamontagna nero che copre anche la bocca. Lo racconta lui stesso nel libro, dove la vita operativa fa il paio con quella familiare, dove l’amor di Patria è un tutt’uno con quello per gli affetti, moglie e figli in primis, e gli amici. E ci sono gli episodi, anche le rivolte pericolose e domate (una per tutte, quella del supercarcere di Trani del 1980), l’importanza di essere una squadra e sapersi muovere all’unisono, come una perfetta partitura musicale. E le tante missioni all’estero, tra cui l’Iraq e Nassiriya con gli altri incursori del Consubim e del Nono, con il ricordo dell’attentato devastante alla base Maestrale dove morirono cinque militari, il cooperante Marco Beci, il regista Stefano Rolla e dodici carabinieri tra cui Enzo Fregosi, uno dei cinque fondatori del GIS.
È una finestra su un certo mondo, quella descritto nel libro, dove chi legge riesce a immedesimarsi, quasi a seguire in presa diretta le storie, come in una sequenza cinematografica, dove però la finzione non esiste, dove è tutto vero e per niente romanzato, solo ben raccontato. Ci fa sorridere o indignare, che sia l’arresto dei carcerieri di Cesare Casella o la liberazione di altri ostaggi rapiti come la piccola Patrizia Tacchella e qui al carabiniere si aggiunge il padre, al dovere il cuore.
A Roma, evento organizzato dall'associazione SQUAD S.M.P.D., Io vivo nell’ombra è stato presentato due volte lo scorso 24 giugno: la mattina alla biblioteca Nazionale, il pomeriggio nella sala Pietro da Cortona dei musei Capitolini con la giornalista Clara Salpietro a fare da moderatrice. Partendo da quel che ha scritto, il comandante racconta storie di vita vissuta, da uomo di legge come da padre di famiglia.
“Ho scritto il libro per due motivi: il primo, perché i proventi andranno in beneficenza per i bambini del reparto oncologico dell’ospedale di Castelvetrano. Il secondo, per far conoscere meglio questi ragazzi del GIS, la loro vita, il fatto che per chi fa una scelta del genere non esiste nemmeno la gioia di andare a un concerto e goderselo fino in fondo, perché devi essere sempre pronto a partire entro trenta minuti. Per un ragazzo, è una vita veramente sacrificata. L’obiettivo è far capire agli italiani che questi ragazzi sono disposti anche a perdere la loro stessa vita per il Paese. Siamo l’unica Forza Armata (carabinieri, ndr) che lavora sul territorio, come forza di polizia, comprese le scorte ai magistrati e con gli interventi speciali, dove rischiamo molto, però acquisiamo molta esperienza”.
I GIS sono nati per volere dell’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga, con il terrorismo politico molto attivo. Il fine, ieri come oggi, è prendere i criminali possibilmente vivi, salvare gli ostaggi se ci sono, intervenire in condizioni di estremo pericolo.
“Siamo tutti paracadutisti, perché prima di accedere al GIS si passa per il reggimento del Tuscania, veniamo tutti dalla stessa formazione, quindi i ragazzi già possiedono le qualità richieste. Dopo il corso fanno un anno di esperienze sul campo”, racconta il comandante.
“Nel ’78 è iniziata la nostra storia, all’inizio “scopiazzando” le Forze speciali degli altri Paesi come israeliani, tedeschi, inglesi, americani. E pian piano siamo arrivati a farci rispettare e apprezzare in tutto il mondo e anche a insegnare le nostre tecniche. In quasi quarant’anni siamo passati dall’essere bistrattati perché italiani, quindi il solito stereotipo di pizza e mandolino, all’essere considerati al top, tanto che ora sono gli altri che copiano noi”.
Alcuni valori sono assoluti, non negoziabili. Ed è importante passare il testimone alle nuove generazioni, che però devono essere informate.
“I giovani non hanno bisogno di insegnamenti, hanno bisogno di esempi, soprattutto se parliamo di certi valori che si tramandano di generazione in generazione, il senso di Patria, l’orgoglio di essere italiani. Io vado anche nelle scuole e cerco di far capire ai ragazzi la bellezza della legalità e noi possiamo farlo, perché siamo un esempio. E i ragazzi si interessano, tanto che poi vogliono sapere che caratteristiche bisogna avere per entrare nei Gis. Io dico loro che se vogliono vivere una vita entusiasmante nonostante i tanti sacrifici, dove non ci si annoia mai, se vogliono sfidare se stessi ogni giorno, dove a ogni prova superata ce n’è già un’altra da affrontare, il GIS fa per loro”.
Spesso ci si dimentica che dentro una divisa batte un cuore. Accanto alla squadra, all’azione, al proprio dovere, c’è anche una famiglia che è tenuta a mantenere la segretezza, c’è una donna, ci sono i figli che vorrebbero gridare al mondo che il loro padre ha salvato un bambino e non possono nemmeno scriverlo nel tema di classe. Nel libro, come anche nelle parole del comandante Alfa, l’ammirazione per le donne è incondizionata.
“Tutte le donne meritano un applauso, sono il pilastro di tutto. Quando sei in zona operativa sai che devi essere pronto a fare il tuo lavoro, che cerchi di fare al meglio per poter tornare dai tuoi affetti… Oltre al senso di Patria, ai ragazzi mi piace parlare dell’importanza della donna, del rispetto che le è dovuto.
Le donne fanno fatiche enormi in ogni famiglia, figuriamoci la moglie di uno che fa il nostro mestiere e che, spesso e volentieri, a causa della nostra assenza, deve fare tutto da sola, a cominciare dall’educazione dei figli. Io ringrazio sempre mia moglie: i sacrifici che ha dovuto affrontare sono stati tanti, insieme alla preoccupazione di sapere suo marito in giro, nei teatri di guerra o nelle situazioni più difficili. E la ringrazio perché mi ha permesso di fare il mio lavoro standomi accanto. Non è una cosa semplice, né scontata. Altri miei colleghi non sono stati così fortunati, tra noi c’è una percentuale molto alta di separazioni. Devo dire che l’unico rammarico che ho è che non mi sono goduto l’infanzia dei miei figli. Me li sono trovati grandi, mi hanno anche accusato di essere stato un padre egoista ma poi, attraverso questo libro e il precedente, hanno capito delle cose di me e si sono riavvicinati, è stato importante...”.
Ai giovani va il pensiero del comandante Alfa, perché sono il futuro, perché è importante passar loro il testimone dei valori dello Stato. E perché riscoprano la bellezza dello stare insieme oltre la tecnologia, che pure è importante.
“I ragazzi oggi, con le nuove tecnologie, sono tutti dietro lo schermo del computer o del telefonino, anche per dirsi ciao e sono seduti vicini. Una volta, quando c’era meno tecnologia, si parlava di più. In realtà, mandandosi una mail invece di parlarsi, si perde tempo. Se si discute prima, è meglio. Però sul lavoro la tecnologia ci ha aiutato moltissimo. Ora, come operatore del GIS non vi posso spiegare perché, ma vi assicuro che ha semplificato delle situazioni che fino a dieci anni fa erano difficilissime. Però è importante ricordare che dietro la tecnologia c’è sempre l’uomo”.
Giusy Federici