Giampaolo Pansa
Ed. Rizzoli.
pagg. 289
Esistono storie, in Italia, non raccontate o quasi del tutto dimenticate. Storie che, invece, dovrebbero risiedere a pieno titolo nel patrimonio culturale e storico del nostro Paese e contribuire a costituire la coscienza nazionale. Ma non è così. Per chi, come me, è nato e cresciuto in Toscana, la Resistenza è considerata una vera e propria Istituzione quasi a sé stante. Ricordo che già a partire dalla scuola elementare, dove ogni anno partecipavamo alla manifestazione per la commemorazione dell’eccidio perpetrato dai nazisti nel mio paesello, ho sempre sentito descrivere i partigiani come eroi senza macchia, quasi mitici. Successivamente, la mia ordinaria esistenza è proseguita nella convinzione che la Resistenza, in un certo senso, appartenesse esclusivamente ad una precisa area politica: quella della sinistra.
A scuola, quindi, non ho mai letto alcunché sulla guerra civile italiana, sugli orrendi delitti perpetrati all'indomani della cosiddetta Liberazione, sulle tremende vendette dei “vincitori” sui “vinti” e nessuno mi ha mai parlato dei reparti di partigiani formati da ex militari o da militanti appartenenti ad aree politiche diverse dalla sinistra. Fino a quando, qualche anno fa, ho letto Il sangue dei vinti, di Giampaolo Pansa, un grande giornalista e storico, che non ha certamente bisogno di presentazioni. All'epoca se ne sentiva parlare molto, soprattutto in occasione delle sue presentazioni di tale opera, grazie alla quale si è guadagnato più di un’antipatia nella sinistra italiana, talvolta sfociata in vere e proprie contestazioni e polemiche dai toni estremi. Quindi è un autore che si ama o si odia. Personalmente lo amo, se non altro perché mi ha permesso di aprire gli occhi su un periodo che ha segnato in maniera indelebile la storia recente italiana, di cui prima non avevo sentito parlare quasi per niente. Quindi, non potevo perdermi questo libro, che affronta una delle vicende più controverse della Resistenza, degna di un romanzo. Si tratta della storia di Aldo Gastaldi, classe 1921, Sottotenente del Genio del Regio Esercito, divenuto il comandante “Bisagno” della Divisione partigiana garibaldina “Chichero”, nell'autunno del ‘43. Tale formazione ben presto divenne la più efficiente della liguria dal punto di vista militare, nonché l'unica non assoggettata all’egemonia politica comunista, che contraddistinse le formazioni partigiane della cosiddetta VI Zona. Bisagno, infatti, era un fervente credente cattolico, che rifiutó l’ingerenza politica nella propria azione di comando da qualsiasi parte provenisse e, men che meno, da quella comunista. La sua unica missione era combattere i reparti nazi-fascisti e contribuire a liberare il proprio Paese. Lo fece dimostrando di possedere un’acuta intelligenza tattica e straordinarie doti di organizzazione e di leadership. Basti pensare che, poco più che ventenne, arrivò a comandare più di mille uomini, inquadrati in piccoli distaccamenti distribuiti in un ampio territorio montano, che operavano in condizioni climatiche e logistiche spesso critiche. Un ottimo comandante militare quindi, nonchè un rigido cattolico, che mantenne una ferrea disciplina sia nell'ambito della Chichero sia nei confronti di se stesso, tanto da guadagnarsi l'appellativo di “monaco guerriero”. Nel quadro della cinica strategia del partito comunista Bisagno rappresentava una indispensabile risorsa militare ma, al tempo stesso, anche un grosso problema dal punto di vista politico: i “vincitori”, all'indomani del 25 aprile del ‘45, dovevano essere esclusivamente comunisti e non dovevano esistere ostacoli politici alla realizzazione del colpo di stato comunista in Italia. Come sappiamo, le cose andarono diversamente da quanto pianificato, soprattutto grazie alla presenza sull’italico suolo delle truppe anglo-americane, ma il “comandante bianco” pagò comunque con il proprio sangue il rifiuto di piegarsi al “partitone rosso”.
La tesi sostenuta da Pansa è quella che Gastaldi fu fatto fuori con l'inganno, in quanto ritenuto essere vicino alla Democrazia Cristiana (aspetto di cui, tuttavia, non sono stati mai trovati riscontri), nonché troppo potente dal punto di vista militare. Insomma, Bisagno era una vera e propria “spina nel fianco”, quindi venne eliminato facendolo sembrare vittima di un tragico incidente. Una circostanza tutta da chiarire: può un comandante così esperto e accorto, che é sfuggito più volte ai rastrellamenti nazi-fascisti e ad un agguato teso da parte del proprio comando, morire a causa di un banale incidente stradale dai contorni grotteschi? Dopo settant'anni la scomparsa di Bisagno, si tratta tuttora un mistero insoluto. Comunque la si pensi, è una vicenda appassionante, come consuetudine di Pansa, raccontata avvalendosi di ricerche rigorose, di documenti originali e di testimonianze dirette, sullo sfondo dell’appennino ligure e dei terribili mesi di guerra tra il ‘43 e il ‘45.
L'intera vita del Gastaldi è un mistero intrigante, che anche un esperto romanziere stenterebbe a concepire. Comandante militare dalle capacità straordinarie e rigoroso cattolico. Dotato di un fortissimo ascendente sui propri uomini ma abile anche a districarsi nei rapporti con l'ambiguo comando superiore. Personalità complessa, profonda, inconsueta per un giovane di quell'età. Risoluto nel compimento della propria missione militare, tuttavia estraneo a eccessi di violenza e giusto nei confronti dei nemici messi fuori combattimento. È una figura che merita di essere conosciuta o, ancor meglio, studiata, tanto nelle scuole, quanto negli istituti militari di formazione.
Pansa, con questa opera, ci restituisce un'altra pagina della storia recente italiana, rimossa dalla narrazione ufficiale che ha prevalso nell'ultimo dopoguerra. Ciò, rende ancor più prezioso un libro che si legge tutto d'un fiato.
Ciro Metaggiata