Arabia saudita: la lotta per la sopravvivenza

(di David Rossi)
12/09/18

La data dell’undici settembre ogni anno ci riporta alla mente come ben 15 su 19 dirottatori fossero sauditi: le polemiche, mai esaurite e portate persino nei tribunali americani, sui rapporti obliqui di esponenti della Casa al Saud col terrorismo qaedista vanno al di là di questo fatto e investono la storica “sponsorizzazione” saudita dei movimenti Jihadisti in Paesi in cui la comunità musulmana sunnita è in lotta contro forze ostili e, in generale, di quell’off-spring del regime wahabita che è il movimento salafita.

Nei media e nel dibattito politico non mancano prese di posizione contro la Nazione nemica della Libertà, dei diritti della donna, del rispetto delle religioni diverse dall’Islam sunnita nella sua forma più primitiva. Dalle parti di Riyadh, però, nessuno arrossisce per quei quindici “compagni che sbagliano” (il lettore perdoni allo scrivente il richiamo in stile anni Settanta), né per sponsorizzazioni che di fatto le cancellerie occidentali hanno ben tollerato, quando non sostenuto tramite le migliori agenzie di intelligence del mondo. In Arabia Saudita le preoccupazioni sono altre e riguardano la sopravvivenza stessa dello Stato e l’impatto sistemico di una crisi catastrofica dell’Arabia saudita. Ma andiamo per ordine…

Oggi, l’attenzione dei media e dei leader è rivolta soprattutto al Deng Xiaoping della penisola araba, quel Mohamed bin Salman che da tre anni propone al sonnolento Paese arabo un’agenda di riforme economiche e sociali da far impallidire il resto del numeroso clan, spesso riottoso ai cambiamenti quanto indeciso nel proporre alternative.

MBS, come il crown prince ama essere chiamato, non ha fatto niente di diverso da quanto succede negli altri principati e regni della Regione, non certamente retti da un consiglio tribale di diecimila membri. Infatti, ha tentato di (1) accentrare il potere a discapito degli interessi di pochi capitribù, (2) eliminare la farsa della successione a sovrani ottuagenari di fratelli ormai decrepiti, (3) creare un centro decisionale capace di governare il Paese -caratterizzato da una piramide demografica a base molto ampia, cioè con molti giovani under 18 - senza passare da assemblee del clan saudita, (4) implementare riforme suscettibili di produrre sviluppo economico vero, mobilità sociale e, in definitiva, (5) di allontanare il rischio di un’implosione della società saudita, schiacciata - da una parte - da un’élite di sfaccendati e - dall’altra - da milioni di giovani inoccupati e poco qualificati. Nel far ciò, a differenza del grande riformatore cinese, MBS ha attuato una politica estera da potenza regionale, cercando di orientare tutti i Paesi della regione secondo l’interesse di Riyadh, con l’obiettivo di evitare che qualcuno - soprattutto tra i membri del Gulf Cooperation Council - conducesse politiche lesive degli interessi del Regno saudita o, alla lunga, passibili di minarne l’esistenza. Perché se dal 2001 Riyadh è al centro dell’attenzione per le sue “sponsorizzazioni” nefaste, dal 2011 - l’anno delle così dette “primavere arabe” - non cessa di tamponare le falle di uno status quo messo in pericolo - a turno - da tanti e agguerriti challenger: l’invadenza iraniana, e negligenze americane, l’interferenza russa, il neo-ottomanesimo turco, le ambizioni e gli intrighi del Qatar (spesso in coppia con la Fratellanza musulmana), le decisioni politico-militari indipendenti - dall’Unione europea - e certe volte scriteriate di Francesi e Britannici, oltre che Daesh (lo Stato islamico), Al Qaeda e altre organizzazioni terroristiche che spesso hanno in Arabia saudita una vera e propria quinta colonna ma anche il principale nemico da abbattere. Così, da sette anni Riyadh porta avanti, per esempio, l’occupazione militare del Regno del Bahrain, permettendo alla Casa al Khalifa - sunnita - di regnare indisturbata su un Paese - formalmente democratico - a maggioranza sciita in modo tale da non offrendo alla corposa minoranza sciita presente in Arabia saudita esempi di affrancamento; allo stesso modo, i Sauditi offrono un assegno in bianco economico-politico-militare al regime del generale Al Sisi in Egitto, senza il quale Ikhwan avrebbe profittato del caos politico e dei problemi socioeconomici del Paese.

Che dire poi del sostegno economico-militare ai vari “ribelli” siriani, senza i quali Washington non avrebbe potuto giocare il big game contro Teheran e Mosca in Siria? In Libia, la partita di Riyadh e di Abu Dhabi è andata a braccetto con quella del Cairo, offrendo al governo di Tobruk e al generale Haftar un fondamento più concreto della generica amicizia degli States e dell’appoggio - interessato e ambiguo - della Francia. Un discorso a parte merita la guerra in Yemen, in cui MBS e il suo regal genitore Salman si sono gettati senza rivelare all’opinione pubblica (ma ne esiste una, nel senso occidentale, nel Paese saudita?) che non intendevano vincerla, ma solo dimostrare al mondo che anche l’Arabia saudita può combattere delle guerre e mettere in piedi alleanze, senza chiedere a qualcuno di difenderla, come era successo sempre nei settant’anni precedenti.

Chi legge obietterà allo scrivente che Riyadh a guida Salman & Son sta facendo una figura miserevole proprio nello Yemen. A questo proposito, lo scrivente vi ricorda un nome: Lissa. Il neonato Regno d’Italia non fece certo una gran figura in occasione della prima vera guerra. E l’occasione successiva, con la prima Guerra Italo-abissina e la battaglia di Adua, andò se possibile anche peggio. Eppure, nessuna delle due défaillance minò lo Stato unitario degli Italiani. La guerra “non vinta” in Yemen, insomma, dimostra che la leadership saudita ha una volontà incrollabile, nonostante limiti militari obiettivi, per altro previsti.

Insomma, dalle parti di Riyadh si può solo continuare a mettere pezze, mentre il Paese attende l’attuazione di un serio programma di riforme, quanto mai necessario per evitare la disgregazione. L’annunciato rinvio ma non la cancellazione della quotazione in borsa di Saudi Aramco sembrano andare in questa direzione. Le riforme non sono più rinviabili perché, se per gli Italiani la Libia è un’ossessione per i flussi migratori illegali, per MBS è un incubo, perché quello che è successo nello “scatolone di sabbia” libico potrebbe accadere, se il Paese non sarà “sterilizzato”, nella Penisola arabica: una guerra di tutti contro tutti, su base tribale, in una società relativamente ricca.

Proviamo a capire qual è il problema, che spinge tutti i dirigenti sauditi - non solo MBS - dal 2011 in poi a fare a spallate contro tutto e contro tutti, a volte tamponando la ferita come in Bahrain altre volte rimediando figuracce come nel caso del “quasi sequestro” - giusto un anno fa - del cittadino saudita Saad Hariri (nella foto di apertura, primo a sx), che per secondo lavoro fa il Primo ministro di uno Stato sovrano, il Libano.

Il segreto della coesione della Svizzera sta nel fatto che il Paese è diviso secondo due linee di frattura perpendicolari: Tedeschi e Francesi, da una parte; Protestanti e Cattolici, dall’altra. Questa situazione determina il fatto che uno svizzero tedesco cattolico si sentirà più vicino ai correligionari francofoni che ai Luterani germanofoni1.

In effetti, al netto dei Ticinesi e dei Romanci, le “cifre” della Svizzera parlano di una apparente maggioranza assoluta di elvetici di lingua tedesca divisa in due minoranze tra Luterani e Cattolici, evitando quello stradominio della maggioranza che ha messo in crisi Unione sovietica, Russia, Cecoslovacchia, Ucraina, Regno Unito, Spagna e Iugoslavia. Se MBS potesse cambiare le tribù di cui è costituito il regno saudita - a partire dal clan degli al Saud - che a stento è riuscito a depurare degli elementi più ostili - in due o tre gruppi etnici, come Curdi e Arabi in Siria, siamo certi che lo farebbe: poi, basterebbe - diciamolo, anche se non politically correct - deportare una o più minoranze e assegnare loro un territorio specifico e omogeneo come è accaduto nell’Europa centro-orientale al termine della Seconda guerra mondiale, per ritrovare un po’ di tranquillità. Invece, alla divisione tra Sunniti e Sciiti, tipica di tutta la regione del Golfo persico e della Penisola arabica, fa da contraltare una frammentazione, appunto, in clan, ognuno dei quali è sparso sul territorio e non concentrabile in un’area geografica.

Insomma, l’Arabia saudita somiglia più alla Libia che alla Siria. E come tale, se le crisi interne dovessero esplodere, non cesserebbe di eruttare, come un vulcano per troppi decenni in quiescenza e con un magma troppo fluido per solidificarsi di nuovo alla svelta. Purtroppo, le conseguenze di una tale crisi non sarebbero regionali - come per il caso libico - ma globali e sistemiche, con conseguenze a livello di energia, commercio, alleanze per tutti i potenti attori coinvolti.

Chi scrive si riserva, sperando di non avervi annoiato con questo, di disegnare diversi scenari per l’Arabia saudita in un prossimo articolo.

  

1 Ambasciatore Edouard Brunner, intervistato dallo scrivente nel 1999.

(foto: web / Twitter)