A differenza del generalismo, che enfatizza solo le tendenze, la geopolitica non tralascia nulla ed analizza anche ciò che apparentemente non fa notizia. Saremo impoliticamente obiettivi, senza assecondare le semplificazioni di moda, e mantenendo viva l’attenzione su un’area particolare e su quella sottile linea di confine che non può che essere rossa, come il mare che la bagna e come l’origine del nome di uno dei Paesi circoscritti, l’Eritrea.
Il Corno d’Africa rimane instabile, con forti riflessi sia in ambito continentale che in Europa. La diaspora eritrea, frenata dal sistema di sicurezza israeliano che ha precluso la direttrice verso il Sinai e che ha spostato l’asse su Etiopia e Sudan verso la Libia, interessa direttamente l’Italia.
Geostrategicamente si è acuito l’interesse dei paesi arabi, in un contesto politico in cui l’Etiopia ha flemmatizzato la possibilità di stabilizzare la Somalia, vista come un’antagonista regionale da contenere; dove l’Egitto, interessato da legami storici con i Paesi dell’area orientale, è attento a prevenire qualsiasi danno conseguente all’utilizzo delle acque del Nilo; dove il Qatar, sostenuto dall’Iran, ha continuato a supportare le fazioni anti etiopi, contrapponendosi alle altre monarchie del Golfo che, in chiave anti jihadista, hanno invece sostenuto Addis Abeba, senza tuttavia giungere alla totale eradicazione del fenomeno che, anzi, si è manifestato anche in Kenya, quale reazione agli interventi armati. Il Corno è così diventato un vettore delle forze che compromettono gli equilibri in fieri, data anche l’importanza securitaria dei traffici mercantili che transitano nella regione e che assicurano i rifornimenti da e per l’Europa, a fronte di bassi livelli di sviluppo socio-economico.
Proprio il controllo degli scali strategici ha innescato dinamiche poi tradotte in concrete proiezioni e politiche di potenza degli attori coinvolti nell’area compresa tra le coste occidentali indiane fino al Golfo di Aden ed alla strozzatura dello Stretto di Bab el Mandeb; la Cina, cercando di consolidarsi nell’Oceano Indiano e nei Mari Arabico e Rosso, aprendo la sua prima base oltremare proprio a Gibuti, il vero nuovo snodo strategico regionale, programmandone un’altra a Jiwani ed acquisendo il porto di Gwadar, ambedue in Pakistan - chiave di volta nel punto più ricco di traffici energetici -, ha suscitato i timori indiani per l’eccessiva pervasività, e ha indotto gli USA ad una politica di contrasto incentrata sugli accordi presi con l’Oman che coprono l’area compresa tra il porto di acque profonde di Duqm e quello di Salalah in modo da indebolire l’adiacenza strategica cinese tra Oman, Pakistan e Gibuti, un esperimento che ha visto partecipi anche India e UK; gli Stati del Golfo hanno tentato di elevare la loro stabilità strategica salvaguardando le vie dell’import-export interno, riducendo la dipendenza dallo Stretto di Hormuz, ed incrementando l’efficienza delle infrastrutture logistiche; per Israele, la competizione tra concorrenti contribuisce ad istituzionalizzare la presenza di attori stabili e certi lungo le rotte del Sud tra Eilat, Aqaba e Suez, ed a creare nuove opportunità volte all’esportazione di know how anche se per il momento di basso profilo, con una possibile presenza di intelligence nell’arena yemenita volta ad interdire la presenza iraniana.
La partita che si sta giocando nella regione tra Arabia Saudita, EAU - che sfruttano il peso politico della loro presenza nel porto eritreo di Assab - ed Egitto da un lato, e dall’altro Qatar e Turchia, presente con una base a Mogadiscio e volta a rafforzare la sua presenza a Gibuti e a Suakin in Sudan, non può che aumentare lo stato di tensione nell’area.
L’Eritrea nel mentre ha stretto rapporti bilaterali con il Regno Saudita, poco tempo dopo la formazione di un gruppo regionale di Paesi che si affacciano su Mar Rosso e Golfo di Aden (Egitto, Yemen, Sudan, Gibuti, Somalia e Giordania); al di là delle consuete dichiarazioni riguardanti la sicurezza della navigazione e la prevenzione delle attività terroristiche, non sono da sottovalutare le tensioni strategiche scaturenti dalla proattività regionale di Iran, Turchia e Qatar. Non c’è dubbio che Arabia Saudita ed EAU, affascinati dalla BRI, attribuiscano importanza capitale al Corno d’Africa, visto come un fianco occidentale di sicurezza, e che intendano assicurarsi libertà di accesso allo Stretto di Bab el Mandeb posto di fronte Gibuti e che collega il Mar Rosso con il Golfo di Aden e l’Oceano Indiano, senza dimenticare il perdurante conflitto yemenita e la longa manus iraniana.
Da un punto di vista geopolitico, dunque, non appare saggio trattare il Corno d’Africa come un’entità distinta dalla penisola araba, tenuto anche conto delle sfide in atto sia tra attori consolidati (Cina ed USA), sia in evidente ascesa (Russia ed India), che stanno producendo progetti ed infrastrutture portuali e logistiche a Berbera (Somaliland), a Doraleh (Gibuti), a Bosaso (Puntland), ad Assab (Eritrea), tutti aspetti considerabili nel contesto delle rivalità mediorientali e che toccano aspetti dottrinari navali; non appare nemmeno opportuno sottovalutare il dinamismo regionale che sconsiglia di trattare l’area come un blocco omogeneo, e che rammenta sempre la conflittualità etnica e tribale, la precarietà degli assetti istituzionali, la funzione strategica mutuata dalla Guerra Fredda.
Dio non riceverà mai il premio Nobel per la Pace
La nostra sottile linea rossa dopo aver circoscritto l’Africa Orientale porta ora a delimitare il teatro eritreo-somalo-etiope, uno dei migliori esempi di balcanizzazione continentale.
Privi di una visione a largo spettro sappiamo poco di quest’area; con oggettività analitica, non si può non rimarcare un’impreparazione di fondo che ha portato a rimanere concentrati su di un cortile di casa sempre più angusto, e secondo una linea politica che non considera le proiezioni longitudinali di potenza britanniche, quelle latitudinali francesi, trascura i contenziosi legati alla definizione confinaria in zone che comunque riguardano i nostri interessi (Etiopia, Eritrea, Somalia, Gibuti), evidenziando un declino del cd. metodo italiano.
Il Corno d’Africa ha vissuto un lungo periodo caratterizzato da conflitti sanguinosi e da una forma di neocolonialismo africano che ha portato l’Etiopia, alla ricerca spasmodica di un accesso al mare, ad annettere l’Eritrea, scatenando una guerra trentennale conclusa nel 1991 e nuovamente infiammatasi tra il ‘98 ed il 2000. L’Eritrea, geopoliticamente poco conosciuta ed al momento fuori dall’accordo di libero scambio di Niamey, è caratterizzata da uno dei regimi dittatoriali più rigidi del continente; dal 1993 il percorso democratico eritreo viene inficiato dalla mancata implementazione sia della Costituzione sia di un sistema politico multipartitico, con un regime rappresentato da Isaias Afewerki, di fatto Presidente perpetuo, che detiene il pieno controllo sui poteri dello Stato, ed è attorniato da una struttura di fedelissimi che gestiscono la vita amministrativa in concorrenza con il carente apparato pubblico. Il ruvido menage diplomatico eritreo, fomentando incomprensioni e conflittualità, ha autorizzato Afewerki al mantenimento di un apparato assolutistico quale unica garanzia di sicurezza nazionale, non in grado tuttavia di dirimere le relazioni internazionali.
La politica di Afewerki (nella foto, a sx), addestrato in Cina alla guerriglia ma non alla progettualità economica, allontana gli investitori stranieri, impoverisce il Paese che, pur privilegiando le spese militari, sopravvive grazie agli aiuti internazionali, gode di una limitata libertà di stampa, e attraversa una crisi sociale acuita dall’estensione del servizio militare obbligatorio, usato quale serbatoio di coscritti da utilizzare per i lavori pubblici, e volano imprudentemente ritenuto funzionale al contenimento della disoccupazione, ma di fatto generatore di una diaspora incontrollabile e comunque non così avversata, stanti i ritorni economici delle non sempre spontanee rimesse dall’estero.
Pur isolata, l’Eritrea non rinuncia ad un protagonismo privo però di concreti fondamenti, ed indossa panni secolaristi che vanno ad intaccare delicati aspetti religiosi interni sia cristiani che musulmani, nonché le relazioni con i Paesi confinanti con biunivoci e provocatori finanziamenti di gruppi insorgenti. Abiy Ahmed (nella foto, a dx), primo ministro Etiope, insignito per questo del Premio Nobel per la Pace 2019, ha introdotto un elemento di novità nel quadro generale, favorendo un inaspettato accordo di pace, a seguito del Patto di Algeri nel 2000 che ha condotto ad un periodo di no peace no war, cui hanno contribuito anche le pressioni interessate di attori internazionali, e volto a portare stabilità regionale agevolando un’indispensabile ripresa economica.
Ma quanto ci si può fidare di Asmara, che ha fondato il suo regime e le sue politiche repressive su di una conflittualità perenne che ora verrebbe meno? Anche la politica etiope si è fondata a lungo sull’aspetto securitario; tuttavia con il riconoscimento degli Accordi di Algeri Ahmed, di etnia oromo, potrebbe ora sia tentare di contenere le spinte interne delle etnie tigrina ed ahmara, centrali nella vita del Paese, aprendo così ad una nuova stagione politica fondata su una più equa distribuzione del potere, sia dal punto di vista internazionale potrebbe agevolare la stabilità regionale sotto l’egida di una nuova ed indispensabile politica marittima intesa a riaprire i porti eritrei alle merci etiopi.
Mentre per l’Eritrea, potenziale guardiana dei traffici marittimi egiziani, la pace potrebbe sanare il vulnus aperto dalla violazione dei diritti umani in patria e dal sostegno offerto ad al Shabaab in versione anti etiope, sempre a patto che intenda mutare radicalmente e concretamente la sua attuale politica, per l’Etiopia la marcia verso le coste porterebbe ad una revisione dell’impegno militare in Somalia, non solo mirato alla repressione jihadista ma anche a ribadire un’influenza finora tesa ad assicurarsi litorali e porti, senza i quali la crescita economica sarebbe destinata ad affievolirsi senza il supporto portuale gibutino, e che potrebbe ravvivarsi con lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi dell’Ogaden, già puntati dalla Cina, e con il ravvivato interessamento russo, sostenuto dal Presidente Al Sisi, durante l’ultimo summit economico tenuto in ottobre a Sochi, un evidente intento di riappropriarsi di un ruolo centrale nelle vicende africane.
Due gli spunti di riflessione paradossali, primo: malgrado la natura totalitaristica del regime eritreo, la figura di Afewerki (nella foto, a sx), se ben gestita, potrebbe addirittura uscire rafforzata alla luce delle valutazioni politiche internazionali ferme all’analisi superficiale dei fatti; secondo: forse è giunto il momento di interrogarsi sulla sostanzialità dei premi accademici: Abiy Ahmed ha in una mano il Nobel, nell’altra una potenziale crisi politico sociale interna con latenti conflitti etnici, rafforzata dalla rivalità con Jawar Mohammed, che sta provocando un calo di consensi tra i suoi stessi Oromo, ed all’ombra di spinte secessioniste e di furore religioso avverso alla Chiesa Ortodossa.
Conclusioni
Ad un anno dalla firma, l’accordo di pace del 2018 rischia di rimanere incompiuto con una normalizzazione delle relazioni che risulta poco concreta, data la mancanza di sviluppi sui 5 punti della dichiarazione.
Di fatto la riconciliazione tra Etiopia ed Eritrea, più che da improbabili illuminazioni trascendenti, è stata indotta da condizioni oggettive politiche interne ai due Paesi e dall’evoluzione politica regionale, che hanno realisticamente consigliato di addivenire a più miti intendimenti, cui però ora dovrebbero seguire azioni pragmatiche, non da ultima una effettiva riappacificazione tra Asmara e Mogadiscio, l’altro grande attore regionale tormentato dal separatismo del Somaliland e dalla sfida integralista di al Shabaab; lo status quo, starebbe dunque a dimostrare una persistente instabilità regionale priva di sviluppi securitari. Ed ora tocca brevemente all’Italia ed il suo possibile ruolo che, pur facilitato da molteplici fattori, non è stato ricoperto, dando modo di ammettere l’inesistenza di una geopolitica nazionale in Africa, una realtà testimoniata dall’esiguità numerica delle rappresentanze diplomatiche.
In un momento storico in cui la politica parla confusamente troppe lingue, dall’inglese al cinese al russo, sarebbe opportuno ricordare che la residua influenza italiana è dovuta principalmente alla capillare diplomazia dell’ENI, ma con una scarsa consapevolezza dell’interesse nazionale diretto.
Foto: NASA / U.S. Air National Guard