La querelle medio orientale ha vissuto la sua akmè negativa in coincidenza con il termine dell’anno e, soprattutto, con il delinearsi delle varie evoluzioni geopolitiche regionali che hanno di fatto reso ancora più labile la stabilità dell’area. Un’analisi della situazione trova un interessante (e quasi obbligato) start iniziale in Israele, dove il conflitto con i palestinesi risulta animato da diverse dinamiche, sia di carattere interno che estero, in grado di condizionarne lo sviluppo.
Lo scontro tra Tsahal ed il movimento armato palestinese viene attualmente combattuto sia per conquistare territorio (e preziose risorse idriche), sia per riaffermare una precisa identità e contempla un’asimmetria dell’offesa - portata dalla fazione palestinese - cui fa seguito, secondo copione, una reazione sovente sproporzionata da parte israeliana.
La situazione politica interna ai due schieramenti destabilizza ulteriormente la situazione e si fonda su elementi talvolta di difficile ed immediata comprensione per un osservatore occidentale specie se europeo.
L’ortodossia religiosa ebraica, le diverse interpretazioni su cui si sono basate le politiche di insediamento dei coloni unitamente ad eventi riguardanti la condotta di esponenti politici israeliani, la travagliata convivenza politica delle due anime di Fatah e Hamas da parte palestinese, non forniscono alcun possibile auspicio di solidità: il premier Netanyahu (foto) è politicamente indebolito da alcuni scandali finanziari che lo sfiorano, mentre Abu Mazen è usurato da una reggenza che non ha portato risultati percepibili dalla popolazione, a dimostrazione che quando le leadership si indeboliscono le crisi si acuiscono.
Se è vero che da un lato l’accordo tra Abu Mazen e Ismail Haniyeh (senza dimenticare il più integralista Yahya al-Sinwar assurto agli onori della cronaca mediorientale nel corso del 2017) consentirà all’ANP di tornare a governare Gaza, dall’altro rimane il problema della regolarizzazione e soprattutto del controllo del braccio armato di Hamas. Tenuto conto della logica che sottende sempre l’agire della Stella di Davide, non appare fuorviante ipotizzare che quel che si intende ottenere non ha nulla a che vedere con una effettiva rioccupazione di Gaza per mezzo di un conflitto inutile, quanto con un tentativo di contenere Hamas, peraltro sempre più considerato anche in Cisgiordania ma altrettanto consapevole dell’oggettiva impossibilità di gettare in mare Israele mercè l’improbabile apertura di coraniche porte infernali, dato che, finora, l’appoggio dei Paesi islamici si è concretizzato in proclami e forniture di armamenti senza fattivi coinvolgimenti bellici sul campo.
La ritualità del conflitto israelo-palestinese sembra dunque trovare maggiori spunti in un quadro geopolitico di più ampia complessità, alimentato dagli effetti collaterali della guerra combattuta in Siria, dati il rinnovato ruolo di Hezbollah, sempre meno milizia prettamente libanese, la sempre più marcata influenza russa, l’incognita kurda segnata dal referendum per l’indipendenza, unitamente ad una rinnovata assertività filo israeliana della politica estera USA. Proprio il cambiamento di rotta impresso da Washington, dopo un periodo di relativo appeasement con l’Iran, ha ridestato dinamiche solo apparentemente sopite e comunque connesse con la realtà geopolitica mediorientale. La (momentanea) sconfitta di Daesh, le spinte egemoniche e le infiltrazioni iraniane sulla linea strategica del Golan con la quanto mai opportuna interposizione russa e l’avvicinamento del Regno Saudita ad Israele (inutile mettere sbarre alle idee, avrebbe detto Metternich, le scavalcano) danno ulteriore spessore politico alla questione israelo-palestinese.
Gli USA, dopo due mandati presidenziali democratici decisamente poco orientati alla causa israeliana, sono dunque ora impegnati a ricucire i rapporti con i tradizionali alleati sunniti d’area (Arabia Saudita ed EAU), a loro volta protesi a contenere la spinta sciita operata dall’Iran. La decertificazione USA degli accordi a suo tempo sottoscritti con l’Iran al fine di favorire sia uno sviluppo nucleare che un allentamento dei vincoli imposti all’import-export degli armamenti, ha reso più volitivo Israele che, da tempo, sta attuando una politica di contenimento attivo degli apprestamenti dei Guardiani della Rivoluzione attestati lungo il confine siriano. Con la rimarchevole ed accertata attività degli ayatollah a favore degli Hezbollah libanesi e degli Huthi yemeniti, e preso atto del ritorno sulla scena politica internazionale della Russia che tuttavia è cosciente dell’indispensabilità dell’Iran quale elemento politico regionale di base, non è difficile comprendere lo scenario strategico disegnato dal CSM israeliano, generale Eisenkot, forte anche dell’appoggio militare e tecnologico prestato dall’alleato a stelle e strisce con batterie missilistiche e nuove forze aeree fondate sull’acquisizione degli F35 in versione potenziata, nonché promotore di recentissime esercitazioni aeree internazionali senza precedenti (si vis pacem para bellum?). Eisenkot è stato crystal clear nella sua disamina strategica, estremamente vicina alla vision saudita: l’Iran sta giocando un ruolo di primo piano in tutta l’area mediorientale, sta fornendo un imprinting ideologico nel tentativo di realizzare un controllo egemonico della regione grazie alla costruzione di due mezzelune sciite: una che parte dall’Iran ed attraverso l’Iraq arriva in Siria e Libano; la seconda che muove dal Bahrein, passa per lo Yemen e giunge fino al Mar Rosso. Il mutamento strategico iraniano ha portato alla condivisione di know how tecnologico con il Partito di Dio e ha permesso la realizzazione in house di armi più sofisticate. Comprensibile quindi l’allarmato pragmatismo israeliano che, memore dell’ultimo cambiamento di strategia di Hez che tanto lo ha posto in difficoltà in termini di combattimento convenzionale, ha condotto a strikes sulle linee di rifornimento iraniane in Siria – con il silente placet russo - e ad una visione congiunta con i sauditi, del resto mai pienamente coinvolti nella vicenda palestinese e che anzi si stanno facendo portavoce per determinare una posizione unitaria e contraria a Teheran in seno alla Lega Araba.
Alla linea saudita pro Israele non possono essere certo estranee né la componente finanziaria, che vede protagonista il destino del mercato petrolifero mondiale, unitamente alla rimarchevole disponibilità di giacimenti di gas del Qatar, Paese ostaggio dei due contendenti, né la plausibilità di un disegno strategico che vuole uno spostamento del confronto tra sciiti e sunniti dal teatro siriano a quello libanese.
Può Israele attaccare preemptively il Libano apparentemente sempre più succube del gruppo sciita e, soprattutto, gli impianti nucleari iraniani? Da un punto di vista puramente strategico impegnare Hezbollah su di un fronte mentre ce n’è ancora, di fatto, un altro dinamicamente aperto in Siria e mentre gli USA si adoperano per una fattiva copertura diplomatica utile ad un inedito avvicinamento con Riad – il cui a breve monarca mostra un’assertività anti iraniana senza precedenti - potrebbe essere pagante, specie per annichilire il confronto a lungo raggio con Hez. In questo contesto così variegato va considerato un aspetto tecnologico che non sarebbe saggio sottovalutare, ovvero il progettato (e finanziato) potenziamento della Cenerentola delle FFAA israeliane, la Marina, con battelli tedeschi Dolphin in grado di lanciare – opportunamente modificati - fino a 16 missili da crociera.
Ritornando ad aspetti più strettamente politici (e non meno importanti), rimane da valutare acriticamente (e realisticamente) l’effetto del sasso statunitense lanciato nello stagno gerosolimitano. L’annunciato trasferimento dell’ambasciata USA, con il contestuale riconoscimento di Gerusalemme quale Capitale dello Stato ebraico, ha movimentato una situazione che, quale ossimoro geopolitico, nella sua esplosività è rimasta a lungo cristallizzata. L’attuale amministrazione americana ha interpretato pragmaticamente gli eventi, seguendo le già manifeste inclinazioni di un presidente che, di fatto, ha dato vigore ad una scelta sovrana del Congresso votata nel 1995 in piena era Clinton. La risoluzione ONU, opportunamente enfatizzata, se da un lato ha stigmatizzato la decisione americana, dall’altro ha dato mostra di una retorica di fatto inconcludente, alla luce del fatto che, mai come ora, gli USA hanno mostrato una coerenza (magari non condivisibile ma realistica) volutamente non perseguita dalle precedenti amministrazioni; all’atto pratico nulla è mutato e la causa palestinese è stata di fatto nuovamente immolata, dai suoi stessi più strenui difensori, sull’altare della ragion di stato e degli indispensabili fondi erogati dalla FED.
Ben più concreta, ma meno reclamizzata, è stata la risoluzione adottata dall’Organizzazione della Conferenza Islamica – dominata dall’Arabia Saudita - che, con l’individuazione di Gerusalemme est quale Capitale palestinese, pone la soluzione del conflitto nell’ottica della costituzione di due distinti Stati. Se l’Arabia Saudita intende avvalersi del sostegno israelo-statunitense in chiave anti iraniana, non può che evitare di contrastare con forza la linea Trump; del resto anche gli altri due più rilevanti soggetti politici regionali, Turchia ed Egitto, al di là delle inevitabili posizioni ufficiali, sembrano aver optato per linee di realpolitik votate ad una concreta e fattiva oggettività tesa ad evitare ulteriori attriti con Israele e Washington.
Come si pone l’Occidente di fronte a questo panorama? In modo contrastante, con una politica talvolta miope, che non comprende appieno l’importanza Saudita, che essa piaccia o meno, e che continua ad appoggiarsi ad un’ideologia liberal non scevra da difetti, come la diffusa ed ingenerata instabilità mediorientale sta a dimostrare.
Conclusioni: il mondo è davvero in vendita come asserito in sede ONU dall’ambasciatore venezuelano? Nihil sub sole novi; il pragmatismo ed il realismo nelle relazioni internazionali continuano ad indicare strade e percorsi che, privi di edulcorante ideologia, possono anche repellere ma che, di certo, continuano ad avere la loro oggettiva importanza.
(foto: Israel Defense Forces / U.S. Marine Corps)