La Giordania negli ultimi mesi ha vissuto – e sta vivendo – una situazione politica interna che, suo malgrado, si ripercuote in ambito regionale e, più diffusamente, in quello internazionale. Con un debito pubblico di circa 40 Mld di dollari, quasi pari al suo PIL, una disoccupazione attestata al 18% e più di 1 milione di profughi siriani su una popolazione stanziale che non supera i 10 milioni di abitanti, il regno hascemita sta vivendo la crisi economica più profonda della sua storia, una contingenza assolutamente non marginale per uno Stato che della stabilità ha fatto il suo biglietto da visita.
Creata come Stato cuscinetto in grado di assorbire le tensioni generate dai Paesi circostanti, la Giordania si trova nella necessità costante di dover assumere decisioni che le permettano di continuare ad essere la garanzia “vivente” di un’anomala stabilità geopolitica in un contesto magmatico ed in continua evoluzione. Le recenti proteste popolari che hanno condotto alla destituzione del premier Mulki trovano origine in una crisi economica causata da diversi fattori, alcuni contingenti altri di carattere sistemico, ed a cui il successore Razzaz, pur respingendo le precedenti iniziative liberiste, non sembra aver trovato soluzione.
La Giordania, per la sua posizione geografica e per i suoi trascorsi storici, può essere definita come un rentier state, dove la rendita che le è stata finora assicurata non deriva da risorse naturali di cui è sprovvista, ma dalla rilevanza strategica che le è connaturata e la cui importanza, sapientemente, viene di volta in volta riportata alla memoria dai moti di piazza. La sopravvivenza economica, dunque, è provenuta e proviene tutt’ora dal sostegno assicurato dai quei soggetti politici che, nel tempo, più hanno fatto affidamento sull’abilità della monarchia hascemita di proporsi per mediazioni altrimenti impervie, e che hanno condotto la Giordania a rivestire una rilevanza internazionale. L’evoluzione delle dinamiche d’area, tuttavia, ha reso estremamente più complessa la quadratura dei problemi di bilancio.
Che la Giordania abbia un costante bisogno di risorse estere è conclamato, che tali risorse possano continuare ad affluire con la stessa facilità, è molto meno certo. La storica stabilità giordana si scontra dunque con dinamiche che, già nel 2011, hanno condotto alle Primavere arabe e che, stanti le difficoltà patologiche dei governi nord africani e medio orientali nella gestione dei bilanci e nella lotta al fenomeno endemico della corruzione e del “sistema delle mance”, costituiscono ancora un ideale brodo di coltura per i movimenti più radicali.
Re Abdallah, a differenza degli altri governanti, ha saputo muoversi politicamente in modo avveduto, applicando il principio del divide et impera, parcellizzando le forze di opposizione impegnate nel tentativo di indebolire il rapporto intercorrente tra le entità tribali e la Monarchia, adottando parte delle riforme istituzionali invocate dalla popolazione in modo da evitare pericolose radicalizzazioni e spostando il focus sulla natura degli appartenenti all’IS, definiti hawarig, fuorilegge, avulsi dunque dal contesto dell’Islam propriamente detto; ciò a cui non ha potuto opporsi è stato l’intervento del FMI, che ha costretto il governo a decisioni drastiche ma necessarie nell’ottica del rientro del prestito concesso. Strategie per un’uscita indolore non sembrano sussistere, se non riuscire a modificare profondamente dall’interno le basi su cui poggia lo Stato Giordano, che deve comunque fare i conti con i problemi che la composizione sociale del suo popolo comporta, e continuando ad adottare una politica estera si mediatrice ma anche oggettivamente propositiva, pena un’uscita di scena foriera di chiusure di linee di credito finanziario.
Il Regno presenta una sensibile frattura tra Giordani e Giordano Palestinesi, una faglia cui il Governo non sembra voler porre rimedio fin dal 1970, e che si riflette anche nelle attività economiche, laddove gli impieghi pubblici rimangono appannaggio dei primi, lasciando ai secondi il settore privato fisiologicamente debole e soggetto a crisi sistemiche sempre più pesanti. La presenza di profughi dallo Yemen, dall’Iraq e soprattutto dalla Siria, alterando la situazione demografica, aggrava un quadro di per sé molto delicato; la carenza di risorse economiche endogene, associate ad un calo delle esportazioni dovuto agli eventi bellici siriani ed irakeni, non può dunque che rendere ancora più problematica la situazione.
Economia, società solo apparentemente omogenea che vede la popolazione autoctona in difficoltà demografica, sicurezza interna garantita con un sistema di controllo che non può lasciare spazio al dissenso, rapporti con i maggiori attori politici regionali e globali: queste le sfide che attendono la Giordania, imprese che vincolano strettamente le esigenze strategiche al mantenimento di rapporti capaci di continuare ad assicurare flussi ininterrotti di fondi giustificati dalle spese da affrontare sia per azioni più strettamente belliche, anche se talvolta giudicate, per esempio da parte saudita, “insufficienti” come nello Yemen, sia per il contenimento delle ondate migratorie. La dipendenza dagli aiuti esterni, provenienti principalmente dal FMI, dagli USA, dai Sauditi che controllano di fatto il Consiglio di Cooperazione del Golfo, dagli Emirati e dal Kuwait, è dunque condizionante in tema di politica internazionale, una “soggezione finanziaria” che, per i prossimi anni, ha garantito entrate pari a 2,5 Mld. di dollari. La necessità di ampliare lo spettro degli introiti impone quindi delle ricalibrazioni non solo finanziarie ma anche in termini di allineamenti internazionali, con l’apertura a nuovi mercati e nuovi partner, come l’India e la Cina, che già utilizza gli scali del porto di Aqaba.
Pur essendo l’unico Stato arabo, con l’Egitto, ad aver sottoscritto un trattato di pace con Israele, la Giordania non ha potuto esimersi dal prendere posizione contraria allo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme; è importante a tal proposito rammentare che la stabilità del Regno non può prescindere dalla fedeltà alla monarchia hascemita che, facendo risalire la sua ascendenza alla stirpe del Profeta, non può recedere dal dovere della custodia dei luoghi sacri di Gerusalemme, prerogativa che, in funzione delle decisioni assunte, ha tuttavia posto in contrapposizione Amman con l’asse che vede allineati USA, Arabia Saudita ed Israele, nel loro tentativo di contenimento dell’espansione della mezzaluna sciita.
L’equilibrio politico per Re Abdallah diventa esercizio particolarmente difficile ma essenziale per tutta la regione, specie se posto in relazione alla preoccupazione per la politica saudita, mai così assertiva e con cui storicamente le relazioni non sono mai state agevoli; al non aver voluto partecipare al regime sanzionatorio contro il Qatar, che rimane uno dei più forti investitori in Giordania; al cauto riavvicinamento alla Repubblica Iraniana, il cui isolamento è stato definito “controproducente”. Tuttavia, è stata proprio l’usualità con la realpolitik che, infine, ha indotto il Re a negoziare accordi con Israele per future forniture energetiche di gas naturale ad integrazione di quanto faticosamente fornito dall’Egitto in difficoltà nel contrasto agli attacchi ai gasdotti nel Sinai, area di cui Amman auspica una più forte militarizzazione, e ad optare per un rapporto commerciale privilegiato con Ryad anziché con Ankara, indice del rifiuto giordano della polarizzazione regionale turca e qatarina intesa a sostenere la Fratellanza Musulmana, ispiratrice del principale gruppo politico di opposizione, l’Islamic Action Front.
Anche il conflitto siriano ha visto all’opera la lungimiranza giordana che, tesa a proteggere la propria sovranità, ha provveduto a controllare con un’intelligence attenta ed attiva le attività dell’IS, ha evitato un confronto diretto nel sud della Siria, giustamente valutato come una rischiosa forma di logoramento e, resistendo alle pressioni saudite, ha attentamente evitato di chiedere la deposizione di Assad, ipotetico e rinnovato partner commerciale del futuro, quale chiave di volta per la cessazione delle ostilità. Tale politica ha permesso ad Amman di riproporsi quale intermediario tra l’asse saudita – statunitense, e la Federazione Russa, che ha ben compreso la rilevanza hascemita. Non a caso, Abdallah, ha ritenuto opportuno evidenziare come i 3 dossier che pongono in contrasto l’Occidente con la Russia, ovvero Siria, Crimea e Libia procedano parallelamente, e che un compromesso sulla querelle di Crimea agevolerebbe la soluzione del conflitto in Siria.
Pragmatismo, razionalità ed abilità politica, hanno dunque fatto ben capire come la Giordania, malgrado le difficoltà interne, non intenda abdicare al suo ruolo politico d’area, continuando ad interpretare fattivamente le parti di mediatrice senza mai venir meno all’alleanza occidentale.
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