Ponendosi da una prospettiva occidentale non è facile comprendere il MO: cultura e tradizione politica differenti richiedono diverse e non agevoli chiavi interpretative.
La Turchia è geograficamente un ponte, il passaggio tra Europa, Asia e MO, il punto dove si sono confrontati la κυβέρνησις greca, l’arte del governo delle città che hanno fatto la storia del pensiero politico occidentale, con le forme assolutiste d’oriente. La svolta politica impressa dall’AKP, il partito islamista al potere, ha variato ormai da tempo gli equilibri interni ed esterni di un Paese indotto sia alla revisione della struttura laica delle istituzioni, sia alla concretizzazione del concetto di profondità strategica di Ahmet Davutoglu, peraltro giubilato dal suo stesso partito, in un’area tradizionalmente travagliata.
Benchè sia noto in Occidente come Sultano, dunque con una carica più attinente al potere secolare, già dal 2014 Erdoğan non ha fatto mistero dell’intenzione di ricreare di fatto una sorta di Califfato Ottomano, dove il Califfo è un Profeta inviato da Dio per garantire il giusto governo islamico; un leader a tutto tondo quindi, e non solo in un’accezione laica. È dunque necessario tenere presente l’aspetto simbolico di un’affermazione che, in Turchia, ha un valore non solo religioso ma anche sostanziale, e che permette al Presidente, forte della riforma istituzionale che accentra di fatto in lui i maggiori poteri dello Stato, di governare infrangendo equilibri ed alleanze consolidate per forgiarne altre, altrimenti impensabili, ispirate da quella che appare come una missione dove misticismo e pragmatismo si fondono per dare vita ad una realpolitik sempre più destabilizzante.
Lo spirito kemalista, anche a seguito delle epurazioni post colpo di Stato del 2016, sembra essere fortemente indebolito, e ha lasciato il proscenio sia all’avversione per il mondo occidentale, sia alla creazione di un’industria nazionale basata su tecnologia estera e fondata sul principio di know who e non su quello di know how. Si è ripetuta, in forma islamica, la creazione kemalista di una nuova società formata nelle scuole religiose, ed indirizzata al sostegno di un’unione di Stati islamici, una società meno occidentalizzata e più pia.
L’erdoganesimo non vive solo di questo; l’aspetto strategico dell’economia turca, malgrado le tare che ne condizionano lo sviluppo a medio e lungo termine punta, nelle intenzioni, ad occupare una posizione di peso tra le prime 10 economie del mondo, incrementando la domanda interna con un export indirizzato verso mercati amici, e sviluppando rapporti bilaterali con pagamenti in valuta locale secondo i dettami della finanza islamica, caratterizzata da bassi tassi di interesse, svalutazione, diminuzione della capacità di acquisto di prodotti occidentali e più agevoli aperture di credito con limitate possibilità speculative.
L’apertura verso i movimenti di estrema destra, volta a consolidare il consenso, sta infine a testimoniare una spiccata capacità trasformista che rafforza l’allontanamento dall’Occidente e spinge per una solida integrazione verso l’Eurasia, una sollecitazione che ha portato a promuovere politiche talvolta trascendenti i confini nazionali, come accaduto in Siria o durante le ultime campagne elettorali.
L’Europa così forte finanziariamente, così fragile politicamente, farebbe forse bene a considerare che i cittadini Turchi residenti entro i suoi confini - anche con doppia cittadinanza - sono circa 3 milioni: una forza politica da non trascurare.
Colpi di Stato e PIL
La Turchia aspira all’indipendenza politica nelle relazioni internazionali; pretende di essere nuova, anche se talvolta tacciata di revisionismo dagli altri Paesi medio orientali; mal sopporta i vincoli imposti dall’Alleanza Atlantica; continua a considerare i Curdi come Turchi di montagna e non un’entità etnica e politica a sé stante; soffre qualsiasi rimando storico alla vicenda armena, scomoda come e quanto lo è il Dalai Lama per la Cina.
La scansione del tempo politico turco è ritmata dagli interventi kemalisti delle FFAA, ma senza perdere di vista i dettagli, mai poco rilevanti. Nel 2003 l’Operazione Balyoz Harekâtı, con la presunta presenza dell’organizzazione kemalista Ergenekon può essere considerata come un’antesignana del controverso tentativo eversivo del 2016, ma con significativi punti di differenza. Nel 2015 la gran parte dei congiurati viene assolta, ed Erdoğan nel 2016, consente reintegro e reimpiego degli eurasians anti occidentali di spicco: non si può escludere la presenza di tali elementi in Libia, né tanto meno in azioni volte a condizionare il quadro politico ed economico dell’Eastmed, una zona che si proietta fino alla ZEE cipriota e che presenta immense diponibilità di gas naturale. A questo va aggiunto il quadro determinato dalla situazione economica nazionale, quanto mai magmatica e condizionata dalle scelte politiche erdoğaniane; le ritorsioni daziarie americane non possono essere infatti disgiunte dall’acquisizione del sistema d’arma missilistico S-400 di produzione russa e dalla conseguente estromissione dal programma F35, un segnale che ha indotto Moody’s a lanciare un allarme su un possibile downgrade con outlook negativo, date le difficili relazioni diplomatiche.
Pur non presentando apparenti problemi di debito sovrano, che nel rapporto con il PIL nazionale si attestava a meno del 30%, la Turchia continua ad avere una forte esposizione verso l’estero, con un’economia condizionata dai finanziamenti d’oltre frontiera, con una politica estera ed economica che intimorisce gli investitori e che tenta di controllare i capitali in fuga. Annunciare l’istituzione di una propria agenzia di rating, alla luce dell’imposto controllo politico della Banca Centrale, sembra seguire la linea politica dell’acquaiolo, per il quale il dissetante da lui venduto, a fronte di quello propinato da altri, non può che essere più fresco della neve.
L’Europa non può ignorare la situazione: un eventuale collasso turco si aggiungerebbe alle tensioni commerciali sino americane ed al fattore Brexit, una crisi potenzialmente così dirompente dall’aver già influenzato il rallentamento del PIL tedesco.
Il miracolo economico turco, in sintesi, non avendo mai poggiato su basi solide, si sta dissolvendo: Erdoğan, malgrado gli investimenti sulle infrastrutture e la fede nell’aiuto divino - che non ha tuttavia impedito la sconfitta elettorale nella strategica Istanbul -, non è Keynes.
Altrettanto paradossale e politicamente intollerabile, la valutazione sul debito a lungo termine stilata da Fitch, che equipara la Turchia alla rivale Grecia, data tuttavia in ripresa.
Panorami nucleari
Le aree MENA/Golfo Persico, già dal 2007, hanno assistito alle dichiarazioni di almeno 13 Stati interessati all’energia nucleare, stimolati dall’annuncio iraniano del riavvio del programma di arricchimento dell’uranio. L’ambiguità dell’impresa risiede nella natura della tecnologia utilizzata, che rende molto affine lo sviluppo dei programmi militare e civile. EAU, Egitto, Qatar, Giordania (Paese con ingenti quantità di uranio), ed Arabia Saudita, già da tempo, pur adducendo motivazioni economiche, hanno dunque inteso dare un segnale sia a Teheran, perché non si ritenesse l’unica depositaria della potenza nucleare d’area, sia agli USA per sollecitare o un ombrello nucleare, o unicamente per riaffermare, come Riyad, una libertà politica e negoziale sovrana.
Che gli utilizzi civili siano economicamente convenienti in termini di diversificazione economica, di sicurezza energetica e di produzione d’acqua dolce è vero, che l’uranio arricchito si sposi bene con la testata di un missile balistico lo è però altrettanto.
L’Egitto non può e non vuole rimanere indietro in questa competizione: lo sviluppo nucleare è una sfida cui non intende sottrarsi, anche per invertire la tendenza che potrebbe vederlo, in termini competitivi, più arretrato rispetto a Paesi tradizionalmente meno evoluti, e soprattutto impegnati nella protezione della Fratellanza Musulmana.
Da rammentare l’attivismo russo, francese e sud coreano in termini di assistenza, progettazione e realizzazione delle centrali.
Mancano due attori di spessore: Israele, che non ha mai ammesso il possesso di testate atomiche, e proprio la Turchia secondo cui “non esiste una nazione sviluppata che non abbia armi nucleari”, affermazione erdoganamente imprecisa1, ma tesa a pungolare lo Stato Ebraico.
La prossima costruzione delle centrali nucleari a Sinope ed Akkuyu, cui è interessata la Rosatom russa, è un chiaro segnale di volitività e di proiezione di potenza in ambiti anche più estesi rispetto a quello regionale; da notare che, se Ankara sarà gioco forza costretta ad acquistare l’uranio moscovita, alla dipendenza dal gas russo sostituirà quella nucleare, soddisfacendo l’esigenza energetica nazionale secondo una percentuale comunque non pienamente confacente alle sue necessità civili: il classico matrimonio d’interesse.
Il possesso dell’arma atomica non è dunque solo espressione di potenza, ma certezza di essere considerati quali validi interlocutori. Se l’Iran sciita è temibile, perché non può esserlo la Turchia sunnita, soprattutto quando l’ebraica Gerusalemme sembra esserlo già da tempo pur non avendo aderito a trattati anti proliferazione, essendo rimasta ferma ad una politica di ambigua opacità nucleare?
Nobiltà nucleare
Malgrado il bacino Mediterraneo sia ristretto, le dinamiche che vi si susseguono continuano ad avere una rilevanza globale. Al netto delle motivazioni religiose, la Turchia sgomita per conquistare il suo posto al sole, affrancata dalla vincolante tutela occidentale della NATO, volta verso oriente quale jolly politico indipendente ed in cerca di integrazione anche nella Shangai Cooperation Organization. Povera di risorse, è di fatto l’unico Paese che, nel bacino est del Mediterraneo, non ha rinvenuto proprie risorse energetiche; l’Eastmed, per uno Stato che punta a diventare l’hub energetico d’area, è inevitabilmente diventato come una cristalleria in cui non ci si riesce a muovere se non maldestramente, continuando a confidare nell’inanità di un‘Europa sotto schiaffo per il retribuito controllo migratorio dalla Siria, e con un’isola - Cipro - vessata e soggetta dal 1974 ad uno status politico non riconosciuto dalla comunità internazionale.
La presenza di un arsenale nucleare nelle disponibilità di un potere che fonda il suo motivo d’essere su basi religiose e trascendenti e con un posizionamento a geometria variabile sullo scacchiere globale, potrebbe indurre a più di una preoccupazione. Quel che è certo è che i detentori storici dei sistemi d’arma nucleari godono di una rendita di posizione e di una leadership che, noblesse oblige, difficilmente condivideranno.
La Turchia manca di preparazione e mezzi, e sembra essere ricca di retorica e di rischi per l’Europa, che uscirebbe indubbiamente indebolita da un passaggio politico turco ad est; al netto dei contingenti trasformismi politici, l’intervento divino potrebbe rivelarsi dunque non più così risolutivo per nessuno.
1 Quasi nessuna nazione sviluppata ha armi nucleari ad eccezione di quelle autorizzate da trattati internazionali (USA, Russia, UK, Francia e Cina). India, Pakistan, Corea del Nord hanno armi nucleari ma non hanno firmato il trattato di non proliferazione come invece fatto dalla Turchia.
Foto: Presidency of the Republic of Turkey / Türk Silahlı Kuvvetleri