Iraq: Riflessi di un tempo passato

(di Gino Lanzara)
14/01/19

L’Iraq è un’intercapedine geopolitica; gli inglesi si avvidero subito di due elementi fondamentali: il petrolio e la posizione strategica che faceva del Paese un punto di giunzione tra il Golfo Persico ed i collegamenti con Mediterraneo ed Asia e, successivamente, un soggetto politico caratterizzante del confronto bipolare mediorientale durante la Guerra Fredda.

Dal 1958, con la caduta della monarchia hashemita filo britannica e l’ascesa del Baathismo, grazie anche ad un significativo riarmo, l’Iraq è assurto al ruolo di antagonista dell’intero MO, in rivalità con Israele, Turchia, Arabia Saudita e soprattutto Iran, contro cui ha combattuto una delle guerre più sanguinose del XX Secolo. Prima la sconfitta nella Guerra del Golfo del ‘91, poi l’invasione USA nel 2003 (causa del definitivo annichilimento politico iraqeno), hanno esaltato la competizione persiano–israeliana ed accentuato il vuoto di potere istituzionale, aggravato dall’insensata epurazione dell’apparato statale operata dagli americani, stolidi artefici di una crisi su base etno-confessionale.

Terra di passaggio, terra di diverse etnie; a nord i Curdi reclamano un’autonomia sempre repressa per i timori turco–iraniani di un incontrollabile effetto domino entro i propri confini; a sud – zona di interesse strategico petrolifero – gli Sciiti, agevolati dalla proiezione di potenza Persiana, stanno facendo valere il loro peso demografico; al centro i Sunniti, estromessi dall’esercizio del potere e volti all’apporto dell’insorgenza Jihadista.

La guerra a Daesh ha fornito agli attori regionali le motivazioni per le proprie strategie, con i Curdi impegnati ad estendere i propri territori e protesi verso un referendum autonomista rivelatosi controproducente; con l’Iran volto a proiettare la propria influenza fino al Mediterraneo passando da Siria e Libano; con la Turchia, forte di basi oltre i propri confini, ed impegnata nel contenimento del PKK Curdo.

L’Iraq sta vivendo un periodo di transizione i cui risultati sono ancora difficili da delineare, ma che portano a considerare il processo istituzionale come un laboratorio di compromesso tra forze politiche locali e regionali. Sebbene la condivisione del potere sia pratica usuale in un sistema parlamentare, il problema risiede nella natura dei partiti iracheni, dato che la maggior parte delle compagini sono entità patrimoniali raggruppate attorno a una figura o famiglia dominante, e che tendono ad utilizzare l’esecutivo per sostenere le loro reti protettive, indebolendo l’attuazione di politiche anti-corruttive.

Dalle ceneri

L’Iraq di fatto è stato oggetto di una debellatio, di un azzeramento istituzionale e dell’insediamento dell’entità para statuale di Daesh, che ne ha messo in discussione la stessa esistenza. Reduce dalla (apparente) vittoria sullo Stato Islamico, peraltro ora votato alla guerriglia in una fascia geografica che si estende fino in Siria (il Siraq jihadista) e pronto a sfruttare il vuoto che si produrrebbe con un ritiro americano in Siria, l’Iraq cerca una difficile stabilizzazione sanzionata dalle elezioni parlamentari del 2018. Le urne, tuttavia, non hanno consegnato un risultato netto: nessuna alleanza politica è riuscita ad assicurarsi una maggioranza in chiave governativa, ed addirittura la consueta divisione etnica (sciiti, sunniti e curdi) ha mostrato, internamente agli stessi schieramenti, scissioni tali da indirizzare la scelta del primo ministro su di un candidato “indipendente” e politicamente “emarginato”, lo sciita Adil Abdil Mahdi, “benedetto” dall’Ayatollah Al Sistani ed espressione elettorale di compromesso e di un malessere che ha evidenziato la distanza che esiste tra le fazioni politiche ed un elettorato ancora poco incline ad una fiducia post Baathista. Gli esordi non sono stati facili, e la formazione del governo si è rivelata di rara complessità.

Il revanchismo sunnita; i moti sciiti a Bassora, città dalle grandi potenzialità portuali ma penalizzata da malgoverno e corruzione; la volitività Curda, che ha tuttavia visto scemare il suo controllo dei pozzi petroliferi di Kirkuk, hanno determinato seri impedimenti nel superamento delle limitazioni settarie. La difficoltà del primo ministro nel convincere il movimento sciita nazionalista di Moqtada al Sadr e l’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK) a votare per i propri candidati, si è associata ad un calo della fiducia verso Mahdi, sprovvisto di una propria coalizione politica ma comunque intenzionato a trasformare l’Iraq da rentier state a soggetto economico produttivo. Il quadro politico del 2019 potrebbe dunque essere caratterizzato da proteste, causate dalla cronica mancanza di servizi e dalla carenza di acqua ed elettricità (specie dopo il riempimento di dighe da parte della Turchia), fomentate dai sadristi con conseguente caduta dell’esecutivo. L’ottimismo nutrito da alcuni si basa sulla presunzione per cui non è né immaginabile né auspicabile nulla di peggio. Il quadro è completato dalla resilienza di ISIS, dovuta soprattutto all’incapacità iraqena di rafforzare le istituzioni statali, di contenere la corruzione, di fornire i servizi essenziali, e dalla crescente influenza politica delle Popular Mobilization Forces, attore armato non statale di fatto più preparato ed operativo delle stesse FFAA. ISIS, attivo nelle aree rurali del nord ovest, probabilmente crescerà nel 2019 e, pur non potendo rioccupare stabilmente territori, costituirà una rinnovata minaccia.

Nuova identità e “riflessi iraniani di Dio”

Il 2019 vedrà l’Iraq come un’area interessata da contrasti regionali e globali. Le sanzioni imposte all’Iran porranno l’Iraq in una posizione delicata data l’influenza, da un lato, che Teheran esercita sul processo decisionale interno iraqeno, e le pressioni sanzionatorie, dall’altro, che gli USA eserciteranno creando un invitante (ma pericoloso) vuoto produttivo che l’Iraq potrà colmare. Anche la Turchia farà la sua parte, giustificando la sua proiezione contro il PKK come un necessario esercizio di “protezione della sicurezza nazionale”.

L’arena politica interna, caratterizzata da instabilità con un regresso del Partito Al Da’wa e della coalizione Al Nasr dell’ex premier Al Abadi, ha visto l’ascesa delle liste sciite di Muqtada al Sadr e Hadi Al ‘Ameri, percepiti come i più idonei a realizzare una valida riforma dello Stato; l’alleanza elettorale con il partito comunista è stata considerata, da un lato come una prova di realpolitik, dall’altro come esempio dell’esistenza di fattori contraddittori di cambiamento che puntano a garantire l’affrancamento dai condizionamenti iraniani. La sfida però è difficile: rivitalizzare lo Stato Iraqeno plasmando un’identità nazionale che sincretizzi sette ed etnie, che protegga l’Iraq dalle conseguenze di un possibile conflitto Iran–USA, e che si traduca quindi in un effettivo processo di recupero di sovranità.

Come reagiranno gli Ayatollah? L’esportazione khomeinista della rivoluzione iraniana collide con l’iraqismo nazionalista di Sadr, che tende a minare l’influenza di Teheran, forte dei legami con le milizie addestrate dai Pasdaran; più pragmaticamente l’Iran, secondo la stessa linea USA, potrebbe puntare ad un contenimento che, pur non premiandolo come Paese leader, non permetterebbe a nessun altro di esserlo: una sorta di gioco non a somma zero poco gradito da Sadr, che potrebbe prediligere il ritorno ad una “politica di strada”, contrastata dai proxy iraniani.

La verità è che molti vogliono appropriarsi di una fetta di influenza in Iraq: dopo Iran, USA e Turchia, anche Qatar, Arabia Saudita ed EAU lo considerano come essenziale per il mantenimento della propria sicurezza nazionale. Se ci sono gli americani c’è Israele; le minacce dello Stato Ebraico di intraprendere azioni contro obiettivi iraniani richiedono il pieno coordinamento tra i due Stati, anche alla luce degli intendimenti iraniani di colpire obiettivi USA; l’entrata in vigore delle sanzioni contro l’Iran, ed il trasferimento (deterrente?) di missili balistici iraniani in Iraq a supporto delle milizie sciite, suggeriscono l’idea di un bellicismo latente ma frenato da interessi economico–politici più consistenti. Un ruolo fondamentale è giocato sia dalla propaganda, diffusa tramite i centri religiosi ed una rete di media locali e satellitari, sia dalla religione, per la diffusione della quale Teheran ha speso milioni di dollari. Nelle città sante l’Iran ha aperto scuole religiose finanziando gli studi di giovani religiosi iracheni, tra cui sarà dunque sempre più diffusa l’ideologia khomeinista del velayat-e faqih1. Anche l’Arabia Saudita, pur impegnata in una difficile transizione interna e nella guerra allo Yemen, chiamata da Washington al tavolo iraqeno, sta valutando la riapertura di un oleodotto, chiuso nel 1990, che collega l’Iraq al Mar Rosso più un gasdotto da realizzare per il porto giordano di Aqaba.

Potenze riluttanti e business

Gli Usa, nel frattempo rafforzano la loro presenza militare tra Siria ed Iraq, elemento che induce a ritenere che gli americani, al di là dei tweet presidenziali, ritengano indispensabile rimanere a cavallo dei due Paesi, viste anche le folte delegazioni commerciali partecipanti agli ultimi forum economico-commerciali interessati alla ricostruzione.

Intanto, lungo la strada che collega Al Qaim con la piana di Ninive, in un’area a scarsa densità abitativa ma notoriamente fertile in quanto ad allestimento di cellule insurrezionali, è sorta una nuova base USA; il tutto mentre lungo la frontiera siro-turca si allestiscono torri di osservazione al fine di proteggere l’area siriana orientale amministrata dal PKK. La politica siro-irachena americana ambisce al pragmatismo in un setting caotico che inficia la bontà delle confuse intenzioni: si coordina con gli iracheni, a loro volta coordinati con russi, iraniani e governo siriano; fornisce garanzie ai turchi mentre apparentemente protegge il PKK siriano; impianta basi nell’Iraq occidentale; fortifica la cooperazione economica ed energetica con il governo di Baghdad; cerca di “rigiocare” con la Russia, padrona della costa siriana centrale ed occidentale; punta ad una strategia coerente che sostenga l’integrità territoriale iraqena e tuteli il governo regionale del Kurdistan; annuncia il ritiro dalla Siria proponendosi quale potenziale artefice di un errore strategico già commesso da Obama, responsabile di un ritiro anticipato prima ancora che ci fosse un governo capace di colmare il vuoto creatosi, che avvantaggerebbe Iran, Siria, Russia, Hezbollah ed ISIS.

Questo lo sfondo d’area, fortemente interconnesso con tutte le parti in causa; queste le maggiori questioni che domineranno la scena mediorientale e di cui non vedremo la fine nel 2019. Nel 2018 il Medio Oriente è stato uno dei teatri più instabili del mondo: probabilmente lo rimarrà anche nel 2019, malgrado i “riflessi di Dio”.

1Governo del Giureconsulto

(foto: U.S. Army / U.S. Marine Corps / U.S. Air Force)