Dati gli eventi a carattere geopolitico degli ultimi giorni, il 19° Congresso del PCC rischia di passare inosservato malgrado le possibili implicazioni. Se è vero che ogni quinquennio il partito organizza il suo plenum, è altrettanto vero che quello di quest’anno risulta particolarmente significativo dato che almeno 5 dei 7 membri del Comitato Permanente lasceranno l’incarico ed i nuovi ratificheranno il secondo mandato di Xi Jinping, consentendogli di dettare una successione politica.
I segnali arrivati dalle ultime manifestazioni inducono a ritenere che Xi stia raggiungendo la sua massima akmè dopo aver eliminato, per corruttela, una serie di dirigenti di altissimo profilo. La sua valenza è significativa e si basa sulla strategia dei “quattro complessivi”: una società prospera, riforme, stato di diritto, potenziamento dell’esecutivo politico. Se Xi riuscirà a modellare la nuova leadership, un suo futuro ritiro dalla scena politica indicherà il completamento delle riforme nonostante le resistenze interne opposte dell’apparato e dalle FF.AA. Le riforme saranno finalizzate alla realizzazione di un socialismo con caratteristiche cinesi secondo un moderato livello collettivo di prosperità da celebrare nel 2021 in occasione del centenario della costituzione del PCC. La relazione programmatica servirà a Xi come linea guida per il futuro PCC, unendo le tematiche di politica interna con quelle di politica estera, riguardanti aspetti che, malgrado l’incertezza generatasi con l’elezione di Trump, con la Brexit e la Nord Corea, puntano ad assicurare alla Cina un significativo ruolo di primo piano.
Il pensiero politico cinese si estrinseca nelle affermazioni di Xi, quando dice che la lotta della Cina contro la crisi mondiale è il suo "maggior contributo per la razza umana", e che "Primo, la Cina non esporta la rivoluzione. Secondo, la Cina non esporta fame e povertà. Terzo, la Cina non esporta seccature. Che altro c'è da dire?". Il tacito patto sottoscritto con il popolo post Tienanmen (nella foto a dx un momento di una cerimonia del 30 settembre in memoria della strage, ndr) per ottenere sostegno politico in cambio di crescita economica e salariale, ha agevolato i compiti esecutivi con una commistione di nazionalismo, confucianesimo tradizionale e marxismo leninismo grazie alla quale il PCC gode del raro pregio di sapersi adattare ad ogni circostanza, e di mantenere le redini in pugno anche quando l’economia rallenta e si manifestano segnali di malcontento sociale. Nel frattempo, la tradizionale politica del Washington consensus è stata rimpiazzata da un Pechino consensus, con un’inedita forma di capitalismo di stato unita ad un calibrato interventismo politico, dove un regime autoritario sostiene un’economia liberista senza abbandonare l’ideale socialista che propone la Cina come potenza emergente con significative riserve valutarie, ma con un peso politico ancora relativamente esiguo rispetto alle sue potenzialità economiche.
Grazie alla disponibilità di forza lavoro a basso costo la Cina è riuscita a rimpiazzare le Tigri Asiatiche, intaccando il potere contrattuale dei lavoratori dei Paesi sviluppati e di quelli ancora in via di sviluppo. L’opera di transizione cinese ha tratto insegnamento dalle esperienze altrui, evitando la brusca liberalizzazione russa, ed apprendendo dal Giappone la gestione delle società straniere capaci di trasmettere cospicui know how tecnologici. Questo, tuttavia, non ha evitato anomalie, come crescita con sviluppo relativo, tensioni salariali, compromissione ecologica, liberalizzazioni eccessive e privatizzazioni, creazione di special economic zones che hanno messo a contatto giovani elites educate all’occidentale e mano d’opera dequalificata a basso reddito. Il quadro che si prospetta appare complesso specie se lo si osserva da una prospettiva storica e culturale cui la Cina non ha mai abdicato, e che ha trasformato la sua politica estera da introiettiva a desiderosa di sfidare il dominio delle vecchie potenze, animata da un (apparente) “sorgere pacifico” atto a creare consenso ma rivendicando la piena sovranità territoriale ed il rispetto delle decisioni adottate, come in Tibet ed a Taiwan. Politica, economia e volontà di potenza poi si incontrano e cercano di temperarsi tra gli attori geopolitici del BRICS, anche se le crisi che si susseguono come in Brasile, gli sviluppi geostrategici in Ucraina ed in Nord Corea, le rivalità mai sopite con l’India, pongono l’asticella ad altezze sempre più vertiginose.
Gli esperimenti nucleari nord coreani, effettuati durante l’ultimo summit tenutosi in Cina, hanno messo in grave difficoltà politica e diplomatica i padroni di casa, mai così spiazzati dalle “bizze” di un alleato difficilmente controllabile ma che, malgrado tutto, “deve” poter continuare ad esistere come soggetto politico, pena lo sconvolgimento degli assetti regionali. L’iniziativa politica interna non può prescindere da una valutazione geopolitica che porta a riconsiderare le linee ufficiali; crescita e sviluppo non possono ignorare due direttrici fondamentali, ovvero la ricerca di risorse energetiche e l’apertura ed il raggiungimento di mercati ricettivi. La Cina sta sviluppando processi cooperativi in ambito regionale con programmi che prevedono la realizzazione di reti ferroviarie come con l’iniziativa Fascia e Via che intende coprire la regione sudorientale con un sistema di trasporti collegato al suo. Lo Stato d’area privilegiato è la Thailandia, capace di consentire soluzioni valide per l’effettuazione dei compiti connessi alla sicurezza energetica ed alla realizzazione del progetto Belt and Road Initiative, inteso ad avvolgere il globo con un sistema di comunicazioni commerciali interessanti l’Eurasia, l’Africa e l’America del Sud. Il “Sea Silk Road” diventa dunque un progetto ambizioso fondato sullo sviluppo delle comunicazioni marittime globali, e che ha l’intento di realizzare “porte” alternative a Suez, Panama e Malacca, con nuovi canali paralleli sotto il controllo Cinese. La Belt and Road Initiative e le sue filiazioni, “Nuova Via della Seta” e“Via della Seta del XXI secolo”, ingenerano l’impressione che la Cina sia prossima a definire la creazione del citato sistema di trasporti grazie anche alla convergenza di interessi regionali, tesi a combattere il pericolo islamico.
L’apertura delle vie terrestri non prescinde dalla considerazione dei confini marittimi. La volontà cinese di dominio marittimo, presentata come pacifica, si sta palesando con un significativo dispiegamento di forze tese a proteggere gli interessi nazionali, e sta rispecchiando un comportamento di rottura rispetto alla dottrina di crescita condotta dalle precedenti leadership. Le contese, incentrate sulla rivendicazione della sovranità insulare, si estendono ora soprattutto ad un’area ricca di risorse naturali che costituisce un punto strategico del commercio mondiale; la contrapposizione della RPC con gli altri Stati rivieraschi si estende su quasi il 90 per cento del Mar Cinese meridionale, considerando parte integrante del territorio nazionale l’area che si sviluppa secondo la Nine Dash Line per centinaia di miglia a sud e ad est dalla provincia meridionale di Hainan, e che si sovrappone alle acque territoriali di Vietnam, Brunei, Indonesia e Filippine dove si trovano gli arcipelaghi delle Spratly (note per la creazione di un great wall of sand, e per l’occupazione illegale di numerose barriere coralline) e delle Paracel, non rilevanti come approdi ma come punti di transito mercantile dall’Ovest. La realizzazione di isole artificiali su scogli sommersi per creare basi utili all’impiego delle forze aeree, ha condotto ad attriti tali da determinare interventi “compensativi” USA indirizzati a sostenere i Paesi potenzialmente minacciati, e ad indurre a stringere talvolta accordi commerciali con la Russia, volti allo sfruttamento congiunto delle risorse; a ciò vanno aggiunte le Isole Senkaku giapponesi che, a dispetto degli scambi commerciali, pur essendo sotto protezione americana, continuano ad essere rivendicate dalla RPC. Anche la normativa stabilita dalla Convenzione delle UN sul diritto del mare non ha mai prodotto un codice di condotta multilaterale idoneo alla risoluzione delle controversie, fatto questo che ha determinato tensioni costanti e crisi bilaterali contrassegnate dall’asimmetria del potere politico – militare ed economico del Dragone e che hanno portato a decisioni della Corte di Arbitrato Internazionale sovente sfavorevoli alle istanze cinesi. La disputa per il controllo dell’area fa riemergere la logica di potenza tra gli Stati che rivendicano in Asia- Pacifico la loro sovranità, e comporta una corsa agli armamenti navali indirizzata ad assicurare un significativo grado di deterrenza.
L’appetibilità economica dell’Estremo Oriente ha suscitato l’interesse internazionale determinando una rivalutazione delle singole strategie, anche se il fattore finanziario riesce a spiegare il riarmo promosso in area regionale solo se posto in relazione alla percezione della politica di potenza della Cina; caso a parte le Filippine ed il ruolo rivestito dal presidente Duterte che, interrompendo le esercitazioni con gli USA, sta realizzando una nuova politica di rebalance. La proiezione marittima cinese assume dunque connotati di rilevanza geopolitica: pur partendo da una prospettiva d’area regionale, la Cina si volge verso il Pacifico grazie a leadership che, nel tempo, hanno condotto la Marina da una sottodimensione brown costiera e difensiva ad una dimensione blue oceanica di proiezione. Già dagli inizi del XXI secolo lo Stato Cinese si è insediato nei porti della regione intessendo un “filo di perle” rafforzato da partnership strategiche nel settore infrastrutturale.
La Weltpolitik navale Cinese, testimoniata dall’esistenza di una Via della Seta marittima percorsa dall’ammiraglio Zheng He già nel 1400, è stata sapientemente riesumata da Xi Jinping attraverso una fitta rete logistico-economico-commerciale con una red line che, dal Mar Cinese Meridionale al Golfo del Bengala, all’Oceano Indiano, arriva al Mar Rosso fino a Suez per immettersi nel Mediterraneo e giungere a Venezia per congiungersi alla Via della Seta terrestre, interpretando alcune delle teorie di Mahan sulla strategia marittima: la conquista di punti di appoggio da cui poter controllare le rotte.
Alla stessa stregua della politica statunitense di contenimento sovietico durante la Guerra Fredda, la strategia cinese ha puntato ad isolare l’India, suo principale competitor, assicurandosi diritti di navigazione e protezione dei tanker di provenienza medio orientale per influenzare economicamente e politicamente i partners, ma andando ad impattare con la strategia indiana che, regolamentando l’accesso cinese nell’Oceano Indiano, garantisce già da tempo la difesa delle rotte solcate dalle petroliere. La Cina sta quindi provvedendo sia ad un Anti Access/Area Denial, atta ad impedire l’accesso agli spazi comuni in caso di conflitto con crescenti capacità di interdizione navale, sia ad un’evoluzione del sea control grazie alla creazione di una flotta d’altura capace tanto di proiettare le operazioni in profondità quanto di proteggere le portaerei.
Pechino, superata la visione ristretta al suo quadrante si rivolge ora verso le coste africane, e per questo ha cominciato a muovere la sua Squadra fino al Golfo di Aden in funzione anti pirateria, mentre si prepara a varare la seconda portaerei impostata integralmente presso i propri cantieri nazionali. La base acquisita a Gibuti rappresenta un ulteriore incastro per un Paese qualificato come partner commerciale principale della quasi totalità dei Paesi africani, per le cui necessità ha stanziato fondi per decine di miliardi di dollari. La vigilanza e la sicurezza dei passaggi obbligati (Bab el-Mandeb, Aden, Hormuz) sono basilari per una potenza in ascesa: le acque dell’Oceano Indiano sono interessate da un ingentissimo import – export che Pechino compie da Africa e Medio Oriente. Pechino non è la sola attrice che intende affermare una presenza militare: la Francia dispone di un contingente della Legione Straniera; il Giappone ha stabilito una base per le sue Forze di Auto-difesa, e l’Arabia Saudita ha manifestato interesse nella costruzione di un apprestamento sul territorio gibutino, forte della comune appartenenza alla Lega Araba; un altro membro della Lega, gli E.A.U, ha stipulato un accordo per impiantare una base con il confinante Somaliland.
La base di Gibuti è stata considerata dall’India, come l’ennesima perla del diadema e come possibile preludio ad una politica estera più volitiva di quella finora adottata; anche gli americani hanno mostrato concrete preoccupazioni, dovute anche al fatto che, a Gibuti, detengono la loro unica base militare permanente in Africa, aperta subito dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre, lautamente finanziata dal Pentagono, e da cui partono operazioni contro obiettivi sensibili in tutto il Medio Oriente, in particolar modo contro gli jihadisti Yemeniti e le milizie di al-Shabaab in Somalia. Laddove la nuova amministrazione USA non dovesse rafforzare la sua politica di “potenza residente”, o addirittura dovesse rinunciare ad un’opera di contenimento frenando l’espansionismo cinese, il pivot to Asia di Obama e della Clinton, potrebbe verificarsi un riequilibrio marittimo che consentirebbe alla Cina di rivestire il ruolo di superpotenza globale, anche in relazione alla politica protezionistica americana che consentirebbe ulteriori possibilità cinesi di espansione, supportate da FFAA high tech. Si sta costituendo così quell’elemento di linearità essenziale per supportare il progetto di un equilibrio politico e strategico alternativo a quello Occidentale e che ha portato alla 21th Century Maritime Silk Route Economic Belt, una “cintura” per cui sono stati stanziati fondi per decine di miliardi di dollari con la partecipazione di 50 Paesi che hanno costituito l’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB). Se già negli anni scorsi si fossero avuti a disposizione degli indicatori matematici basati su economia, linee guida politiche ed intenti strategici dei giocatori internazionali, si sarebbe percepita la crescita effettiva del potenziale navale cinese non solo da un punto di vista quantitativo ma anche qualitativo tanto da ipotizzare, entro il 2020, una sua supremazia nell’area del Pacifico a danno del potere marittimo americano. Una valutazione statunitense prevede un incremento cinese di circa 350 nuove UU.NN, tra portaerei, caccia e battelli in parte già consegnati alla Squadra, che andrebbe contrastato con una presenza rafforzata con non meno di 70 navi ed un numero di unità combattenti pari ad almeno il 60% della Flotta.
Al di là delle prevedibili diversità di opinione basate, da un lato su tagli finanziari ritenuti troppo consistenti, e dall’altro sull’attuale preponderanza numerica delle portaerei in campo, rimane il fatto che la strategia “missile centric” costringerebbe le navi americane a tenersi a distanza dai mari cinesi; il miglioramento qualitativo riguarderebbe in particolare i sistemi d’arma, missili superficie – superficie e battelli (anche a propulsione nucleare) in numero pari a quasi il doppio di quelli americani, oltre al “Cyber espionage”, a carattere asimmetrico, fondato su attacchi hacker ai sistemi informatici americani legati a programmi militari; a questo proposito, a titolo speculativo, si riportano le voci riguardanti gli incidenti occorsi ultimamente alle navi Statunitensi nell’oceano Pacifico, che vorrebbero tali eventi non frutto di errori accidentali ma, considerate le dinamiche, esito di veri e propri attacchi hacker da parte di Stati che contrastano la presenza americana nei mari Asiatici.
Secondo un vecchio adagio popolare possiamo dire che, anche per noi, la Cina è davvero vicina con presenze navali sulla costa nord africana, ed in Grecia, con la privatizzazione del Pireo e l’acquisto di asset infrastrutturali. Non essendo più così prematuro parlare di neo interventismo cinese, pare legittimo affermare che il ruolo della Cina è ormai cambiato e ha superato la retorica pacifista della non interferenza. Il Mediterraneo, distante dai centri di riferimento strategici, potrebbe diventare un laboratorio da cui dare vita al nuovo corso della politica estera cinese, specie se messo in correlazione alla situazione legata al deterioramento delle relazioni della Russia con l’Occidente per la vicenda ucraina e le rivendicazioni territoriali di Pechino nei confronti degli Stati corregionali nel Mar cinese meridionale.
Anche se i timori sulla nascita di un nuovo asse sino-russo non vanno sottovalutati, le motivazioni della presenza cinese nel Mediterraneo riflettono la coesistenza di interessi economici e di considerazioni strategiche solo in parte funzionali alla realizzazione dei primi. In ogni caso è la geoeconomia a determinare la geopolitica della diplomazia cinese. Tanto nell’Egitto dei Fratelli Musulmani che in quello di Al-Sisi, Pechino ha continuato ad investire nel settore energetico, agricolo, delle comunicazioni e nel potenziamento infrastrutturale del Paese, in particolare nell’area di Suez. Significativa la presenza in Algeria, interessata ad un accordo di partenariato strategico-globale e dove sono presenti decine di migliaia di operai impegnati nel settore petrolifero ed in quello infrastrutturale. La fortissima instabilità dell’area mediterranea, su cui pesa più di ogni altra la minaccia islamica in funzione anti-occidentale, e rispetto alla quale gli europei dimostrano scarsa capacità e/o volontà di intervento, preoccupa non poco la diplomazia cinese, che vede in pericolo sia i suoi targets strategici della Nuova Via della Seta, sia la rete di connessioni terrestri e marittime di livello intercontinentale.
La Cina fa suo il modello della Royal Navy: una forza radicata nella sua regione ma capace di proiettarsi al di fuori della sua area. Proprio Sir Walter Raleigh fu colui che affermò che “Chi domina sul mare, domina sul commercio. Chi domina sul commercio mondiale domina sulle risorse mondiali e, di conseguenza, domina sul mondo intero”.
(foto:Xinhua News Agency / KCNA / Ministry of National Defense of the People's Republic of China / MoD Fed. russa)