Se vuoi la pace... non guardare solo la Libia!

(di Giuseppe De Giorgi)
29/08/17

In questi giorni la nostra attenzione è giustamente concentrata sulla Libia e sul tema del blocco dell’immigrazione. Sarebbe tuttavia un grave errore immaginare di confinare l’area d’interesse nazionale al solo Mediterraneo, anzi al solo Mediterraneo centrale come di recente vorrebbero alcuni.

La globalizzazione dell’economia ha accentuato l’interdipendenza di Paesi geograficamente lontani, ma coinvolti nella stessa catena produttore-consumatore, il cui elemento di continuità è rappresentato dal mare e dal flusso globale di merci/risorse energetiche che lo attraversano. Oggi il 90% dei beni e delle materie prime transita lungo le linee di comunicazione marittime e il 75% di questo flusso scorre attraverso pochi vulnerabili passaggi obbligati (c.d. choke points), costituiti dai canali e dagli stretti internazionali.

In Oceano indiano, in cui transita in termini di tonnellaggio la maggioranza delle merci mondiali, il 65% del petrolio e il 35% del gas, l’ENI sviluppa importanti e promettenti attività estrattive, fra cui, di particolare interesse rivestono gli immensi giacimenti di gas al largo del Monzambico.

Gli accessi all’Oceano Indiano e le relative linee di comunicazioni, sono controllati da 7 dei 9 più importanti passaggi obbligati del Pianeta (Stretto di Hormuz, Canale di Suez, Babel Mandeb, Capo di Buona Speranza, Stretto di Malacca, Stretto della Sonda, Stretto di Lombok)

Per quanto riguarda l’Italia, Suez, Babel Mandeb e Hormuz assumono naturalmente valenza primaria.

Per Hormuz transita tutto il traffico marittimo dei Paesi del Golfo; è senz’altro il più importante passaggio per gli idrocarburi a livello mondiale (ca 20 Mil. di barili al giorno, pari ad approssimativamente il 20% degli idrocarburi trasportati via mare nel Mondo). A differenza degli altri stretti, non è aggirabile. Una volta chiuso l’accesso via mare, il Golfo Arabico-Persico sarebbe isolato. Hormuz e in realtà tutto il bacino del Golfo Persico è facilmente minabile, cosa già accaduta ai tempi del conflitto Iran-Iraq.

Il Canale di Suez è la porta d’accesso orientale al nostro mare, insieme a Babel Mandeb, è senz’altro il passaggio obbligato più importante per l’Italia. L’eventuale chiusura del canale comporterebbe un allungamento della rotta verso l’Europa di circa 6.000 miglia nautiche. Largo non più di 300 metri, è anch’esso facilmente minabile, anche da entità non statuali (evento già successo nel 1984), ed è sotto il controllo totale di una sola nazione, l’Egitto. Di qui fra l’altro l’importanza strategica della Somalia, dello Yemen e dell’Oman per la sicurezza degli accessi al Mar Rosso/Mediterraneo per gli interessi italiani.

I passaggi obbligati sono soggetti a varie minacce come la pirateria, il terrorismo marittimo sinistri di grandi proporzioni, instabilità politica degli stati rivieraschi. La loro chiusura, ipotesi spesso scartata come mero esercizio militare, (oltre ad essersi già verificata in passato) trova, se ce ne fosse bisogno, nuova credibilità, per la sempre maggiore pericolosità di attori non statuali e la crescente diffusione di armi più potenti e sofisticate, un tempo prerogativa esclusiva di un ristretto numero di Nazioni.

In particolare l’eventuale chiusura degli accessi orientali al Mediterraneo trasformerebbe la configurazione del commercio mondiale a danno dell’Italia che risulterebbe penalizzata dallo spostamento dei traffici dalle rotte per Suez a quelle che circumnavigano l’Africa, con il conseguente punto di imbarco e sbarco delle merci nei porti nordeuropei anziché negli storici porti mediterranei italiani. Come accadde dopo la scoperta dell’America, sino all’apertura di Suez il Mediterraneo sarebbe marginalizzato sotto ogni punto di vista. La nostra economia ne risentirebbe pesantemente.

La volatilità politica dell’area è evidente; ne consegue che la gran parte delle Nazioni facenti parte del G8 mantengano pressoché costantemente nell’area forze navali, supportate in alcuni casi da basi permanenti. Anche la Marina iraniana è attiva al di fuori di Hormuz, sia in missioni di antipirateria sia in chiave di sorveglianza marittima oltre che in ottica di contenimento israeliano. Fra le nazioni Europee, la Francia mantiene una presenza navale di maggior profilo, inviando ogni anno per 5 mesi un Gruppo navale centrato sulla portaerei Charles De Gaulle (foto apertura) e da un sommergibile nucleare, per citare solo gli assetti più significativi.

Di recente anche la Turchia si è affacciata nell’area, con importanti operazioni di “soft power” nei confronti della Somalia, costruendo un aeroporto internazionale a Mogadiscio e proponendosi come aiuto nella ricostituzione delle forze armate somale. La Germania ha avviato contatti preliminari per muoversi autonomamente nell’avviare cooperazioni con la Somalia e con i paesi dell’Africa orientale, nell’ambito di un’iniziativa parallela a quella proposta dal Governo italiano in un framework europeo, con il “migration compact”, volto a stabilizzare anche con investimenti, oltre che con iniziative mirate alla sicurezza, i Paesi origine della maggior parte dell’emigrazione africana.

La Cina ha da alcuni anni dato vita a un intelligente esercizio di “soft-power”, diretto in particolare verso i Paesi della costa dell’Africa orientale e sud orientale, ma che nei piani di Pechino si spingerà fino a interessare il Mediterraneo. È già in atto il coinvolgimento della Grecia nel progetto della nuova via marittima della seta, per trasformare il Pireo nel suo puto d’arrivo, come snodo per la successiva distribuzione, via terra e via mare, in concorrenza con Trieste e Venezia. È evidente come l’Italia non possa disinteressarsi dell’Oceano Indiano. Lo confermano, se ce ne fosse bisogno, le missioni condotte dalla Marina Militare (8 missioni principali di lunga durata con significativo impiego di mezzi, incluse dislocazioni di portaerei e impiego dell’aviazione tattica imbarcata, senza contare le attività di presenza navale di unità isolate) dal 1979 ad oggi.

Piaccia o no, il Mediterraneo è oggi, ancora più che in passato, un continuum geo-strategico e soprattutto geo-economico con il Mar Nero, l’Oceano Indiano e il Golfo Arabico-Persico. Quell’entità geo-politica e geo-economica che a partire dagli anni 90 è stata identificata con il termine Mediterraneo allargato, per indicare l’area di diretto interesse nazionale, a superamento del concetto guida della Difesa italiana degli anni 50 e 60 , centrato sul binomio “sbarramento della soglia di Gorizia e interdizione del Mediterraneo centrale”.

In tal senso peraltro si sta muovendo la politica estera italiana, come dimostrato dall’intensificazione dei rapporti ai massimi livelli con i Paesi del Golfo, dell’oceano Indiano e verso l’Asia. L’apertura verso l’Iran, il lancio dell’iniziativa del cd. “migration compact”, sono importanti tasselli della ripresa dell’iniziativa italiana per assumere maggiore rilevanza nella regione.

È quindi tempo di allineare la “visione” della Difesa a quella della politica estera nazionale. L’attuale disconnessione è a mio parere uno dei problemi che andrà necessariamente risolto per acquisire tempestività e resilienza nella nostra azione, verso i Paesi con cui vogliamo far crescere in ampiezza e profondità i rapporti politici, commerciali e di sicurezza.

Dobbiamo rivedere la pianificazione militare e procedere senza ulteriori indugi alla conseguente riconfigurazione del nostro strumento militare e del suo impiego, anche e soprattutto per le operazioni militari in tempo di pace.

(foto: Marine nationale / U.S. Navy / ENI)