Tunisia, l'altro Nordafrica in cui l'Italia sarà coinvolta

(di Gino Lanzara)
29/01/18

Tentare di delineare un’analisi degli ultimi avvenimenti tunisini non può prescindere sia da una valutazione del contesto geopolitico regionale dall’inizio della Primavera Araba, sia dalla considerazione che gli ultimi avvenimenti riportati dai media, con la stessa entusiastica enfasi adottata per i fatti Iraniani, in realtà non sono né di inedita genesi né permeati di connotazioni ideologiche.

Malgrado la Tunisia si ponga diplomaticamente quale Paese di secondo piano o, meglio, come fragile vaso di coccio stretto tra i due vasi di ferro libico ed algerino, è stato il primo soggetto politico a fare proprio e ad interpretare in senso socialmente estensivo quanto pronunciato dal presidente Obama durante la sua prolusione nel 2009 all’Università del Cairo: “...Io sono qui oggi per cercare di dare il via a un nuovo inizio tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo; l’inizio di un rapporto che si basi sull’interesse reciproco e sul mutuo rispetto; un rapporto che si basi su una verità precisa, ovvero che America e Islam non si escludono a vicenda...”

L’intervento del capo di Stato USA, coloured e figlio di uno studente africano, alimentò attese ed ingenerò sogni di democrazia nella massa giovane e scolarizzata del Nord Africa. Le proteste portarono, in una sorta di 1848 africano, alla caduta di Mubarak in Egitto, di Saleh in Yemen, di Gheddafi in Libia e di Ben Alì in Tunisia. L’ironico imprevisto storico-politico di fondo è consistito nel fatto che le elezioni tenutesi di lì a poco, portando al potere forze islamiste e non democratiche come negli auspici neocon americani, determinando un ulteriore periodo di instabilità, hanno condotto, alla fine, alla ricostituzione di regimi militari (come in Egitto), sancendo così il fallimento della politica estera USA divenuta, nella sua volontaria e colpevole inerzia, la negazione di sé stessa.

È nella piccola Tunisia che scocca la prima scintilla della “primavera araba”. Ma cosa è rimasto, ad oggi, del gesto di Mohammad Bouazizi, il rivoluzionario zero, lo Jan Palach di Tunisia? Poco. Il Paese maghrebino ha vissuto una transizione complessa ed estremamente delicata che non è riuscita a consegnare alla comunità degli Stati una Nazione politicamente, economicamente e socialmente stabile. Il presidente Ben Alì, dopo 23 anni di governo, ha lasciato una Tunisia in cui le sue numerose dinamiche sociali, culturali e politiche hanno attirato le attenzioni di al Qaida e, soprattutto, hanno messo in luce fattori di rischio che il regime caduto era riuscito nel tempo a scongiurare e coprire con l’interessata benedizione occidentale. In questi ultimi anni le nuove leaderships hanno tentato di proporre una nuova egemonia culturale e politica che fosse in grado sia di plasmare i nuovi aspetti istituzionali, sia di attrarre gli interessi europei secondo un modello che, tuttavia, si è rivelato inadeguato ed incompatibile con quella peculiare ed inestirpabile forma di laïcité tunisina, di retaggio francese, che ha sempre condotto ad un’impostazione del rapporto Stato–Religione costantemente incanalata in meccanismi ufficiali di rappresentanza e di filtro delle istanze relative al culto; in sintesi un Islam controllato in una sorta di libero stato, sia pur di religione musulmana.

Ennhada (al Nahda), il partito islamico, per quanto moderato, ha tentato di distaccarsi da questa impostazione laica assumendo posizioni di carattere identitario, aspetto questo che ha provocato la reazione specie della società civile del nord del Paese, imbevuta di aconfessionalità europea; malgrado Ennhada sia sembrata essere immune agli estremismi che si manifestano periodicamente nell’area, pur convivendo nel Paese con le istanze più radicali di stampo salafita, è sembrato comunque evidente il tentativo di cancellare quel primato laico che ha contraddistinto la Tunisia nell’ambito della Umma. Pur non avendo voluto risolvere in modo deciso la questione salafita propendendo per una politica a mezza via tra il liberalismo politico ed il conservatorismo religioso, Ennhada ha tuttavia conservato delle differenze tipicamente tunisine sia dal punto di vista delle relazioni politiche ed organizzative, sia per per il fatto che qualunque movimento di orientamento salafita è naturalmente soggetto al richiamo estremista jihadista o qaidista. A fronte della presenza sia di soggetti radicalizzati rientrati in patria alla caduta di Ben Alì, sia di nuovi estremisti reclutati tra le fila del sottoproletariato urbano, Ennhada ha inizialmente adottato forme repressive che poco hanno avuto di dissimile da quelle poste in essere dal precedente regime. Ed i giovani? Gli altri Bouazizi? Hanno cercato la loro coesione in un campo economico e sociale caratterizzato da una disoccupazione dai numeri particolarmente significativi che hanno continuato a dimostrare il fallimento delle promesse elettorali di Ennhada.

Il Paese è rimasto socialmente spaccato in due, con le zone costiere che hanno continuato ad evolversi ed a produrre ricchezza a fronte della povertà e dell’instabilità presenti nel sud; al nord c’è una Tunisia colta, moderna, tollerante, erede diretta delle conquiste di Bourguiba, al sud basta guardare all’esempio di Bin Qardān, cittadina coinvolta nel 2016 in un attacco jihadista. Lontana da Tunisi, e culturalmente più affine ad un centro urbano libico, è stata ed è l’esempio delle disuguaglianze socioeconomiche di un Paese la cui classe politica ha scelto di lasciare entroterra e meridione in condizioni di estrema arretratezza, con poche – ed illecite – fonti di reddito basate su contrabbando e traffico di esseri umani. In fondo, già da poco tempo dopo la rivoluzione dei gelsomini si è avuta la netta percezione di un’acuta instabilità destinata a perdurare; le distanze tra Tunisi e centri come Bin Qardān non sono solo fisiche, ma attengono anche al modo in cui si è lasciata prosperare una sorta di sistema parallelo, retto da un’economia informale e dai commerci abusivi. Mentre al nord più di mille anni di traffici e scambi culturali hanno realizzato un ponte tra il continente europeo e quello africano, al sud l’infelicità araba dello scrittore Kassir ha preso forma radicalizzandosi secondo i dettami jihadisti, e facendo comprendere perché i combattenti Isis tunisini provengano in larga parte da quell’area.

Possono dunque stupirci i disordini scoppiati tra dicembre 2017 e gennaio 2018? Probabilmente solo da un punto di vista giornalistico e sensazionalista, ma non da una prospettiva geopolitica e razionale. Alla luce delle discrasie sia pur brevemente riportate era lecito attendersi reazioni popolari ad una situazione economica politica e sociale che, negli ultimi sette anni, e malgrado il crollo e la contestuale sostituzione di un regime, non ha condotto a particolari ed estese forme di benessere. Malgrado gli sforzi del governo presieduto ora dal moderato Youssef Chaed, i tunisini si trovano ancora una volta in balia di carovita, inflazione e disoccupazione galoppanti, i migliori e più indicati ingredienti possibili per giungere ad un’ennesima deflagrazione sociale, mentre l’autorità centrale deve far fronte alle richieste del FMI che, a seguito di un prestito di quasi 3 miliardi di dollari erogato nel 2016, chiede di procedere a ristrutturazioni statali dal prezzo economico e soprattutto sociale insostenibile.

Quella laïcité così fortemente avversata da Ennhada ha permesso alla Tunisia di evitare di precipitare nel baratro dell’integralismo e ha determinato la conservazione di razionalità politica e buon senso, ma nel contempo, per la sua stessa natura, non ha potuto impedire i nuovi moti di protesta quanto mai rischiosi se si volessero “concedere” dei martiri alle organizzazioni integraliste.

All’Italia conviene cooperare con il governo tunisino? Per il nostro Paese, storicamente e geograficamente così vicino alla Tunisia, sarebbe imperdonabile non cooperare per svariati motivi, al netto delle enunciazioni di circostanza. Il movimento fondamentalista rimane sempre e comunque presente sul territorio, e le nuove leve che partono per raggiungere sia la vicina Libia che il Sahel, dove siamo prossimi ad intervenire nell’area Nigerina, in perenne situazione preinsurrezionale, sono numerose; gli sbarchi di cittadini tunisini sulle coste italiane stanno raggiungendo ritmi ed entità di notevole spessore andando ad aggravare una situazione di per sé già estremamente critica; la Tunisia, povera di risorse naturali, è tuttavia per noi un Paese di transito fondamentale dato che ospita circa duecento chilometri di gasdotto, il Transmed, altrimenti detto Enrico Mattei, che congiunge le sponde siciliane a quelle algerine, e che permette l’incasso continuo di importanti royalties; la collocazione geografica fa, infine, della Tunisia un soggetto politico rilevante poiché, in ogni caso, si pone al centro delle rotte mediterranee. A voler sintetizzare il tutto potremmo concludere che la Tunisia, in ogni caso, era e rimane un Paese strategico per il benessere italiano. Tutto ciò permette di inquadrare meglio il dinamismo politico nazionale sia in funzione di una rilettura dell’impiego del proprio strumento militare, relativamente ad una visione più consona agli interessi nazionali e comprendente il contrasto al terrorismo ed all’immigrazione illegale, sia secondo una visione legata all’investimento, con la cooperazione finalizzata allo sviluppo delle aree interne del Paese nordafricano, ed al controllo della loro sicurezza.

Sarebbe forse opportuno approfondire l’aspetto legato a numeri e costi, tenuto conto che le decisioni riguardanti le partecipazioni italiane alle missioni fuori area sono state deliberate a Camere sciolte, come potrebbe del resto essere rilevante stabilire l’impatto delle varie attività da intraprendere, spostando le forze da un teatro all’altro, sia sui parametri operativi e logistici di supporto dei sistemi d’arma utilizzati e, last but not least, sia sul personale altamente specializzato da impiegare.

L’Italia, come ha ricordato il ministro Pinotti, sta sviluppando il proprio impegno sul fronte meridionale mediterraneo in contesti NATO e della UE e, più in particolare, per ciò che concerne il forum di collaborazione 5+5 tra i Paesi del Mediterraneo Occidentale, cinque della sponda Nord (Italia, Francia, Malta, Portogallo e Spagna), e cinque della sponda Sud (Algeria, Libia, Mauritania, Marocco e Tunisia), del quale il nostro Paese ha assunto la presidenza dal 1 gennaio di quest’anno.

La missione in area Tunisina, sotto egida NATO, nel fornire addestramento e consulenza finalizzati alla costituzione di un comando interforze, evidenzia la tendenza a convogliare gli sforzi italiani alle soglie del territorio nazionale circoscrivendo l’area tra Mediterraneo, Nord Africa e Sahel. Dato il contrasto alla minaccia jihadista, la riduzione dei contingenti in altri teatri non interesserà l’area kossovara, considerata la base del jihadismo balcanico, ed il Libano, per via della necessità di rendere più stabile e sicura la zona di confine con Israele, né le operazioni navali attive davanti le coste libiche.

Roma può dunque aiutare Tunisi? Certamente si, forse più che una facoltà potremmo parlare del motivato perseguimento di un suo esclusivo interesse politico, economico e di sicurezza, non dimenticando comunque che la stabilizzazione della Tunisia richiederà anni con un indispensabile e contestuale miglioramento complessivo dell’area geopolitica interessata.

La Tunisia di oggi sta a rammentare come sia possibile interrompere una deriva fondamentalista senza ricorrere ad interventi traumatici, ma anche di come sia facile incidere sulla fragilità di una svolta politico sociale, mai come ora da proteggere, proprio perché in palese controtendenza nel contesto d’area sunnita. La cooperazione italiana, più che indebolire, o contribuire a far percepire come tradito lo spirito della rivoluzione dei gelsomini, potrebbe contribuire a non farlo cadere nell’oblio di un popolo mai così provato dalla storia e, nel contempo, potrebbe dare un nuovo spessore ad un’assertività politica da molto tempo poco presente e, comunque, da rivedere alla luce delle prossime consultazioni elettorali.

(foto: Tunisian Navy / web / U.S. Navy)