Lo Yemen, malgrado la conformazione desertica, presenta una caratteristica geopolitica che lo rende, “vietnamizzandolo”, un terreno paludoso per tutte le forze che, ciclicamente, si sono contese il controllo del territorio a partire dall’intervento egiziano a supporto delle milizie repubblicane negli anni ‘60.
La caratteristica politica yemenita, nella sua indefinibilità, si può sostanziare in un marcato disinteresse per l’aspetto statuale ed in una spiccata propensione per la ricerca di una difficile sopravvivenza. In un Paese dove vige un regime economico malfermo e basato sulla prevalenza del settore petrolifero, dove le falde freatiche si stanno esaurendo e dove una parvenza istituzionale sembra limitarsi ai pochi centri urbani di rilievo, la disintegrazione dello Stato appare cosa ormai fatta.
L’immagine del dimesso ed instabile Yemen, corroso dalla corruzione, si contrappone alla ricchezza delle monarchie del Golfo, e continua ad essere caratterizzata dalla presenza di Aqap (Al Qaeda nella Penisola Arabica), il tutto a fronte di una posizione geostrategica di forte rilevanza che, situando il Paese nel punto di incrocio tra Mar Rosso ed Oceano Indiano nel punto di ingresso per il Canale di Suez, pregiudica sicurezza ed approvvigionamenti energetici per i Paesi occidentali.
La storia yemenita più recente ha visto il palesarsi di movimenti giovanili ispirati all’insorgenza delle primavere arabe; di componenti tribali dove, in larga parte, si sono riversati ex militari; di una debole opposizione politica. Pur non trovando particolari elementi ideologici di assimilazione, ciascuna fazione ha cercato di rovesciare il regime esistente, comunque e sempre dotato di una struttura complessa che, a livello clanico, si riverbera sull’apparato militare e di sicurezza. Il contrasto Stato–Tribù, tallone d’Achille yemenita, è stato peraltro da sempre sostenuto dai Sauditi che hanno privilegiato i rapporti tribali per indebolire un soggetto politico altrimenti percepito come potenzialmente pericoloso per la propria stabilità interna.
L’evoluzione politica delle proteste del 2011, generate dalle primavere arabe, ha di fatto consentito l’innesco di una serie di rivolgimenti e di spostamenti di fronte che hanno visto l’intervento dell’Arabia Saudita supportata logisticamente dall’alleato USA; in sintesi, una situazione magmatica che ha determinato la definitiva spaccatura politica e territoriale di un Paese dove nessuno degli schieramenti sembra essere in grado di prevalere, e dove l’uccisione dell’ex presidente Saleh ha reso ancora più instabile un quadro complessivo privo di qualsiasi possibilità di contatto tra le fazioni.
Malgrado una sconcertante “disinvoltura” politica che lo ha portato da un lato ad essere protagonista di ambedue gli schieramenti e dall’altro vittima eccellente di un inevitabile gioco al massacro, Saleh è sempre riuscito a mantenere un equilibrio politico tale da permettergli di allearsi tatticamente con gli Houthi ma senza perdere il contatto con l’Arabia Saudita. Un mediatore, dunque, ma non così abile da evitare la reazione Houthi al momento in cui c’è stato un tentativo negoziale rivolto a Riyadh con la proposta di un cessate il fuoco.
L’uccisione di Saleh, comunque, non ha impedito agli Houthi, con la stessa disinvoltura di Saleh, di mantenere un contatto con il partito del presidente ucciso, pur dopo aver eliminato tutti i suoi fedelissimi propensi ad un accordo con l’Arabia Saudita. Il Congresso Generale del Popolo rimane infatti l’unico soggetto politico capace di garantire il controllo del territorio sia grazie alla ramificazione dei contatti con le entità tribali sia grazie all’indispensabile fedeltà della Guardia Repubblicana, unico reparto delle FF.AA. in grado di contenere il collasso dal punto di vista operativo. La fragilità del sistema, tuttavia, è stata accentuata dalla spaccatura interna del CGP in correnti con orientamenti politico strategici completamente contrastanti: tra i sostenitori dell’alleanza con gli Houthi, i fiancheggiatori dell’attuale presidente Hadi, ed i partigiani pro Tareq Saleh, nipote del presidente ucciso, la lettura dinamica della situazione appare particolarmente difficile, anche in virtù del fatto che Tareq non ha ancora espresso una chiara posizione pro Riyadh.
La fedeltà a Tareq da parte di numerose unità della Guardia Repubblicana, nonché la collaborazione con forze tribali addestrate dagli Emiratini, rendono particolarmente esposta la posizione di Abdul Malik Al Houthi che al momento, quale strumento di pressione su Riyadh, può disporre solo del lancio di missili balistici di produzione iraniana.
La vulnerabilità Houthi, tuttavia, non ha trovato riscontro in un rafforzamento della coalizione avversa che, con la morte di Saleh intanto ha perso l’unico valido interlocutore in grado di tentare una mediazione, e poi ha palesato profonde divergenze politiche e strategiche tra Arabia Saudita ed EAU.
Sauditi ed Emiratini non trovano accordo sulla tattica finora usata: se Bin Salman, che non può riconoscere in alcun modo gli Houthi di matrice iranico-sciita per il prezzo politico troppo elevato da pagare, ha bisogno di porre un freno alla profondità strategica di Teheran, non si possono non considerare le velleità di Abu Dhabi puntate ad accrescere la propria influenza nello strategico ambito regionale che copre la penisola arabica ed il Corno d’Africa, grazie anche alle strutture logistiche e militari già apprestate o in via di realizzazione nella zona tra Bab el Mandeb, Aden e Somaliland. Sotto quest’ottica gli Emiratini, che addestrano milizie salafite, potrebbero essere propensi a favorire (la storia si ripete), piuttosto che a scongiurare, la parcellizzazione dello Yemen in entità locali, sicuramente più controllabili, e da porre in contrapposizione al presidente Hadi che, seppur preferito dal principe Bin Salman, deve cominciare a “fare i conti” con una rinnovata (ed ulteriore) spinta secessionista del Sud che sta mettendo a dura prova la sua (debole) istituzionalità.
In sintesi, allo stato attuale, solo gli EAU potrebbero trarre vantaggio da una situazione così critica, e lo stesso rappresentante ONU, Martin Griffiths, non avrebbe che ben poche carte da poter giocare per ricomporre il quadro generale mentre i Sauditi, pressati dagli USA, non sembrano avere altre frecce al loro arco per poter concludere fattivamente la loro azione, malgrado abbiano implicitamente promesso, dopo gli ultimi lanci balistici, una risposta adeguata al concorrente Iraniano che, ancora di più, ha tratto il Qatar nella sua area di influenza.
La “resistenza” Houthi sembra essere entrata perfino nel glossario di Hamas che, in appoggio all’Iran, ha accomunato gli yemeniti a Hezbollah ed ai combattenti pro Teheran nella Ghuta; ancora una volta il sogno di una soluzione “lampo” politicamente e strategicamente efficace sembra essere svanito, infranto dalla considerazione datata, ma ancora molto efficace, di Ogier Ghiselin de Busbecq, ottimo diplomatico del 16^ secolo al servizio della Corona austriaca: la religione (sciismo e sunnismo) fornisce il pretesto, l’oro (il potere regionale) il motivo.
(immagini: Youtube / U.S. DoD)