Basta superare i controlli all’aeroporto di Tirana per capire quanto tutto sia cambiato in fretta. Chi si ricorda i bambini con le palle di pezza, le divise verde oliva e i bunker di un Paese affamato dalle paranoie di Hoxa deve aggiornarsi.
L’Albania è un cantiere. Una buca malmessa di grandezza crescente, intorno alla quale ogni giorno aumentano gli interessi e gli interessati.
Per le strade si moltiplicano in modo ossessivo i lavazhe e i gomisteri, indice che le strade sono orrende ma che oltre alle buche e agli asini ci sono sempre più auto. In un Paese che ha scoperto da poco il codice della strada si nota ancora la segnaletica sbagliata di luoghi non abituati alle automobili. Eppure l’autostrada tra Tirana e Valona, fra benzinai giganti e buche improvvise, è nuova di zecca. Ci corrono sopra i SUV dei new rich che cuciono il tessuto della nuova nazione più dei principi su cui si fonda.
L’Albania è un motore acceso dopo decenni di ruggine: la voglia di correre e i ritardi strutturali sono le pale di un’elica che scricchiola ma corre veloce. I cantieri sono ovunque. Tra orrori urbanistici e follie ambientali i dollari e gli euro surclassano i lekë, carta buona per identificare una sovranità in vendita.
L’Albania di oggi è il nuovo per definizione, l’ossessione della ricchezza per forza e delle possibilità come diritto acquisito. Chi rischiava la deportazione solo per aver ballato o pregato ai tempi della criminocrazia comunista oggi si ritrova schiacciato tra il turbofolk a tutto volume e le melodie occidentali che arrivano dal canale di Otranto. La leggendaria Radio Tirana cara a Battiato oggi spara melodie pop, imitazioni balcaniche della nostra musica leggera.
Girare per l’Albania mette allegria. L’ammirazione viscerale che gli albanesi nutrono per l’Italia, l’immenso potere d’acquisto e il senso di “tutto legittimo” che si respira ovunque danno un senso di forza quasi assoluto. L’Albania è il Paese dei Balocchi a un metro da casa, passato in meno di venti anni dallo stalinismo patologico del regime di Enver Hoxa al mercato frenetico, dove i primi furbi che sono arrivati hanno fatto bingo.
Una ragione c’è. L’Albania è un Paese più strategico di quanto s’immagini. Incastrato tra le macerie della Grecia e gli slavi in frantumi più a nord, è un’isola a sé: opposta all’Occidente, uscita dal Patto di Varsavia negli anni ’60 ma nemica al tempo stesso del comunismo titino, è rimasta isolata dal mondo, alienata da un’unicità etnica a cui nemmeno le ossessioni della Corea del Nord potrebbero ambire.
L’Albania è piccola ma una bomba pronta a esplodere. È l’unico Paese in Europa che vanta proprie minoranze oltre i confini di tutti gli Stati che la circondano: 2 milioni di albanesi in Kosovo, mezzo milione in Grecia, 600.000 in Macedonia, altre decine di migliaia in Montenegro. Il progetto della Grande Albania su cui hanno soffiato gli USA per un decennio si è edificato proprio su questo.
È stato un momento. Cambiato il mondo nel 1991, chi ha capito si è dato da fare, anche perché da fare c’era parecchio, praticamente tutto: al crollo del regime c’erano in tutto 300 km di ferrovie (diesel e con scartamento diverso del resto d’Europa) e un solo aeroporto internazionale per un’intera nazione. Nonostante il Paese delle aquile fosse un insieme di montagne aspre, l’intera rete “stradale” non vantava nemmeno un tunnel.
Dall’abisso alla superficie il salto è stato rapido. Dopo gli sconquassi seguiti al crollo delle istituzioni e alla diaspora di un popolo prigioniero per decenni, alla fine degli anni ’90 Tirana è tornata a galla registrando tassi di crescita “asiatici”. Al 2016 è l’unico Paese del continente a prevedere un + 4% previsto sul PIL e una concomitante diminuzione della disoccupazione.
Ma è con le apparenti flessioni dei numeri che vanno letti gli enormi passi in avanti: il tasso di crescita del PIL tra il 1999 e il 2013 è passato dall’8% allo 0,7%. A partire dal 2008 il decremento della crescita è stato ancora più deciso. Albania in crisi allora? Tutt’altro. Il Paese dopo un decennio di sviluppo strutturale si è agganciato al trend dell’economia globale seguendone i flussi. Da Paese “diverso” si è trasformato in “Paese in crescita” legato alla sinusoide dei mercati, alla faccia di chi come l’Italia, nel frattempo è rimasto a guardare.
Chi c’è dietro questi numeri?
La Banca d’Albania è stata presa per mano da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale suggellando nei fatti la supervisione di Washington sullo sviluppo nazionale. L’occhio americano vigila su ogni settore: dopo secoli d’indifferenza il New York Times nel 2014 ha inserito l’Albania tra le prime 5 mete turistiche più consigliate del mondo. Qualche interesse? Oggi il turismo rappresenta più del 10% del PIL con ricadute su noi dirimpettai che nei prossimi anni faremo i conti con un concorrente sempre più motivato e competitivo. Con meno di 10 € a Saranda (ex Porto Edda) si mangia lo stesso pesce del Salento con un mare dal potenziale tutto da sfruttare.
L’Albania, lontana anni luce dai luoghi comuni dei primi sbarchi in Puglia degli anni ’90, fa gola a molti. Economia e geopolitica vanno a braccetto. Dalle quinte del palcoscenico Balcani il Paese si è ritrovato al centro delle grandi questioni regionali. La guerra del Kosovo del 1999 è passata dai palazzi di Tirana, a un passo da quella Rruga George W. Bush arteria della capitale che la dice lunga.
Quando Durazzo sarà collegata a Pristina col Corridoio Europeo n. 8, capiremo meglio cosa abbiamo di fronte e cosa ci siamo lasciati sfuggire.
Perché di questo si tratta: di un’occasione mancata. 3 albanesi su 4 parlano italiano; moda costumi e tendenze dipendono dai ripetitori italiani che se non fanno dell’Albania la 21a regione d’Italia poco ci manca. Basta passeggiare per Blloku, la zona degli aperitivi a Tirana, per capire che il ricordo degli italiani qui è tutto tranne che negativo.
Investire in Albania significa pagare il 10% di Irpef o possedere il 100% di una società senza avere la cittadinanza. Sotto un’ottica culturale, economica e storica avevamo tutti le carte per essere i fratelli maggiori di Tirana. Ora sono gli States a farci campo base…
Anche sotto il profilo militare, la musica non cambia. Nel 2009 l’ex stalinista Albania è entrata nella NATO. Le FARSH (Forze Armate albanesi) sono rientrate nel 2002 nel programma di sviluppo e modernizzazione del Dipartimento della Difesa USA, aderendo a missioni internazionali in Afghanistan, in Iraq, in Bosnia e addirittura in Ciad e Georgia. Benché il programma americano preveda un aumento della professionalità e una riduzione di numero, oggi sono poco meno di 30.000 gli albanesi in armi, circa l’1% della popolazione, una percentuale prussiana.
Al grande fratello USA si è affiancato il “cugino” turco. L’adesione all’Alleanza, prevista già ai tempi di Berisha, è stata possibile grazie al livellamento verso l’alto degli standard militari realizzato col generoso intervento della Turchia.
Tirana e Ankara a braccetto?
Turchia e Albania hanno una storia controversa ma fortemente intrecciata. Cosa voglia dire oggi, è tutto da scoprire.
(foto: autore/FARSH)