Damasco è una città al minimo. Arrivarci fa uno strano effetto, soprattutto se non è la prima volta: poco traffico e troppe luci spente la notte. Per chi ci vive o c’è già stato negli ultimi quattro anni è diverso. In realtà la città sta rifiorendo. Comincia a tornare la gente nei ristoranti, le strade si riempiono, qualche fiore spunta tra macerie e schegge di muro.
Fino a poco tempo fa ai check point militari i kalashnikov spianati erano la regola. Ovunque l’ostentazione delle armi diventava ingombrante, ossessiva. Rinunciando a sé stessa, Damasco odorava di piombo e polvere pesante.
Oggi, pur senza abbassare la guardia, l'impressione generale è una grande voglia di normalità. La sicurezza passa dalle canne dei fucili abbassati, da qualche sorriso in più, da una maggiore disponibilità di soldati e uomini della sicurezza. Se sia una politica o un comportamento legato alle buone notizie che arrivano dal fronte non è dato saperlo. Gli uomini seduti nei caffè meno frettolosi di ieri lo dimostrano: Damasco lancia segnali di un ritorno alla vita, lento ma progressivo.
Dall’attentato di tre giorni fa alla moschea di Sayyida Zeinab all’eco delle detonazioni ci abbiamo fatto l’abitudine. Sullo sfondo di ogni giornata ci sono boati e ritorno di esplosioni in lontananza. Se siano bombe, granate a razzo o cannoneggiamenti non è chiaro. È una litania senza fine, pesante e discreta allo stesso tempo. La guerra c’è ma non si vede. Porta il suo carico di angoscia con discrezione, intrecciata a quella normalità di cui si ha disperatamente bisogno.
Eppure Damasco nonostante gli orrori mantiene tutto il suo fascino: tra i merletti architettonici della città vecchia e i colori dei banchi di spezie, nelle antichissime e strette viuzze del centro ci si dimentica quasi che a pochi km da qui c’è ancora l’inferno. Un inferno che dura da troppi anni e che questa gente non merita.
Domani ci avvicineremo ai luoghi dove si spara, dove si combatte, dove si vince o si muore.
(foto: Andrea Cucco)