“Oddio! Sono qui, sono qui!!! L'ISIS è arrivato al nostro villaggio! Papà...”
La linea s’interrompe.
È accaduto lo scorso anno a Tal Jazira, il 23 febbraio, in un piccolo villaggio a prevalenza cristiana cattolica del Governatorato di Al Hasaka, nel nordest della Siria.
Jozephine, Tamrass e Sharbel Joseph sono tre ragazzi di 22, 21 e 16 anni. Sono in casa assieme al nonno ottantasettenne quando alle quattro del mattino riecheggiano i primi colpi di arma da fuoco. Dopo tre ore il paese cade nelle mani delle bestie. I terroristi sfondano le porte delle abitazioni e comincia il rastrellamento...
Martìn, il padre, è un falegname; assieme alla moglie si trova a 30 chilometri da casa per impegni di lavoro. Appena ricevuta la tremenda telefonata dalla figlia non esita e si mette subito in viaggio. Deve sapere cosa sta accadendo alla propria famiglia!
Quando torna al villaggio trova il deserto. Nessuno in strada.
Le porte di casa sono chiuse. Comincia a gridare disperato i nomi dei propri figli. In risposta solo l'eco della propria voce e un silenzio assordante di paura e morte...
Dentro non c'è nessuno.
All'esterno si sente una voce seguita da raffiche di mitra. Il terrorista entra in casa sparando. Martìn si butta a terra, cercando di nascondersi. Quando l'arma esaurisce i colpi e l'uomo cambia il caricatore esce allo scoperto.
“Sto cercando la mia famiglia, non sparare! I miei figli erano qui...”
L'uomo ricarica l'AK, inserisce il colpo in canna e con un sorriso sadico pronuncia una frase atroce:
“Li abbiamo ammazzati tutti i tuoi figli! Li abbiamo portati al fiume e li abbiamo freddati. Tu sarai il prossimo!”
Martìn rimane di pietra ma riesce a tenere gli occhi puntati su quel sadico sciacallo. È un miliziano degli Emirati Arabi, o almeno così si presenterà più tardi.
Non viene portato al fiume ma in una struttura dove sono stati radunati 97 abitanti di Tal Jazira e di un villaggio vicino. Ritrova i suoi figli e l'anziano padre. Uno ha un braccio rotto ed il padre perde sangue dalla testa.
“Erano militanti dell'ISIS e provenivano da mezzo mondo: Marocco, Libia, Iran, Emirati, Francia, Germania...”
Sentir citare Paesi europei non ci sorprende. Il fenomeno dei foreign fighters è risaputo: cittadini immigrati di seconda o terza generazione non integrati nelle società occidentali che cercano uno scopo di vita nella celebre jihad del Califfato.
Martìn fa chiarezza su un punto; alza il tono della voce e aspira con più forza la sua sigaretta corta.
“Ma quali jihadisti?!!! Quelli erano francesi e tedeschi europei! Bianchi, mica arabi. Il medico che ha fasciato il braccio di mio figlio, spezzato durante il sequestro, era un francese doc. Lo stesso ha anche curato la ferita alla testa procurata con il calcio di un fucile a mio padre!”
Poi aggiunge un altro dettaglio: nessuno di loro parlava arabo.
Chiediamo se durante la prigionia avesse incontrato anche jihadisti italiani. La risposta, in un quadro che si fa inquietante e dai possibili contorni inediti, è confortante: uzbechi, kazachi, francesi, tedeschi, sauditi, emiratini e molti altri ancora, ma nessun italiano!
Un pensiero comincia a farsi strada, un'ipotesi difficilmente dimostrabile ma che proverebbe l'abietto coinvolgimento di governi occidentali nell'appoggio indiscriminato al terrorismo fondamentalista in Siria: la testimonianza dello sterminio di un intero plotone di militari, avvenuto nel deserto proprio lo scorso anno (v.articolo). Possono essere state impiegate forze speciali occidentali per uccidere militari regolari siriani? L'efficacia nel massacro raccontatoci a febbraio ne sembrerebbe opera. La presenza di tanti cittadini europei nelle fila dell'ISIS potrebbe sottintendere appoggi governativi meno indiretti di quel che si vorrebbe far credere?
Torniamo all'uomo che abbiamo di fronte.
“Siamo stati divisi: io, mio padre ed i miei due figli maschi siamo stati portati fino al 5 ottobre ad Al Shaddadi, alcune decine di chilometri a sud di Al Hasaka, un'area nota per una raffineria di petrolio. Poi, fino al momento della liberazione a Raqqa. Mia figlia Jozephine è stata separata da noi e mandata altrove assieme alle donne del villaggio...”
Avendo letto tanti racconti sul destino femminile di chi subisce il dominio dell'ISIS, con un po' di pudore ed imbarazzo, chiediamo se abbia subito abusi...
La risposta sembra sincera.
“Fino al rilascio non è stata toccata. Al momento del sequestro ha preso con se dei farmaci, letali se assunti in eccesso. Ci ha detto di essersi ripromessa di togliersi la vita se una di quegli animali l'avesse stuprata. Al ritorno a casa li aveva ancora con sé... Stessa sorte non è toccata però ad una sua amica di soli 15 anni: è stata data in sposa al magistrato di Raqqa. Un cinquantenne...”
Chiediamo come abbia fatto a resistere non avendo notizie della figlia.
“È stato tremendo. La risposta che ricevevo dai miei carcerieri era sempre la stessa. Mi dicevano che era stata venduta con le altre e che era finita in Iraq o a Raqqa come schiava. Dopo sei mesi sono riuscito a convincere uno di loro a farle avere un messaggio”.
Da una busta Martìn tira fuori un foglio intero ed un piccolo pezzo di carta scritto in arabo: una lunga lettera ed un breve messaggio di risposta.
“Ho potuto scriverle una lettera. La sua risposta è stata breve ma rassicurante: mi ha detto di stare vicino ai fratelli, al nonno, e di non preoccuparmi”.
Chiediamo come sono stati trattati.
“Ci hanno ridotto in schiavitù. Non abbiamo però subito torture fisiche. Sentivamo spesso urla giungere dall'esterno. Per torturare usavano spesso la corrente elettrica. Per un intero anno non abbiamo visto la luce del sole”.
Chiediamo come mai in altri episodi in Siria gli “infedeli” sono stati subito giustiziati mentre a loro è stata risparmiata la vita.
“Perché quella cristiana è considerata una comunità ricca da cui ottenere profitto. E infatti è poi arrivato il momento di sollecitare il riscatto. Hanno fatto così indossare a sei di noi le tuniche arancioni dei detenuti di Guantanamo...”
Martìn tira fuori il cellulare e lascia raccontare alle immagini quello che le parole non possono appieno.
Tre suoi compagni vengono barbaramente trucidati con un colpo alla nuca. Pochi attimi dopo Martìn è in ginocchio dietro ai cadaveri con altri due prigionieri.
“Credevo che fosse finita. L'ultimo pensiero è andato a mia moglie”.
La consorte è seduta vicino a noi. Gli occhi di entrambi cominciano a bagnarsi senza freno. Dobbiamo interrompere per qualche minuto.
“Il nostro secondo turno di fronte alla telecamera era per sollecitare il pagamento. Ho dovuto dire che se non fossero arrivati i soldi avremmo fatto la stessa fine di quelli a terra di fronte a me”.
Sui video delle esecuzioni dell'ISIS è stato scritto parecchio. In particolare si è spesso scritto che le vittime sarebbero state abituate a numerose simulazioni per essere rilassate al momento di quella reale. Tuttavia nel video tre esseri umani sono stati appena freddati!
Come avete fatto a rimanere tranquilli? Non avete cercato di compiere un ultimo gesto disperato cercando di afferrare un'arma ai vostri boia?
Martìn sorride - “Nei video si vedono solo le vittime e i terroristi alle spalle. Quel che non appare mai sono i venti uomini armati dietro alla videocamera!”
Dovrebbero essere stati pagati 6 milioni di euro dalla Chiesa, tramite organizzazioni cattoliche, per il rilascio degli ostaggi.
A distanza di un anno esatto dal momento del sequestro Martìn, assieme ai figli e al padre hanno potuto riabbracciare la moglie. La donna per un intero anno non ha ricevuto notizie di alcuno dei suoi cari.
Cosa pensa della guerra?
“Che è stata causata da Paesi come quelli che hanno devastato la Libia per fini umanitari. Oggi in Libia non c'è un solo metro quadro di terreno in cui quelle parole vuote si siano concretizzate... Ci siamo a lungo fidati dell'Occidente. Oggi abbiamo a caro prezzo realizzato che l'unica istituzione degna di fiducia è l'esercito del nostro Paese”.
L'ultima domanda riguarda il messaggio che si sentirebbe di fare, da cattolico, al mondo occidentale ed all'Unione Europea.
La risposta arriva rapida, secca e risuona come una frustata:
“Vi prego fermate i vostri media, hanno causato più morti delle armi”.
testo: Andrea Cucco, Giampiero Venturi, Giorgio Bianchi
foto: Giorgio Bianchi (in alto: lettere scritte durante la detenzione ed una croce realizzata con noccioli di olive. Terzultima e penultima dell'intervistato: la liberazione)