Reportage Siria: Palmyra ed il peso della rimembranza

(di Giorgio Bianchi)
03/11/16

Per raggiungere la perla del deserto di strada occorre farne molta; non si tratta di una strada qualsiasi ma più che altro di un tappeto di asfalto srotolato sopra un mare di sabbia e rocce.
Il nostro autista pigia sul pedale e la macchina sfreccia attraverso un panorama solo apparentemente uniforme.
Tra l’oceano rosso dei sedimenti e quello grigio scuro delle nuvole compatte sono molti i dettagli che sfuggirebbero ad un occhio poco allenato: pastori nomadi con le greggi al pascolo, rifugi per animali, sfiatatoi di oleodotti sotteranei, impianti per l’estrazione del gas, e poi un’infinità di relitti riconducibili alla guerra.

Madam Hayat, la nostra guida questi posti li conosce come le sue tasche: tra Homs e Palmyra non c’è soldato semplice o ufficiale che non la conosca.
Con lei seduta di fianco all’autista, le decine di check point disseminati lungo la strada vengono superati rapidamente, la sua presenza è una garanzia di regolarità.
La medaglietta d’oro con l’effige di un giovane che esibisce con orgoglio testimonia che anche lei, come moltissime mamme siriane, ha pagato il suo tributo di sangue alla guerra avendo perso un figlio e avendone un secondo ancora sotto le armi (rimando all’articolo sui martiri).

Ad un certo punto sulla nostra destra spuntano dei rilievi circondati dalla nebbia; la nostra guida non esita ad indicarceli sottolineando che da quelle alture per lunghi mesi la soldataglia dell’ISIS dava il via alle sue sanguinose scorribande, per poi farvi celermente ritorno sfruttando quella foschia che tutto dissolve alla vista.

Vedere con i propri occhi i luoghi, che per mesi hanno turbato i sogni degli occidentali con immagini di decapitazioni e torture, ha il sapore dei mostri che si dissolvono una volta accesa la luce.
Quella feccia umana armata da mani neanche troppo invisibili, si è dissolta come neve al sole una volta accesa la luce della volontà di estirparla con la forza, ed alla fine della loro potenza è rimasto soltanto il ricordo della grottesca tracotanza di filmati dal taglio troppo hollywoodiano.

Ma a ridestarci dall’orrore di quei ricordi appare come vero e proprio miraggio su delle alture del deserto la cittadella di Palmyra.

Un ultimo check point ci separa dalla vista della città nuova che si estende dinnanzi a noi fiancheggiata dalla città millenaria patrimonio dell’UNESCO. Due soldati dalle fattezze non propriamente arabe ci scrutano con asiatico contegno attraverso occhi che appaiono come fessure imperscrutabili….ci dicono che sono volontari afghani.

Un’ultima tappa ci separa dalla possibilità di fotografare e filmare il sito: l’agreement da parte del comandante della guarnigione ed è da lui che ci rechiamo senza ulteriori indugi.
La stradina che ci conduce al suo edificio è una sorta di Orgosolo in salsa siriana: sul muro che la fiancheggia fanno mostra di sé dei murales che richiamano alla famiglia Al Assad ed all’alleanza russo-siriana.

Il comandante ha l’aria gioviale e l’aspetto del buon padre di famiglia, ma il domino di pallottole di Kalashnikov in rigoroso ordine posto in una teca alle sue spalle ci ricorda che il suo mestiere ha poco a che fare con la bonarietà: sarà infatti lui ad informarci di non farci sviare dal suo aspetto poiché se ammazzi personalmente in combattimento 60 terroristi tanto ordinario non puoi di certo essere.

Anche con lui le cose vengono sistemate alla svelta: abbiamo il permesso di fotografare e filmare, di entrare nel museo e nel sito archeologico, insomma un programma full optionals.

Per la nostra sicurezza e per far si che non vengano compiute imprudenze ci affida nelle mani di un suo subordinato che ci accompagnerà per tutto il tempo della nostra visita, del resto siamo in prima linea ed il rumore dei colpi che proviene dalla finestra non lascia adito a dubbi.
Prima di andare ci tiene a mostrarci la foto del figlio che tiene nel cellulare ed a quel punto l’aria bonaria ha più senso che mai.

Il cellulare del nostro accompagnatore ha purtroppo invece immagini meno rassicuranti… al suo interno ci sono infatti foto e video recuperati dai dispositivi dei terroristi uccisi: c’è tutto il campionario di quanto di più abietto un uomo possa compiere.

Gli chiediamo se assieme a quelle immagini sono state recuperate anche armi di provenienza occidentale, magari da mostrarci, ma la risposta è che non le hanno lì con loro e preferiscono non parlare di cose che non possono dimostrare.

Appena usciti dal comando saliamo in macchina per recarci al sito, ma il richiamo della strada è più forte….decidiamo di dedicare qualche minuto alla vita che, anche in una città in prima linea, sta ricominciando a fare capolino.
Come sempre la scelta di mantenere il contatto con la strada si rivela vincente; fatti pochi metri si ferma davanti a noi una Tecnica (pick-up con mitragliera, ndr) con a bordo un gruppo di volontari capitanati da uno sceicco lealista.

Sono al fronte da tempo e stanchi della solita routine… Un occhiata, un balzo felino e siamo a bordo del cassone con i piedi immersi nei nastri di pallottole… sorrisi, pacche il volto umano di quegli eroi per troppo tempo invisibili dimenticati dai media in una battaglia solitaria contro le armate del Califfo.

Dall’alto della Tecnica riesci a notare più cose; le ferite della guerra e le vestigia di una città che ha accolto turisti da ogni parte del globo… Chissà se passeggiando pigramente tra quei viali densi di storia e di atmosfera, soggiornando in alberghi dalla tradizione decennale, avrebbero mai potuto immaginare che quel luogo sarebbe stato teatro di tante atrocità.

E’ come se la barbarie dei secoli scorsi fosse riaffiorata per possedere gli animi di poveri diavoli ignoranti, privi di quel discernimento che ti consente di rifuggire dalla propaganda delirante.

Il nostro tour privilegiato ci porta dinnanzi ad un gruppo di soldati intenti a lucidare proiettili degli anni ’80 affianco di un carro degli anni ’50: la storia riaffiora in ogni dove in questa città magica e maledetta nello stesso tempo.

Arriviamo infine all’edificio adibito a comando delle milizie volontarie; all’ingresso ci sono tre personaggi che sembrano usciti direttamente dalla penna di un narratore troppo fantasioso per sembrare credibile: uno è in completo grigio ed imbraccia un Kalashnikov, un altro è un misto tra uno chansonnier ed un pittore di Monmartre ed il terzo ha dei baffi da far invidia ad un feldmaresciallo asburgico… hanno il fascino romantico di chi è fuori luogo e fuori dal tempo in quanto segue rotte dettate dagli ideali.

Lasciate le truppe al loro dovere ci rechiamo finalmente verso il sito, la prima tappa la facciamo al museo.
Le teche vuote ed i ganci solitari appesi alle pareti ci ricordano di quanto materiale, a volte, possa essere l’assenza di un qualche cosa; in questo caso quell’assenza ci riguardava da vicino, era venuto a mancare un qualche cosa che fa parte del retaggio di tutti noi un patrimonio che i nostri avi ci avevano lasciato in eredità.

Ci dicono che non tutto è stato trafugato e che parte dei reperti è al sicuro nel museo di Damasco.
L’assenza di questo tesoro testimoniava la presenza di un qualcosa tanto impalpabile quanto grandemente presente in quel luogo… la follia, la barbarie, la bestia che solo la civiltà può tenere a bada.

Ecco quelle teche ora, al posto della massima espressione del genio e del talento umani, ci mostrano con chiarezza e semplicità museale quanto di più basso ci possa essere nell’animo umano… E forse non sarebbe cosa del tutto sbagliata lasciare tutto così com’è, a futura memoria per i posteri.
Il sito archeologico di fianco al museo è una sorta di miraggio… Vorrebbe restituirci quella pace scacciata dalla vista dello scempio dei reperti museali.
La contemplazione in questo caso è disturbata dal rimbombo delle esplosioni, amplificate dalla vallata circostante, piuttosto che dal vociare dei turisti.
Chi l’avrebbe mai detto che avremmo rimpianto il turismo di massa.

Dove non arriva il frastuono dell’artiglieria, partono i racconti di madam Hayat a dissolvere la magia di quel luogo millenario: le nicchie del teatro dove venivano allineati i prigionieri da decapitare, il laccio avvolto al capitello corinzio del proscenio per appendere le teste (foto sotto), il rosso del sangue che ha colorato di rosa la sabbia chiara del palco… Tutto così sereno ed immobile tutto così pregno di orrore e martirio.

Palmira saprà farsi carico anche di questo e lo saprà tramandare alle generazioni future come ha sempre fatto negli ultimi 4000 anni.

Foto: Giorgio Bianchi

Video: Andrea Cucco