La Siria non ha a cuore la vita dei propri figli. È questo il messaggio che viene trasmesso ogni giorno all'estero.
Lasciamo Damasco e ci dirigiamo verso nord, verso la costa.
Il traffico sulle strade è lo stesso che avevamo osservato a febbraio: auto, furgoncini, camion, cisterne e convogli militari.
Tartous è la città che ha versato il più alto tributo di sangue per il Paese. Si riconosce dal fatto che è tappezzata di foto di “martiri” caduti per la Patria.
Ogni strada, ogni numero civico, ogni scuola, ogni edificio di culto è ricoperto di foto di uomini e ragazzi, spesso giovanissimi, in mimetica. Qui più che altrove non c'è famiglia che non abbia perso qualcuno in guerra: un padre, un fratello, un figlio.
Abbiamo appuntamento con un collega. Quando lo raggiungiamo ci stringe la mano e chiede cosa vogliamo documentare.
Ci conducono ad un campo di “displaced” (sfollati) che noi impropriamente chiamiamo “profughi”. Sono i dettagli a ricordarci che la Siria non è la Libia o l’Iraq. Alla faccia di chi prova a dividerlo, è un Paese unito, un pezzo unico.
Abdul Rahim, fuma e telefona. Dopo cinque minuti ci dice di seguirlo in periferia.
Palazzine basse e scheletri di edifici alti in costruzione. Se la vita si vede dall'edilizia, qui è in piena ripresa.
All'ingresso del centro, un edificio bianco di tre piani, troviamo ad attenderci Yasser Al Abaas il supervisor.
Poco distante ci sono bambini che giocano. In pochi minuti ne arrivano a decine. Sono attratti dalla novità: stranieri con una fantasmagorica macchina fotografica.
Nel cortile sbrecciato riecheggiano grida chiocce di bambini felici. Mai vista tanta gioia gratuita. Sono lontani dall’odio che li ha strappati ad una vita normale. La guerra gira intorno e loro girano dentro la guerra.
Molti di loro ci rivolgono saluti e domande in inglese. I più piccoli, bimbi che parlano a malapena l'arabo, conoscono già frasi come “the cat is on the table” o “good morning teacher!”. Urlano in cerca di una conferma.
Veniamo invitati all'interno. Si vedono principalmente donne e bambini. Gli uomini sono pochi, anziani, morti o al fronte...
Ogni assegnatario dispone di una stanza le cui dimensioni variano in base alla composizione del nucleo familiare. Ogni occupante ha una storia da raccontare per lo più fatta di affetti o luoghi cari dovuti abbandonare in tutta fretta a causa dei terroristi.
Ogni stanza corrisponde ad un mondo fatto di mobili, di elettrodomestici, di oggetti di uso quotidiano, di libri e di ricordi, poiché ognuno di questi ambienti custodisce tutta la vita di queste persone.
Dal fronte di Aleppo arriva intimidito dalla confusione un ragazzino in mimetica. Ha 19 anni, ne dimostra 16. Il padre è ospite della struttura e mi dice orgoglioso che è suo figlio, che combatte per il suo Paese. Lui, purtroppo, non ha più l'età per farlo.
Ci avviciniamo al responsabile del centro per fare qualche domanda.
Quante strutture come questa sono presenti in città?
Ventitre.
E quanti sfollati ospitate?
Abbiamo 83 famiglie ed un totale di 400 persone. Io stesso sono uno sfollato! Vengo da Homs. Hanno dato fuoco alla mia casa il primo anno di guerra e sono scappato dal mio luogo di origine assieme alla mia famiglia. Sono una persona pacifica e non ho accettato l'imposizione delle idee violente, estremiste, saudite, dei ribelli. Non avendo condiviso le loro idee mi avevano condannato a morte.
Quanti sono nella vostra condizione e quali sono le aree di origine?
Ci sono tre milioni di siriani nel Governatorato di Tartous. Vengono da Aleppo, Idlib, Raqqa, Deir Ezzor...
E ce ne sono altri tre nel Governatorato di Latakia! Sei milioni di persone che non sono scese a patti con i terroristi “sauditi”. L'alternativa offerta da questi era ed è solo la morte.
Solo una piccola minoranza di siriani ha accettato o condiviso le imposizioni ideologiche terroriste degli stranieri: sauditi, turchi, americani...
84 differenti nazionalità stanno combattendo in Siria. Molti provengono da Paesi islamici.
Personalmente sono favorevole ad una soluzione pacifica del conflitto. Abbiamo chiesto ripetutamente ai cosiddetti “ribelli moderati” di tornare e trovare un accordo.
Il termine che utilizziamo è “terroristi”. Questo non differenzia tra ISIS, Jabat Al Nusra o altri gruppi. Nessuno di loro è disposto a trovare una soluzione non violenta.
Se il governo italiano è a conoscenza di una reale opposizione moderata ce la indichi, la incontreremo volentieri anche a Roma. Purtroppo non l'abbiamo mai vista.
In Italia abbiamo fatto l'opposto: abbiamo sempre chiamato “ribelle moderato” qualsiasi criminale.
Qualsiasi opposizione ha a cuore il bene del proprio Paese, della propria gente. Nessun “moderato” può essere causa della fuga di milioni di concittadini costretti spesso a vivere con le famiglie in condizioni assurde per le strade o sotto i ponti.
Desidera vendetta?
Assolutamente no. Come siriani possiamo perdonare anche chi ci ha ucciso e fatto patire tante sofferenze, pur di terminare la guerra. Questo perché - lo ripeto - siamo siriani: gente pacifica e democratica, i veri moderati.
Come giornalista sta sentendo i nostri propositi e la nostra disponibilità. Può fare altrettanto da loro?
Be', tanti colleghi sono finiti sequestrati, me lo risparmierei.
Una folla di bambini chiede di essere fotografata. Sono il prodotto di più di cinque anni di tortura.
Chiedo ad uno ad uno quali siano i sogni per il futuro. C'è chi vuole diventare medico, tassista, ingegnere, soldato, insegnante e avvocato (uno anche difensore legale militare!). Sono le ambizioni di bimbi che, secondo la propaganda in atto da anni, il “regime” potrebbe assassinare senza pietà se necessario.
Guardiamoli negli occhi questi fanciulli, sono il frutto di una barbarie che prosegue in silenzio. Di un massacro di cui anche noi, proprio perché occidentali, non possiamo non sentirci colpevoli.
Buona visione!
testo: Andrea Cucco, Giampiero Venturi, Giorgio Bianchi
foto: Giorgio Bianchi