Ankara all'offensiva nel nord della Siria. Turchia e USA ai ferri corti per la questione curda

(di Giampiero Venturi)
06/07/17

Il primo vero attacco massiccio è iniziato la notte di lunedì 3 luglio. L’artiglieria turca ha iniziato a martellare con obici T-155 e lanciarazzi T-122 Sakarya le postazioni dei curdi delle YPG nel distretto di Afrin, nel nord della Siria.

Siamo a una manciata di km dalla frontiera turca, attraversata da cospicue forze corazzate di Ankara già da due settimane. Si parla di decine e decine di carri armati e veicoli blindati appartenenti al 7° Corpo d’Armata.

Gli obiettivi strategici turchi sono due:

- allontanare dal confine le forze curde delle YPG, per una distanza prevista non inferiore ai 30 km;

- creare un corridoio fra il cuscinetto nel nordest della Siria in mano ai ribelli filoturchi e il governatorato di Idlib (nord ovest) dove la supremazia turca è messa in discussione dal nuovo cartello jihadista Hay’at Tahrir Al-Sham, erede di Al Nusra (Al Qaeda), ma poco propenso a prendere ordini da Ankara.

Secondo il giornale turco Daily Sabah, l’offensiva sarà simile a Scudo dell’Eufrate terminata lo scorso marzo e si dirigerà sulla stessa città di Afrin, capoluogo del distretto di confine.

Il grosso del contingente impegnato sarà costituito da ribelli, anche se alcuni gruppi come i Discendenti del Saladino, sembrano riluttanti ad attaccare i curdi. Il supporto aereo, l’artiglieria e le truppe corazzate verrano comunque forniti dall’esercito regolare turco.

Le milizie YPG sono il braccio armato del Partito dell’Unione Democratica, considerato dalle autorità di Ankara affiliato al PKK e quindi alla stregua di gruppo terrorista separatista.

L’intervento turco tuttavia non si circoscrive ai soli attori chiamati in causa, ma assume un rilievo regionale.

A metà strada tra la città di Azaz (controllata dai filoturchi sulla strada tra la frontiera e Aleppo) e Afrin (in mano ai curdi), c’è la base russa di Kafr Jana.  Nel marzo scorso, Mosca aveva concordato con la Turchia una comune presenza nel nord della Siria. Per quanto possa sembrare incongruente con il complesso schema di alleanze nella crisi siriana, la presenza russa rappresenta un dato geopolitico di grande rilevanza. In sostanza, nel contesto delle de-escalation zones, Mosca non si oppone al rafforzamento dei turchi a ridosso della frontiera siriana, puntando piuttosto sugli attriti che ciò può comportare in seno alla NATO. 

Il dato manda su tutte le furie gli alti comandi curdi che si ritengono (dichiarazioni del 5 luglio del “generale” curdo Sipan Hemo) vittima di una cospirazione ordita da Turchia, Russia e Siria.

A proposito dei rapporti fra Ankara e Washington, le relazioni rimangono in equilibrio sull’orlo di un baratro (vedi articolo). Gli Stati Uniti sono fermamente contrari ad un intervento turco contro i curdi, al punto da iniziare a pattugliare con propri militari il posto di confine di Tall Abyad, sul lato est della frontiera turco-siriana. Anche l’afflusso di armi americane per le SDF continua ad arrivare puntualmente: in queste ore a Qamishli sono state consegnate decine di Humvees armate con missili anticarro e mitragliatrici.

La possibilità che Ankara possa mettere in atto un’invasione vera e propria della Siria del nord è rimasta sospesa fin dall’agosto del 2016, quando con l’operazione Scudo dell’Eufrate, dietro lo scopo ufficiale di attaccare l’ISIS, la Turchia mirava già a contenere i curdi nelle regioni del nordest (a est dell’Eufrate appunto).

Tutta l’attenzione mediatica è stata catturata da Euphrates Wrath, l’operazione delle Syrian Democratic Forces, milizie a maggioranza curda appoggiate dagli USA, tesa a liberare Raqqa dallo Stato Islamico. In realtà la penetrazione oltre Raqqa (città araba, non curda, nda) non rientra negli interessi strategici dei curdi se non nella misura in cui l’operazione aumenta il credito da incassare con l’Occidente a fine guerra. Quando la diplomazia prenderà definitivamente il posto delle armi in Siria, il prezzo per il servizio fornito dai curdi, non potrà essere inferiore all’autonomia federale. Almeno secondo i calcoli interni alla leadership del Rojava.

Uno scontro su larga scala tra turchi e curdi a nord distoglierebbe in ogni caso le forze curde dal continuare l’operazione contro l’ISIS a sud. In questo contesto, verrebbe compromesso il primario interesse della coalizione Anti-ISIS a guida USA, e cioè impedire che i confini tra Iraq e Siria tornino nelle mani di Assad.

In altri termini, una guerra aperta tra Turchia e miliziani curdi, cozzerebbe col progetto americano di una permanenza di lungo periodo nella Siria orientale.

Attualmente la porzione di Siria a est dell’Eufrate compresa tra Iraq e Turchia (fatta eccezione per il territorio ancora in mano all’ISIS) è in mano ai curdi appoggiati dagli americani. Sono già sette le basi USA messe in piedi nel Paese arabo, compreso l’aeroporto di Tabqa, a ovest di Raqqa (e dell’Eufrate...). I siriani spingono da ovest per arrivare al fiume e rompere l’assedio di Deir Ezzor. Su questo quadrante si giocherà la partita militare dei prossimi mesi, con l’ISIS ormai in liquidazione.

La futura presenza USA in Siria, dipenderà invece dai rapporti con i curdi e dal sempre più sottile filo che lega Ankara a Washington.

 (foto: Türk Kara Kuvvetleri)

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