Dall’alba del 17 ottobre, tutte le principali agenzie di stampa battono la stessa notizia: “Iniziata la battaglia di Mosul, roccaforte dello Stato Islamico in Iraq”. Da dieci giorni, si susseguono le notizie sui progressi dell’armata anti ISIS, con aggiornamenti più o meno confermati sul campo.
L’offensiva generale era stata annunciata circa due mesi fa ed è essenzialmente condotta dall’esercito iracheno, dai curdi e dalle NPU, le Ninive Protection Units, create nel 2014 per difendere l’identità assira (e cristiana) nelle storiche regioni del nord dell’Iraq. La supervisione e la gestione della campagna aerea di supporto sono americane.
Il primo elemento da rilevare è la grande attenzione mediatica data all’evento, ritenuto il punto di svolta nella guerra allo Stato Islamico e l’avvio di una futura stabilizzazione della regione.
In particolare i principali tg, almeno nei primi giorni, si sono soffermati sulla massiccia presenza turca, al confine turco-iracheno, distante poco più di 100 km a nord di Mosul.
In parallelo si continuano a seguire le evoluzioni militari sul fronte curdo-siriano (anche il confine siriano dista poco più di 100 km, ma a ovest di Mosul).
Nel marasma di notizie non sempre attendibili, proviamo a fare ordine concentrandoci su dati quanto più obiettivi possibili.
Mosul, celebre anche per la mussolina cara ai nostri sarti, è l’autoproclamata capitale dello Stato Islamico sulla sponda irachena. L’attacco in grande stile ha l’obiettivo dichiarato di cacciare i miliziani islamisti dal territorio iracheno. La risonanza mediatica nasconde però due verità spesso passate sotto traccia:
- anche liberando Mosul, non si risolverebbe il problema dell’ingovernabilità dell’Iraq, sulla carta uno Stato federale amministrato con una sorta di triumvirato: Presidenza della Repubblica ai curdi; Governo agli sciiti; presidenza del Parlamento ai sunniti. La realtà è ben diversa. Con la Costituzione del 2005 si cerca di ricucire il tessuto di un Paese tenuto insieme in modo autoritario dagli anni ’60 in poi. L’ingresso delle forze regolari irachene nella città e la caduta del Califfato riaprirebbe il problema della successione al potere, mai risolto dalla caduta di Saddam in poi. Fatta salva la comunità assira che non ha peso politico, la variabile più delicata è infatti il rapporto fra i curdi e il potere centrale. Secondo alcune voci riportate da giornali arabi (AMN), le milizie curde non sarebbero intenzionate ad entrare a Mosul, ma sono segnalati viceversa bulldozer che scavano fossati all’altezza dei limiti amministrativi del Kurdistan iracheno, il cui capoluogo è Erbil, arcinota alle nostre Forze Armate. Com’era facile prevedere, i curdi iracheni, che sono la seconda comunità fra le quattro sparse nei Paesi vicini (Turchia, Siria e Iran), molto presto chiederanno di liquidare il credito accumulato combattendo il Califfato. Dietro il frastuono mediatico della vittoria sull’ISIS (questione solo di tempo), gli interrogativi rimarranno aperti: cosa succederà al nord dell’Iraq? Alle province di Erbil, Dahuk e Suleymaniyya (ufficialmente curde) si affiancano le rivendicazioni su altri governatorati tra cui spiccano Kirkuk, ricco di petrolio, e Ninawa, il cui capoluogo è proprio Mosul.
Qui entra in gioco la Turchia, le cui truppe, distanti appena 100 km, vengono descritte da molti media come in procinto di partecipare alla battaglia contro il Califfato. Niente di più errato. Unico obiettivo di Ankara è arginare l’indipendentismo curdo, così come sta avvenendo con l’operazione militare Scudo dell’Eufrate in Siria. In altri termini, una volta liberata Mosul, torneranno a galla i problemi lasciati sospesi dal conflitto siriano e dall’insorgenza islamista in Iraq.
- Il secondo punto su cui focalizzare l’attenzione è il trasferimento degli islamisti del Califfato dall’Iraq alla Siria. Non è necessaria l'impopolare intelligence di Damasco per lanciare l’allarme, basta il buon senso: che fine faranno i 9000 terroristi stimati a Mosul una volta che l’armata dei liberatori avrà ripulito la città? La risposta più facile è la fuga oltre il confine siriano, come detto molto vicino al governatorato assiro (quello di Mosul appunto). In realtà oltre confine ci sono i curdi siriani, anch’essi in guerra con l’ISIS. Più probabile quindi che le colonne in rotta dei miliziani si riversino in Siria attraverso la sponda più a sud, in direzione Deir Ezzor. Damasco accusa apertamente l’Arabia Saudita di essere la sponda logistica di questa possibile transumanza. Nonostante non ci sia un confine diretto fra Arabia e Siria, le province occidentali fuori controllo dell’Iraq si prestano bene al passaggio degli jihadisti sul fronte di Deir Ezzor, fortezza lealista in Siria assediata da anni, di cui abbiamo parlato molte volte su questa rubrica.
In sostanza la vittoria sul Califfato in Iraq darebbe due grandi risultati alla Coalizione anti terrorismo guidata dagli USA: sbandierare una vittoria importante e innegabile sul terreno; passare la patata bollente alla Siria, con ogni probabilità costretta a distogliere truppe dal fronte di Aleppo, dove la vittoria contro i ribelli islamisti (non l’ISIS, ma i ribelli anti Assad) sembra ormai più che possibile.
Quando l’armata anti ISIS liberò Falluja a giugno, i miliziani in fuga verso nord furono bombardati. Cosa succederà ora a quelli diretti in Siria?
A suo tempo mettemmo in risalto come le guerre contro lo Stato Islamico in Siria e in Iraq siano molto diverse tra loro. Oggi mettiamo in rilievo il modo diverso in cui vengono trattate: i caccia che bombardano Mosul, sono gli stessi che a settembre hanno colpito per “errore” le truppe siriane a Deir Ezzor, impegnate nella stessa causa.
Nella guerra delle Humvees (ce le hanno gli iracheni, i curdi iracheni, i curdi siriani e miliziani dell’ISIS) tutto si può dire tranne che la liberazione di Mosul porterà a una stabilizzazione dell’area. Il quadro cambierà, ma prima di parlare di pace ci vorrà molto tempo.
(immagini: AMN/web)