Veline e commenti si susseguono in questi minuti intorno ad uno dei più grandi scossoni toccati a mamma Europa dalla firma del Trattato di Roma in poi. Dalle 5,30 di questa mattina, da quando cioè lo scrutinio del referendum britannico ha imboccato una direzione chiara, agenzie e centri media hanno cominciato a rimbalzare la notizia: la Gran Bretagna esce dall’Unione Europea.
Nonostante il tentativo maldestro di influenzare l’elettorato indeciso diffondendo sondaggi tendenziosi, va detto che il risultato non sorprende più di tanto: che Brexit fosse un’eventualità più che concreta, lo si sapeva da almeno un anno.
Ciò che sorprende viceversa è la cecità con cui le linee di potere e i grandi gruppi d’influenza politica abbiano continuato a nicchiare nonostante le numerose avvisaglie premonitrici. Il codice rosso dell’Eurodisfatta ha ruotato intorno ad altre manifestazioni elettorali, che seppur in modi diversi, si sono susseguite per intere stagioni in ogni angolo del continente. Senza prendere ad esempio lo scenario patologico della Grecia, le indicazioni più significative sono venute da Paesi in crescita o comunque da quelle regioni dove le prospettive economiche sono meno disperate che altrove dando prova di un’espressione lucida di preferenza, non sempre e non per forza macchiata da provincialismi isterici. Dalle regionali in Francia alle elezioni politiche in Polonia, dalla Danimarca all'Ungheria, dalla Croazia alla Spagna, fino ad arrivare al controverso risultato delle elezioni austriache di poche settimane fa, un numero crescente di cittadini europei ha parlato chiaro per almeno due anni: di Bruxelles e di questa Europa non se ne può più.
Analisti politici ed economisti si sono superati nel tentativo di prevedere gli scenari nel caso di vittoria del leave o del reamain. Si è parlato di borse, di moneta, di spread, continuando a calcare la mano su temi lontani dalla vita comune di decine di milioni di uomini e donne, scaraventati per decenni nell’oblio della statistica e negli elenchi freddi dei rilevatori numerici.
In fondo, niente spiega meglio l’esito del voto britannico più del modo in cui viene commentato in queste ore. È la dimostrazione del divario ormai insanabile fra élite (di cui il circuito media fa parte) e gente comune: da una parte il potere, inteso in senso semantico, dall’altra la rabbia e la frustrazione di chi invece non può; da una parte S&P e le conseguenze economico finanziarie del voto, dall’altra il semplice senso dell’appartenere.
Ciononostante il confronto vero non è fra romanticismo anacronistico e modernità illuminata. Il cuore profondo della Gran Bretagna ha sancito una polarizzazione più concreta, declinata sull'incomaptibilità tra vita reale ed ebbrezze intellettuali, destinate a avere valore in circoli sempre più ristretti.
In Gran Bretagna hanno votato leave le miss Marple dell’Inghilterra profonda, i disoccupati incazzati di una working class bianca non più rappresentata, milioni di persone anonime di città di provincia e di remote contee rurali. Fatta eccezione per l’Irlanda del Nord dove ha pesato il voto cattolico antibrit e per la Scozia, dove la paura di affondare con Londra ha potuto più del voto per l’indipendenza di un anno fa, hanno votato remain tutte le classi non legate all’identità e alla tradizione, culla profonda della cultura britannica e inglese in particolare.
Hanno votato remain proprio coloro che con sufficiente arroganza continuano in queste ore ad etichettare il voto identitario britannico come “voto di protesta” prodotto della paura, della demagogia e della propaganda politica.
Il cuore del discorso è giusto qui. Non è importante come la si pensi. Politica e ideologia c’entrano semmai per pura utilità. Parliamo di sentimenti, di pancia. Una fetta non più minoritaria di cittadini europei si rifiuta di proseguire un cammino privo di riferimenti e di radici. A fronte di grandi aree metropolitane culturalmente irriconoscibili e abbandonate al default, pezzi interi di patrie silenziose si ribellano. Lo sconquasso che ne deriverà cambierà molte cose.
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